L’ARNIA GIGANTESCA DEL

 · di Rebecca Lena

Dunque mi è caduto il libro là dentro. Ma il suo volo mi ha lasciato un lieve desiderio di precipitare al contrario dentro l’infinito, cosa che, in verità, mi è successa davvero, o quasi, l’8 Agosto 2017.

8 Agosto 2017. Dormo profondamente. Ecco che compare, credo, un luogo. Le pareti che lo delimitano sono lontane, centinaia di pareti che definiscono una geometria inconcepibile; quando voglio raggiungerne una quella diventa immediatamente vicina. Non saprei dire chi si muove per prima. L’aria intorno è una foschia luminosa, a tratti grigia, come minacciata da lontani temporali di grafite.

Sono consapevole che questo è il luogo in cui è possibile rifugiarsi per risolvere un problema, un dubbio o semplicemente per riflettere in modo profondo. Non è raro infatti trovare qualcuno ritto in piedi nella nebbia, immobile come una statua, ad occhi spalancati. 

Qua gli uomini entrano in una meditazione profondissima. Talvolta a coppie, uno di fronte all’altro, per discutere a lungo senza parole.

Questo spazio non è reale perché vi si accede solo attraverso la dimensione del sogno. Ed io ne sono consapevole: sono qui perché sto sognando, dentro ad un sogno.

Cammino adagio fino a raggiungere una parete che appare bucata, una finestra buia? No, un quadro. Forse.

Il soggetto è rettangolare, logorato, come una porzione di cielo grigio. 

Accosto gli occhi alla tela e le pupille si dilatano. I contorni dello spazio si sfaldano, la ghiera del fuoco sugli occhi è frantumata.

La schiuma dell’aria mi sembra vibrare, tutto il mondo onirico trasalisce e quel brivido è un rumore solido dentro alle mie orecchie: adesso mi fa pensare ad una fusione casuale tra un phon e un aspirapolvere atterrati su Nettuno.

Vengo trascinata lentamente, o forse la parete e il quadro si avvicinano, comincio a penetrare le fibre incartapecorite dell’infinito nulla. E d’un tratto mi sovvengono parole di vaste vertigini intorno al vuoto, il movimento di un oceano fermo intorno al buco del nulla, profondissima ansia quieta. 

L’attrazione verso il quadro-finestra è irresistibile, sono consapevole che se non interrompo il flusso che dai miei occhi si dirige verso le linee fitte, microscopiche (mi ricordano dei cromosomi esposti a disseccare davanti a Dio), mi ritroverò perduta per sempre, là dentro; dentro la mia stessa cavità cosciente di niente che si proietta in me da quel foro, senza più possibilità di svegliarmi o tornare alla realtà. 

Non so infine come abbia fatto ad evitare la caduta con irreversibile dissoluzione, sono pur sveglia e viva adesso, così pare. Credo che il sogno si sia interrotto senza un vero e proprio finale.

Cosa ci fosse nel quadro-finestra ancora non mi è chiaro. La morte forse, può essere composta di tali segni e di tale rumore che risucchia i pensieri fra i minuscoli spazi vuoti? Oppure era un vortice immobile di potenziali combinazioni cromosomiche di qualunque cosa? O un irresistibile baratro di caos, di resti atrofizzati della memoria, che non si possono leggere né ordinare ma solamente comprendere col risveglio dal sogno della vita?

Insomma, io quel luogo – quel suono – lo avevo dimenticato, ne avevo scordata la frequenza, finché non è sgusciata fuori di nuovo, nel tremore ronzante di un libro che cade e cade all’infinito. Forse era davvero una finestra, quel buco, sull’arnia gigantesca del 

[non so ancora qual è quest’ultima parola]


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