di Mauro Fornaro https://appuntialessandrini.wordpress.com

Alessandria: Non c’è da stupirsi se la terrestre questione delle differenze, reali o presunte, tra donne e uomini sia arrivata alle soglie delle sfere celesti: di che genere è Dio? Più esattamente, perché il Dio ebraico-cristiano è padre e dunque presumibilmente maschio, come nelle splendide raffigurazioni della Cappella Sistina? È una questione che Stefano Zecchi tocca su Il Giornale del 25 novembre, a pagina 12, sotto il titolo “Dio neutro, senza genere.

Il politicamente corretto arriva persino in paradiso”. Lo spunto dell’articolo è offerto da una recente presa di posizione della Chiesa svedese (non si specifica se cattolica o protestante) che in nome della parità di genere propone di parlare di Dio al neutro.

Si ingenerano così non poche difficoltà linguistiche laddove i nomi si ripartiscano in maschili e femminili, ma soprattutto difficoltà teologiche enormi pensando al dogma trinitario (Padre, Figlio e Spirito Santo): “…. per milioni di cattolici si tratta di una volgarità che li offende nella loro fede”, conclude l’autore dell’articolo.

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Porsi a difensore di consolidate credenze cristiane non sembra però l’intento primario di Zecchi, che lascia la questione ai teologi. Piuttosto la questione è occasione per un ulteriore attacco particolarmente ruvido a quanti, scrive Zecchi, visti i “processi di globalizzazione, le incertezze delle appartenenze, religiose, sociali, sessuali, … esibiscono la manifesta stupidità di chi non è capace di rimanere silenziosamente imbecille”. Il riferimento va a quelle correnti che negano il valore di stabili identità e dunque di chiare differenze: è un trend sostenuto dalla cultura della società liquida, che scioglie appunto le identità di ogni tipo nella fluidità e reversibilità, segnatamente le diverse identità femminile e maschile.

A mio avviso l’autore sceglie una via sbagliata per perseguire un obiettivo condivisibile. Ma chi è Zecchi? Già allievo a Milano del filosofo Enzo Paci, vi ha poi insegnato estetica. Militante del Partito comunista in gioventù, ma lontano dal marxismo “ortodosso” e vicino al marxismo dello Ernst Bloch del Principio speranza (1954-59) aperto a dimensioni “spirituali”, lo abbiamo poi trovato assessore alla cultura sempre a Milano dal 2005 al 2006 nella giunta Albertini di centro destra, presente spesso in talk show televisivi e articolista appunto de Il giornale. Non interessa qui la sua conversione politico-culturale, se non come segno di una difficile compatibilità tra istanze identitarie (di genere, di etnia, di religione, ecc.) e una cultura di sinistra da cui pur proviene.  Piuttosto da evidenziare è il fatto che le sue concezioni su identità e differenza – secondo cui “la differenza rappresenta il senso stesso della vita: è il segno della nostra inviolabile identità che tutti devono rispettare” – appaiono fuorvianti una volta proiettate nella questione del sesso di Dio. Nella stessa tradizione cattolica, infatti, v’è un filone meno appariscente ma presente, che rileva la maternità di Dio, nel senso che a Dio sono pertinenti pure attributi femminili di amorevole tenerezza, di cura sollecita verso le creature. A valorizzare questa linea si era autorevolmente posto, per primo in tempi recenti, il breve astro di papa Luciani, fino ad affermare che Dio è anche madre. Dunque un Dio ermafrodita, cioè ad un tempo padre e madre, maschio e femmina?

Se il sesso e la differenza di sesso in natura – a partire quanto meno da Aristotele – hanno un senso, è perché servono alla riproduzione, essendo l’uomo mortale; ma Dio eterno e immortale non ha bisogno di riprodursi. Dunque la differenza sessuale non si addice a Dio, tanto più che quella sessuale è solo una delle modalità di riproduzione previste in natura. Pertanto Dio nella sua essenza è al di là della questione della sessualità: non è né maschio né femmina, non perché intersessuato o di terzo genere (come una volta si diceva degli omosessuali), ma perché non è definibile in termini di differenza di genere. Chiedersi di che genere è Dio, è tanto insensato quanto chiedere se le patate cantano o invece urlano, perché la categoria del canto non si applica alle patate.

Allora che senso ha dire che Dio è padre, dunque maschio, ma anche madre, dunque femmina? Non potendo parlare di Dio che dal punto di vista della nostra umana esperienza, negli inevitabili giochi proiettivi è comprensibile che gli si attribuiscano caratteristiche tipicamente maschili (potenza, signoria, regalità, ecc.) o tipicamente femminili (cura, tenerezza, conforto): ora esclusivamente le prime, ora anche le altre, in funzione della cultura al momento dominante. E quindi non c’è da stupirsi che oggi, rivalutando il femminile e i suoi specifici valori si attribuisca del femminile pure a Dio, cosa non concepibile in società fortemente patriarcali e maschiliste. Pertanto non è errato dire che se Dio nella tradizione ebraico-cristiana è tutto e creatore di tutto, è anche in certo senso femmina, cioè ha attributi psicologici pure femminili; sempre ben consapevoli, però, che quando si dice questo, si fa solo un’approssimazione metaforica a ciò per cui non ci sono parole appropriate per dire: eccede la nostra umana categorizzazione, che non può prescindere dalla differenza maschio-femmina, uomo-donna, padre-madre. (L’alternativa al parlare di Dio, per non correre il rischio di cadere in raffigurazioni antropomorfe, è tacere di Dio, per ribadire che Dio è sempre altro da ogni umana rappresentazione).

Da questo punto di vista Zecchi non si accorge che in fondo la Chiesa svedese non dice nulla di nuovo, sottolineando un aspetto sì minoritario, ma non estraneo alla cultura ebraico-cristiana, come appunto è l’attribuzione a Dio di caratteri altresì femminile. In tal senso Dio è davvero in se stesso “neutro”, cioè né l’uno né l’altro, né maschio né femmina, perché si pone al di là della distinzione sessuale e quindi è suscettibile di attribuzioni psicologiche di carattere sia maschile, sia femminile.

Dato dunque a Dio quel che è di Dio e volendo ora dare all’antropologo quel che è dell’antropologo, è da chiedersi: è poi pacifico che, come sopra ho detto, la nostra umana categorizzazione non può prescindere dalla differenza maschio-femmina, uomo-donna? È quanto palesemente negano i più radicali contestatori di ogni stabile identità di genere e anche di sesso: è il caso del cosiddetto pensiero queer , di cui massima esponente è la filosofa nordamericana Judith Butler, che fa leva sulla realtà dei transessuali, dei soggetti intersessuati e sulla reversibilità medicale del sesso. Pure teorici vicini ai movimenti LGBT relativizzano o mettono in dubbio le effettive differenze di genere, al fine di legittimare su un piano antropologico e filosofico più generale il matrimonio omosessuale nonché la omogenitorialità lesbica e gay, a proposito della quale suppongono una totale interscambiabilità tra genitorialità femminile e genitorialità maschile.

Di fronte a questo trend da una parte libertario, dall’altro perturbante si sono affrettatamente schierate la sinistra per la parte libertaria, la destra per la parte turbata dalle novità. Si comprende come da tempo Il giornale si sia fatto paladino delle posizioni conservatrici, con interventi anche pesanti, volti a ridicolizzare ogni messa in discussione di dualismi e di stereotipi culturali. Ma è un modo di tagliare con l’accetta questioni complesse, che a ben vedere dovrebbero invece tagliare trasversalmente destra e sinistra.

In effetti, la differenza di genere è questione psicologica, sociologica e pure biologica che non si presta a facili schematismi, se già sul piano biologico la definizione del sesso non è questione di tutto o niente, ma di una prevalenza in un senso o nell’altro di componenti comuni ai due sessi. Ed è una prevalenza che si definisce solo nel corso della sviluppo intrauterino, il cui esito però non è affatto scontato, come accade nel numero piccolo ma non irrisorio di soggetti cosiddetti intersessuati. Occorre pertanto tenere la rotta, senza infrangersi su uno dei due opposti scogli: quello del fissismo naturalistico, che fa derivare in maniera deterministica le differenza psichiche e comportamentali tra uomini e donne dalle differenze fisiologiche e prima ancora genetiche (che per altro non sempre sono chiare, al livello del 23esimo cromosoma); quello del costruzionismo sociale, che riconduce le differenze psichiche e comportamentali all’effetto di meri stereotipi linguistici e culturali. Insomma, identità e differenze tra donne e uomini non sono nulle, ma neanche hanno confini stabilmente predefiniti, astorici. Differenze comunque esistono dacché e finché ci riproduciamo in virtù di due sessi opposti, quale che sia la cultura che poi interpreta e realizza nell’interazione sociale quel dato biologico.

E su questo punto Zecchi ha ragione quando insiste sul senso delle differenze di quale che sia tipo, come elemento vitale per lo sviluppo dei singoli e dell’umanità, differenze che poi invocano integrazioni e nuovi equilibri nel rispetto delle specifiche identità. Così come ha ragione quando ricorda il paradosso, invero apparente, per cui “le uguaglianze si basano sulle differenze”, pena, aggiungo io, ridurre l’uguaglianza all’appiattimento dell’indifferenza, all’omologazione confusiva. In effetti è errore logico ricorrente in certo pensiero di matrice femminista, prima ancora che di matrice LGBT, confondere l’uguaglianza tra donne e uomini, a partire dall’uguaglianza di diritti, con la non differenza: si può ben essere uguali di valore e dignità essendo ad un tempo differenti per sensibilità e attitudini, tanto meglio