Riccardo Lera

di Riccardo Lera

(Racconto semiserio. Dedicato al Dottor Pietro Bagnasco)

Io avrò avuto quindici o sedici anni, non ricordo bene, facevo comunque ancora il liceo. Saranno state le tre o le quattro del mattino. Papà ci svegliò tutti quanti. 

“Mamma sta male, vuole vedervi tutti”. 

Ci precipitammo nella camera da letto dei nostri vecchi. Mamma era là, con un colore cereo da mummia egizia; tremava tutta, ogni suo muscolo era come attraversato da una scossa, da una clonia; era sudata fradicia, le labbra secche, la voce impastata. 

“Muoio” ci disse, “sto morendo”. 

E continuava a tremare. Ricordo che un’ansia terribile mi attanagliò la gola. Non sapevo cosa dirle, non so, chiederle se avesse male da qualche parte, niente, mi sentivo come una statua di sale.

“Muoio” continuava a mormorare lei, con noi tre ragazzi lì, raggelati di fronte ad un evento enormemente più grande della nostra umana comprensione. Papà cercava di confortala in qualche modo, ma non v’era rimedio alcuno; mamma scuoteva la testa in segno di diniego, come per far capire che tutto era inutile, che tanto lei sarebbe morta lo stesso. Squillò il campanello. Era il dottore, il nostro dottore, nel suo cappotto grigio. Papà doveva averlo chiamato poco prima di darci la sveglia. Arrivò nella stanza da letto dei miei, illuminata solo dalla fioca luce dell’abat-jour del comò di mamma. 

“Santina, kos’ti ghe?”. 

Anche se mamma non rispose, il dottor Bagnasco apri la sua borsa e ne cavò fuori il suo fonendo. La auscultò davanti, poi la fece sedere e l’auscultò sul dorso. Prese lo sfigmo e le misurò la pressione. 

“Santina, tìrte un po’ su” ed obbligò mamma ad alzarsi in piedi. 

Lei s’alzò di malavoglia, ma non osò disubbidirgli. Dalla sua bocca uscì come un’eruttazione soffocata, ma mia madre smise di tremare di colpo. Il dottore, guardò mamma negli occhi, la invitò a sedersi sul bordo del letto e nel più assoluto silenzio continuò a visitarla: l’addome, i riflessi, la lingua, la gola. Nel frattempo sentivo la mia tensione sciogliersi; mamma non moriva e quel medico, il dottor Bagnasco, questa cosa la sapeva, la sapeva (come adesso la saprei forse anch’io) fin da quando l’avevano chiamato a casa. Poi guardò mio padre: 

“E dopu quàtru rùti mal kacè, l’è pasò tutu”. 

Poi prosegui spiegando in termini semplici che la sfera ideativa, in pratica l’esame neurologico, era indenne e che probabilmente la mamma aveva bisogno di…; ma, non ricordo più i successivi dettagli. Il tono gioviale e sereno del medico s’era appiccicato alle pareti della stanza e a tutti noi; non solo mamma non moriva, ma in sostanza non aveva un accidente di niente. 

Ancora oggi mi ricorre alla memoria quella scena dove il nostro dottore mi appare come un Mago buono, quello dell’apprendista stregone di Fantasia di Walt Disney. Al suo arrivo il caos si fermò, le acque si placarono, ogni cosa si ricolorò della propria normalità. Mamma poi lo torturò in lungo e in largo sul perché questo le era occorso e lui, con pazienza, rispose a tutto. Ritornai a letto, felice del buon esito e stupefatto dalla capacità di comprensione su eventi per me assolutamente nascosti ed incomprensibili. 

Fu quella la notte in cui io decisi di fare il medico. E anche se adesso so quanto pesante sia il prezzo di quella conoscenza, dove l’ansia degli altri molte volte la paghi a durissimo prezzo con la tua, solo per dover soddisfare la necessità di chi sta davanti di una parola buona, di un po’ di conforto. Quel suo modo di essere medico, di parlare con la gente, mi colpì indelebilmente: fu la spoletta del mio destino universitario e professionale. Ho sempre cercato di mantenere, di fronte ai miei bambini ed ai miei genitori, quella sua professionale bonomia. So solo adesso quanto coraggio occorre per averla.