Sul ciglio della Foiba

Lorenzo Salimbeni (nato a Trieste nel 1978) è giornalista pubblicista, analista geopolitico e saggista storico, collabora con istituti di ricerca (Centro Studi Eurasia-Mediterraneo, Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, Coordinamento Adriatico), associazioni patriottiche e degli esuli istriani, fiumani e dalmati (Lega Nazionale, Comitato 10 Febbraio, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, FederEsuli).

Direttore responsabile della storica testata dell’ANVGD “Difesa Adriatica. Nuova serie”, ha pubblicato su periodici, riviste scientifiche e testate online lavori di ricerca e articoli divulgativi riguardo la storia del confine orientale italiano e le due guerre mondiali nei Balcani, parte dei quali sono confluiti nel suo primo libro “Sul ciglio della Foiba. Storie e vicende dell’italianità” (Pagine, Roma 2016).

Nel suo libro Salimbeni illustra come i nostri connazionali dell’Adriatico orientale nell’arco di un secolo furono chiamati “italiani d’Austria”, irredentisti oppure traditori, nemici del popolo ovvero patrioti, fascisti ma erano italiani, parafrasando un volume di Jan Bernas ed una canzone di Simone Cristicchi che sono stati dedicati alla fase finale di questa intricata storia: si tratta di un’identità italiana affermata a costo di enormi sacrifici e che più volte si è trovata “Sul ciglio della foiba”, a rischio di venire negata, annientata ovvero dimenticata.

Il primo tentativo di negare l’italianità delle terre adriatiche avvenne durante il dominio dell’Impero austro-ungarico in queste terre dopo le tre guerre d’indipendenza: gli italiani erano ormai diventati una minoranza pericolosa, sempre più desiderosa di entrare a far parte del Regno d’Italia, sicché gli Asburgo si appoggiarono a sloveni e croati contrapponendoli secondo una logica del divide et impera agli italiani nelle terre in cui queste comunità etniche convivevano da secoli, avviando la pericolosa logica degli opposti nazionalismi.

Questa contrapposizione si esasperò, anche a causa delle politiche del cosiddetto “fascismo di frontiera”, fino a portare al secondo rischio di eliminazione dell’italianità, per opera della politica persecutoria dei partigiani jugoslavi, i quali, dietro il velo della bandiera rossa comunista, portavano avanti un progetto ultranazionalista anti-italiano, finalizzato ad annettere alla rinascente Jugoslavia anche quelle terre in cui gli slavi rappresentavano una minoranza al cospetto della maggioranza italiana (Trieste, Gorizia, Zara, Fiume e la costa istriana).

E oggi il nuovo rischio che questa storia corre è quello di venire obliata, travisata, manipolata, strumentalizzata e minimizzata, laddove essa deve entrare a far parte del patrimonio storico condiviso della comunità nazionale.

Latori di questa identità nazionale così avversata sono gli italiani della Venezia Giulia (Trieste, Gorizia e Istria), di Fiume e della Dalmazia, il 90% dei quali abbandonò tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso le terre in cui vivevano radicati da secoli e secoli, dopo che centinaia dei loro amici, parenti e conoscenti precipitarono nelle Foibe del Carso, finirono gettati nel mare Adriatico con una pietra legata al collo o morirono di stenti e di arbitrarie esecuzioni nei campi di prigionia e di lavori forzati allestiti dal maresciallo Tito, padre e padrone di una Jugoslavia comunista di nome ma nazionalista di fatto, sorta al termine di una lotta partigiana che fu anche guerra civile e di annientamento di quanto rappresentava l’italianità nell’Adriatico orientale.