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Uno dei temi più dibattuti è quello del lavoro che purtroppo non c’è nonostante la presenza dell’articolo 1 della Costituzione dove leggiamo che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

La politica tutta promette in questi giorni, ai giovani in particolare, di voler guardare alle loro legittime aspettative di affermazione nel campo del lavoro per consentire l’affermazione della loro dignità di persona.

Di questo tema abbiamo di recente discusso al Circolo della Concordia: un dibattito nel quale è stato posto l’accento sul fatto che tutti promettono di “creare nuovi posti di lavoro”, mentre sarebbe il caso di affrontare il tema sotto un’altra angolatura e cioè come “non distruggere i posti di lavoro già esistenti”.

Lo spunto per riflettere su questo particolare aspetto del problema ci è stato fornito dalla vicenda vissuta dall’imprenditore di Recanati Aldo Cipolletta che, per vedersi riconosciuto il diritto ad ottenere la liquidazione delle sue spettanze di diritto, quale creditore della Cooperativa “Villaggio Le Grazie” che era insolvente, ha dovuto attendere ben 33 anni. Un diritto che gli è stato riconosciuto, è bene ribadirlo, non dalla giustizia italiana, ma dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo (CEDU) che ha condannato l’Italia per l’eccessiva lentezza dell’azione giudiziaria. I tempi si sono protratti così a lungo che il Cipolletta è morto, prima della sentenza, alla età di 89 anni.

Aldilà dei casi limite come questo vissuto dal Cipolletta, la lentezza della giustizia civile – e non solo a dire il vero quella civile – è, a livello europeo, superata dalla sola Grecia : un imprenditore italiano per avere giustizia in una causa civile deve aspettare in media – se tutto va bene – 1.185 giorni, cioè più di 3 anni, contro i 1.300 giorni dell’imprenditore greco. Ma si tratta di numeri che non descrivono tutta la drammaticità del mondo giustizia italiano: basta solo riflettere sul fatto che l’Italia ha un tessuto produttivo che non può essere assolutamente paragonabile a quello greco dove di fatto non c’è industria manifatturiera comparabile con quella italiana.

La drammatica lentezza della giustizia civile italiana trova ulteriore conferma nella procedura fallimentare: in Italia bisogna avere pazienza e aspettare in media 7 anni.

Sono numeri che dovrebbero far riflettere la politica – e ovviamente anche la stessa Magistratura – che un simile modo di procedere della giustizia è, in un’economia globalizzata, un freno per le aziende italiane che riduce, e di molto, la loro competitività nei confronti degli operatori economici stranieri.

Bisogna che da parte di tutti i protagonisti venga finalmente acquisita la consapevolezza che i ritardi della giustizia ricadono inevitabilmente anche sul sistema economico paralizzandolo. Altrimenti detto che la patologia della giustizia italiana sta portando al collasso dell’intero sistema delle nostre attività produttive.

Ed è così che la giustizia da strumento di garanzia s’è trasformato nel tempo un’ulteriore ostacolo nella vita quotidiana del cittadino.

Recentemente è intervenuto sul tema anche il Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani affermando che “la lentezza dei processi equivale all’uno, al due, a volte anche al tre per cento del nostro Prodotto interno lordo. Un danno enorme all’economia. E’ tempo di cambiare”.

Le statistiche ci dicono che in Italia ogni anno chiudono i battenti centinaia di aziende proprio a causa della lentezza della macchina giudiziaria. E ogni azienda che chiude sovente significa decine di dipendenti che rimangono a casa. Da qui la proposta emersa dal dibattito al Circolo: Si promettano pure nuovi posti di lavoro, ma prima si pensi a non distruggere i posti di lavoro esistenti.

Trasmetto stralcio del dibattito per eventuale pubblicazione.

A nome del Circolo Giuseppe Castronovo

TRENTATRE ANNI PER FAR RISCUOTERE UN CREDITO NON BASTANO ALLA GIUSTIZIA ITALIANA. CI PENSA LA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA , MA NEL FRATTEMPO IL CREDITORE  PASSA A MIGLIOR VITA

Totò:  è proprio da leggere!

Marco: che cosa?

Totò: questa notizia.

Ludovico: cosa dice?

Totò: l’imprenditore Aldo Cipolletta di Recanati, vince la causa e gli viene riconosciuto il credito dallo steso vantato per una somma di quasi 130.000 euro.

Ludovico: dove sta la notizia?

Totò: tre momenti di riflessione amici miei: 

I°- che sono trascorsi 33 anni da quando ( eravamo nel 1985) il Cipolletta chiese, a termini di legge, il pagamento del credito vantato nei confronti di una Cooperativa edilizia;

II° – che l’importo, allora a 300 milioni circa, rappresentò una triste vicenda sul piano politico/economico e sociale della città che diede i natali al poeta Giacomo Leopardi;

III° – che il suo diritto è stato riconosciuto quando il Cipolletta, all’età di 89 anni,  è già  passato a miglior vita.

Ludovico: ritengo che anche alla luce di fatti come questo  la Classe politica tutta e la Magistratura italiana dovrebbero  chiedersi se han fatto tutto quanto era nelle loro possibilità. Se per un credito maturato a 60 anni devo aspettare, in caso di controversie, 30 anni per aver riconosciuto il mio diritto sicuramente c’è qualcosa che non va.

Giacomo: lentezze giudiziarie e caos legislativo che provocano fallimenti di aziende, licenziamenti di operai, banche impossibilitate a recuperare i loro crediti e in definitiva un’economia da quarto mondo.

Questa, amici miei, è l’Italia del P. I. L. che non cresce! Questo è il triste risultato di un sistema che non valuta il lavoro del  potere legislativo e il lavoro dell’ordine giudiziario anche secondo parametri di analisi economica. Forse è arrivato il momento in cui politica e magistratura acquisiscano finalmente, ciascuno per la parte di sua competenza,   la consapevolezza che più che promettere nuovi posti di lavoro è necessario  incominciare a pensare a come non distruggere i pochi posti di lavoro ancora esistenti.

Totò: Prof. Vezio ci dica la sua.

Vezio: grazie amici. Qualche riflessione.

Mi sia innanzi tutto consentito chiamarvi a riflettere sul fatto che la soluzione della “vicenda Cipolletta” non è merito dei giudici italiani, ma della Corte Europea dei Diritti dell’uomo (CEDU) .

Per i giudici italiani, infatti, Il nostro Ordinamento giuridico, nonostante la presenza di oltre 150.000 leggi, non prevede una norma, un articolo, un comma  – chiamatelo come volete voi – che permetta  loro di riconoscere al Cipolletta la violazione di un suo diritto, tutelato dalla legge, da parte della Cooperativa edilizia  “Le Grazie”.

Ed è stato così che la Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha per l’ennesima volta condannato l’Italia!

Non parliamo poi dell’art. 111 della Costituzione, nel testo novellato dalla legge costituzionale n.2/1999, dove leggiamo che al cittadino deve essere garantita la “ragionevole durata” del processo.  Risparmiatemi ogni commento in merito. Ecco perché langue la nostra economia: le aziende molto spesso sono costrette a chiudere i loro battenti e a licenziare i loro collaboratori   in attesa che ci sia un giudice in grado di trovare  tra le 150.000 leggi  il comma più  idoneo  a risolvere il caso sottopostogli.  Altrimenti detto: un giudice in grado di trovare il classico “ago nel pagliaio”.

Amici miei pensate un po’ cosa possa  significare nella vita di ognuno di noi un arco di tempo lungo 30anni! Altro che “ragionevole durata”, qui possiamo parlare di  “lucida follia”.

  Scusatemi se  mi dilungo più del solito ricordandovi il pensiero del saggio  ceco JAN SOBOTKA:

“E’ dimostrato che si può sopravvivere 3 giorni senza avere acqua, 2 mesi senza ricevere cibo e tutta la vita senza ottenere giustizia”.

(Dai Dialoghi svolti al Circolo della Concordia)

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