Giriamo pagina

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Il “renzismo” mi è piaciuto almeno al 90% nel suo tentativo di riforma dello Stato, dall’Italicum al referendum del dicembre 2016: specie per la proposta di un sistema elettorale a doppio turno e con premio di maggioranza, in cui a dare la fiducia ai governi fosse solo la Camera dei deputati.

Purtroppo nel dicembre 2016 è stato bocciato dal 60% degli italiani. Ma io seguito a pensare che avesse ragione il 40%, e che anzi le ragioni del 40%, con qualche adattamento imposto dalla Corte Costituzionale, andassero difese con accanimento, anche a costo di “accorciare” un poco la legislatura.

Il “renzismo” di governo – pur facendo sempre la tara ad alcuni “bonus” transitori ed inutili, o alla ben discutibile abolizione dell’originario articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, da me sempre criticata – mi è piaciuto. Sono convinto che i governi Renzi e Gentiloni, che hanno caratterizzato gli ultimi quattro e quasi cinque anni, siano stati tra i migliori della seconda Repubblica.

Hanno fatto bene, e comunque meglio di tutti quelli dal 1994 in poi. Tali governi sono stati duramente puniti dall’elettorato, il 4 marzo, perché il buono che hanno combinato era assolutamente inferiore alle drammatiche necessità del Paese.  Curavano con aspirine, o fosse pure con la penicillina, un corpo (sociale) che avrebbe avuto (e avrebbe) bisogno di chirurgia audace, o addirittura di chemioterapia, che però nessun governo poteva e potrà propinare finché vigeranno norme elettorali e costituzionali che rendono possibili solo governi più o meno deboli.

I principi della prima parte della Costituzione per me sono inviolabili, ma quelli sulle regole del gioco, sull’architettura istituzionale e sulle leggi elettorali, sono stati e sono una remora fortissima allo sviluppo, almeno nelle gravi crisi economiche, ma anche semplicemente nell’era della globalizzazione e delle migrazioni di massa, in cui la barca di chi governa rema sempre controcorrente. Entro tali limiti i governi da Renzi a Gentiloni hanno fatto quel che potevano fare, e forse persino qualcosa in più.

  Ma tutti questi meriti non rendono il “renzismo” il bene assoluto. Già prima avevo notato una notevole discrasia tra le qualità nell’arte di governare (che a me sono parse, da Renzi a Gentiloni, piuttosto buone) e l’arte della politica intesa come capacità di essere capi partito e tessitori di alleanze e scenari possibili tra partiti diversi. La vocazione di Renzi era quella di essere il sindaco d’Italia, vuoi come governante e vuoi come riformatore della governabilità. Su piani più politici era ed è molto più debole. E dopo il 4 marzo il contrasto tra questi due ruoli, o “vocazioni”, si è esasperato. Vale per Renzi e per molta parte della direzione del PD. Per me a partire dalla pretesa sinistra del PD.

  La tattica del “trarse fora”, del “governate voi che avete vinto, o dite di aver vinto, le elezioni”, l’ho capita e la capisco benissimo, come risposta tattica alla batosta del marzo 2018. Serviva per far toccare con mano al popolo italiano che M5S, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia non potevano fare nessun governo, dopo aver tanto sputacchiato sul PD e sui “suoi” governi. Col loro 69% (32 del M5S e 37 del centrodestra) possono farci la birra, essendo prigionieri delle loro insolubili contraddizioni. Il M5S non poteva e non può infatti accogliere Forza Italia e Berlusconi; e la Lega e Salvini non potevano e non possono mollare Forza Italia e Berlusconi. Nel primo caso il M5S si sarebbe totalmente sputtanato o si sputtanerebbe, tanto che già nel piccolo Molise ha subito una battuta d’arresto rispetto al 4 marzo; nel secondo caso Salvini non sarebbe più stato e non sarebbe più il leader del 37% della sua Coalizione, ma solo del 17% del suo partito. Ora l’impotenza di tutti questi avversari del PD – M5S, Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, col loro 69%, a fare qualunque governo, è stata dimostrata. E acclarata dal Presidente della Repubblica. Ma insistere, come PD, con le “conventio ad excludendum” verso il  M5S, pur con le gravi ambiguità di tale Movimento, a questo punto diverrebbe letale.

   Forse qualcuno vuole ora tener duro nella politica della non-contaminazione del PD vuoi con la Lega e vuoi con il M5S, escludendo il governo tra M5Se PD perché ritiene che arriverà, comunque, un governo del Presidente, magari impersonato poi da Fico stesso. Se il tutto vuol essere solo il modo per dar vita a un governo del M5S impersonato da un pentastellato più credibilmente di sinistra, come Fico, invece che da Di Maio, tutto va bene. (Anche se bisogna stare attenti a non trovarsi soli col cerino in mano, e il rischio c’é).

  Se invece il “niet” renziano a un governo o col M5S, oppure del M5S con appoggio esterno del PD, seguitasse a durare pure nei prossimi giorni e settimane, la cosa risulterebbe così assurda da essere demenziale. Tanto più che il Governo del Presidente, se sarà di Fico, non sarà sostenuto né dalla Lega né da Fratelli d’Italia né probabilmente da Forza Italia, e se sarà “d’altri” sarà osteggiato sia dal M5S che dalla Lega, che poi andranno all’incasso alle elezioni, tra un paio d’anni, lucrando sul fallimento di un governo squalificato, ancora una volta non corrispondente al voto degli italiani e imperniato sul duo PD-Forza Italia, presentati come “i soliti ignoti” (anche se ci saranno altre piccole forze di complemento). Ma il rischio immediato è persino superiore. In sostanza se il dialogo – attraverso Fico, e dopo il tentativo di Fico – tra M5S e PD fallirà, le elezioni politiche quanto più possibile anticipate diverranno probabili, e il PD, come già si è visto nel piccolo Molise, potrà scendere dal suo triste 18 d’oggi sotto il 10%. Gli verrà persino caricata addosso la responsabilità di aver impedito la governabilità e di aver provocato elezioni anticipate.

  Perciò il PD è “condannato”, almeno razionalmente, a trovare – o in forma di governo comune (probabilmente con Fico presidente) o di appoggio esterno a un governo Di Maio – l’accordo con i “Cinque stelle”. E’ giusto partire dai programmi, dall’impegno per l’Unione Europea al reddito d’inclusione, alla lotta alla povertà, eccetera. E persino essere sempre pronti a rompere su temi decisivi. Ma bisogna ormai trattare, come PD e M5S, e non con lo spirito di chi operi per far fallire l’intesa, ma di chi operi per farla riuscire. Ho l’impressione che il “reggente” del PD, Martina, l’abbia compreso, e che l’abbia pure compreso Graziano Delrio, che continuo a ritenere il solo leader capace di seguitare il “renzismo” senza i limiti antichi, e tanto più recenti, del “fondatore”. Giriamo pagina. Ne va della vita del PD, che potrebbe anche essere un valore relativo se da essa non dipendesse il futuro della sinistra. Domani è un altro giorno.