Catena umana, di Massimo Gramellini

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Emilio Lentini, operaio cinquantenne di Vimodrone, in provincia di Milano, ha avuto la vita salvata due volte. La prima dal figlio, che gli ha donato il midollo osseo. La seconda dai colleghi, che si sono tolti il tempo dalle tasche e gli hanno regalato novecento e undici ore di ferie — circa sei mesi di turni — per permettergli di completare la convalescenza senza rinunciare allo stipendio.

Tra i benefattori del signor Lentini, molti lavorano in un’altra ditta del medesimo gruppo e non lo conoscevano neppure, ma in loro è scattato qualcosa di inspiegabile a chi non lo abbia mai provato sulla propria pelle: il richiamo dell’appartenenza a una stessa comunità.
Mi chiedo se sarà ancora possibile in futuro commuoversi con storie come questa, che presuppongono l’esistenza di un numero consistente di persone intente a lavorare insieme e in modo continuativo per un marchio d’impresa o per un’istituzione in cui si riconoscono, quasi fosse un circolo esclusivo.

Ma in quale comunità potranno mai riconoscersi dei poveri cristi che cambiano impiego ogni tre mesi, sempre che riescano a trovarlo? A chi regalerà le sue ferie un lavoratore a chiamata, che di ferie non ne ha? Neanche il reddito di cittadinanza potrà fornire identità a un esercito di disoccupate solitudini, le cui uniche appartenenze possibili si riducono ai gruppi sempre più settoriali e asfittici che proliferano sul web, dove gli «amici» non ti regalano tempo, ma al limite qualche «like».