Zimbabwe, tra gli agricoltori bianchi ritornati nelle fattorie dopo 18 anni

Mnangagwa restituisce le terre sottratte durante il regno del terrore di Mugabe. Oggi le elezioni. Per la prima volta in 37 anni non ci sarà il dittatore 93enne

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Robert e Darren Smart, padre e figlio, posano con alcuni contadini nella tenuta da 7 mila ettari, a 250 chilometri a Sud-Est dalla capitale Harare. A due anni dall’esproprio violento sono tornati nella loro fattoria

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LORENZO SIMONCELLI HARARE (ZIMBABWE)

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È ancora incredulo Kanyimbo, il vecchio guardiano scheletrico della Lesbury Estate, una tenuta da 7mila ettari nel Manicaland, 250 chilometri a sud-est di Harare, capitale dello Zimbabwe. Dopo mesi di attesa, al cancello della proprietà, si sono materializzate le sagome di due uomini: bianchi, bermuda e cappelli da cowboy in testa.

Indizi sufficienti per chi li conosce da una vita e aspettava ansiosamente il loro ritorno. Sono Robert e Darren Smart, padre e figlio, i primi proprietari terrieri bianchi zimbabwani a poter rientrare nella tenuta che gli era stata sottratta due anni fa.

Dopo mesi di attesa, al cancello della proprietà, si sono materializzate le sagome di due uomini: bianchi, bermuda e cappelli da cowboy in testa. Indizi sufficienti per chi li conosce da una vita e aspettava ansiosamente il loro ritorno Una decisione presa da Emmerson Mnangagwa, il nuovo presidente dello Zimbabwe, colui che, lo scorso novembre, con il supporto dell’esercito, ha sostituto Robert Mugabe, l’uomo che ha guidato per 37 anni il Paese con il pugno di ferro e che, tra il 2000 ed il 2017, ha espropriato le terre di circa 4mila contadini bianchi per redistribuirle alla cerchia magica di militari e politici che lo circondava. 

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Lo scontro razziale  

L’emozione si taglia nell’aria. La notizia si diffonde e in pochi minuti l’intero villaggio si riversa ai cancelli della tenuta. La narrativa dello scontro razziale cavalcata da Mugabe si sgretola nel vedere bambini e anziani azzuffarsi per abbracciare Robert e Darren. La famiglia Smart, da queste parti, è sinonimo di lavoro e istruzione, fino a una notte di due anni fa. «Un gruppo di uomini armati è entrato nella nostra casa e ha iniziato a distruggere tutto, ho avuto il tempo di prendere mio figlio di sei anni e mia moglie e scappare su una collina che circonda la proprietà – ricorda Darren Smart, agricoltore bianco dello Zimbabwe – siamo rimasti lì per ore, terrorizzati, mentre loro saccheggiavano la nostra casa e sparavano all’impazzata». Dopo quella notte la tenuta è passata nelle mani di un prelato della Chiesa cristiana pentecostale, amico di Mugabe, e incapace di far fruttare le colture presenti. Una dinamica diffusa in tutto il Paese, costata 17 miliardi di dollari alle già dilapidate casse pubbliche e che ha portato al collasso del settore agricolo dello Zimbabwe, una volta considerato il «granaio d’Africa». Un effetto a catena che ha portato sul lastrico migliaia di famiglie di contadini bianchi e centinaia di migliaia di lavoratori, andando a ingrossare una disoccupazione prossima al 90%, ancora oggi una delle più alte al mondo. 

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L’ex granaio dell’Africa  

«Sono stati anni difficili, date le nostre conoscenze abbiamo ricevuto molte offerte per andare a lavorare in Australia, Canada, Regno Unito, ma noi siamo dello Zimbabwe, abbiamo deciso di restare per lottare insieme alla nostra gente e adesso siamo pronti a ricostruire il futuro di questo Paese» afferma Darren Smart. Il padre Robert scruta i campi all’orizzonte, le enormi distese di tabacco, di cui lo Zimbabwe è uno dei principali esportatori al mondo sia per qualità che per quantità. «Spero un giorno di poter tornare a vedere la mia proprietà rigogliosa come era prima – afferma Robert, il decano della famiglia Smart – avevamo grano e tabacco, ma sono molto costosi e, al momento, ci possiamo permettere di coltivare solo patate». L’Associazione che riunisce i contadini bianchi dello Zimbabwe ha già chiesto al nuovo governo una compensazione per i danni subiti pari a 10 miliardi di dollari, ma tutto dipenderà dall’esito delle elezioni di lunedì. Un evento molto atteso, di portata storica, dato che, per la prima volta dall’indipendenza nel 1980, sulla scheda elettorale non sarà presente il volto di Robert Mugabe. Mnangagwa, suo braccio destro per 30 anni, se la vedrà con il giovane profeta Nelson Chamisa, esponente del Movimento per il Cambiamento democratico (Mdc). Per la prima volta saranno ammessi osservatori internazionali, anche dell’Ue, molto critica nei confronti della gestione Mugabe punita con salate sanzioni economiche per il mancato rispetto dei diritti umani. Ieri il 93enne Mugabe è ricomparso in pubblico a sorpresa, dichiarando che non voterà per il suo successore Mnangagwa: «Ha preso il potere illegalmente», ha accusato. Ma, ha assicurato, «chiunque vinca accetteremo il risultato». 

La sfida alle urne  

Al netto di consultazioni senza brogli lo scontro si potrebbe decidere per qualche migliaia di voti, anche se «Il Coccodrillo», come è soprannominato Mnangagwa per i suoi metodi non troppo democratici, sembra in testa soprattutto nelle zone rurali del Paese, roccaforti dello Zanu-Pf, l’unico partito ad aver guidato lo Zimbabwe nell’era post-coloniale. «Si respira un’aria nuova e dobbiamo ringraziare il presidente Mnangagwa che ci ha permesso di riappropriarci di almeno una parte della tenuta – afferma Darren Smart, proprietario della Lesbury Estate di Matare – ma adesso chiediamo al nuovo governo che si insedierà finanziamenti per ricostruire tutto quello che è stato distrutto». Non è un caso che uno degli ultimi comizi elettorali dell’attuale presidente Mnangagwa sia stato proprio con un gruppo di proprietari terrieri bianchi, per provare a convincerli che quanto successo sotto Mugabe è irripetibile e che senza di loro il «granaio d’Africa» difficilmente riprenderà a dare frutti.