Emozioni dietro le quinte. Intervista all’attore Bruno Pennasso a cura di Marcello Comitini

Alessandria today, dopo aver pubblicato la biografia dell’attore Bruno Pennasso che trovate a questo link:
https://alessandria.today/2018/08/25/bruno-pennasso-attore-si-presenta-ai-lettori-di-alessandria-today/

da Nel nome del padre 1 rit
Bruno Pennasso in “Nel nome del padre” di Luigi Lunari

è lieta di pubblicare l’intervista  gentilmente rilasciataci dall’amico Bruno.
Ma prima vorrei sottolineare quanto siano interessanti le sue risposte:
hanno il potere condurci oltre insospettate quinte.
Non quelle fisiche che vediamo nei palcoscenici del teatro, ma quelle che
celano l’uomo a
gli spettatori. 

Ciao Bruno! Innanzitutto, grazie di essere qui con noi!  Potresti presentarti brevemente? Raccontaci chi sei, cosa fai nella tua vita, quali sono le tue passioni.

Buongiorno! Grazie a te per avermi proposto questa intervista. Sono un po’ emozionato perché è una delle rarissime interviste che mi viene richiesta!
Chi sono… a volte mi sembra di essere don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento!!! Nel senso che ho sempre creduto nell’Arte, quella vera, quella che costa fatica, quella che ha bisogno di studio e dedizione per essere espressa ma anche passione, amore e voglia di darsi al 100 %! E invece vedo intorno a me tanti cloni, tanti burattini che scimmiottano!

In che misura il tuo rapporto con la tua città ha influito o meno sulla tua formazione?

Quando ho iniziato a pensare di voler fare l’attore di professione (che brutta parola!) mi sono guardato intorno e ho scovato una piccola scuola di recitazione (era il 1969… una vita fa!), volevo iniziare dall’abc quindi dizione e primi rudimenti. Dopo i primi due anni fortunatamente uno dei docenti prese sotto la sua ala alcuni tra noi allievi –e la cosa mi inorgoglì non poco- per continuare il lavoro più seriamente. Da lì iniziai a pensare che era la mia strada e infatti frequentai la Scuola dello Stabile, poi sostenni i primi provini e, in seguito con l’incontro con Beppe Navello arrivò la prima Compagnia (Cooperativa Teatro Proposta). Quindi devo molto alla mia città che mi ha offerto quasi su un piatto d’argento quanto cercavo.

Parlaci dell’inizio della tua avventura con il Teatro. Perché il teatro e non il cinema?

L’inizio, quindi il mio primo ruolo come attore professionista, avvenne nel 1974 in “L’eccezione e la regola” di B. Brecht in cui ero “la guida” ( mi ritrovai inoltre a sostituire colleghi attori arrivando a ricoprire tutti i ruoli maschili dell’opera).
Poi Festival di Chieri (allora era un festival teatrale molto importante), varie piazze in Piemonte, a Roma, e nel circuito del Lazio.
E avanti fino al 1976 con Affabulazione che Pasolini stesso ci aveva affidato -mai rappresentato in assoluto!
Ero al settimo cielo, mi sembrava un sogno.
Ma poi feci una scelta drastica.
Mio padre era morto nel 1970, mia madre era rimasta sola.
Allora decisi di continuare con la mia passione ma di fermarmi a Torino: capii che mia madre aveva bisogno di me.
Così scelsi un lavoro più di nicchia, una realtà che mi consentisse di scoprire tutti gli aspetti del Teatro: non solo l’attore, quello che si prende gli applausi (se tutto va bene) ma anche tutto quello che c’è dietro le quinte e che serve perché uno spettacolo possa andare in scena.
A quel punto incontrai la Cooperativa Teatro Zeta: una realtà molto importante della mia città.

Il teatro: la mia vita!

Quali sono le influenze maggiori che senti in te nel tuo recitare? Ci sono attori a cui ti ispiri?

Quelle che mi suggerisce la mia anima nel momento in cui inizio a studiare il personaggio; una sorta di transfert. Non mi basta studiare il personaggio devo anche capire chi è, cosa ha fatto, cosa voleva dire l’autore quando ha scritto quella determinata opera. Non ho mai sentito la necessità di scimmiottare qualcun altro tutt’al più mi interessano quegli attori che ritengo “veri”.

Secondo il tuo punto di vista, che vivi l’esperienza teatrale dall’interno, perché il teatro fa così breccia nel cuore degli spettatori al punto che spesso chi ama il teatro lo preferisce a qualsiasi altro tipo di spettacolo?

Perché il teatro è vita, è specchio della realtà e avviene “in diretta”. Tutto si svolge sotto gli occhi degli spettatori e se si è capaci di creare la magia necessaria il teatro è vissuto insieme: attori / spettatori. Non so perché chi ama il teatro lo preferisca ad altro: bisognerebbe chiederlo a uno spettatore.

Spesso il teatro ripropone spettacoli già in cartellone negli anni precedenti. Eppure gli spettatori vengono ugualmente ad assistervi.
Che idea ti sei fatta di un tale atteggiamento del pubblico di fronte a vicende narrative già conosciute?

Perché alcune delle opere proposte e riproposte sono pietre miliari; sono come gli oggetti preziosi di una famiglia: vengono tramandati di padre in figlio!

Ritieni che lo spettacolo teatrale sia essenzialmente uno spettacolo di élite?

Vorrei tanto risponderti di no ma non è così! Ebbene sì il teatro, almeno il teatro con la “t” maiuscola è uno spettacolo di élite. Lo so che non dovrebbe essere, che, anzi dovrebbe essere per tutti come avviene in altri Paesi europei ma purtroppo qui da noi c’è ancora l’uso del “Sai stasera vado al teatro !!!” – il che significa posso permettermi uno spettacolo “vero”.

Quale dei personaggi sin qui interpretati ti ha colpito maggiormente? C’è mai stato un ruolo che hai fatto fatica a sentire come tuo?

Sicuramente “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello. E’ un personaggio che mi è costata tanta fatica soprattutto fisica ma ne è valsa la pena. L’ho sentito veramente mio anche perché mi ha riportato alla mente la malattia e la morte di mio padre.
Invece faccio sempre un po’ più fatica a entrare nei ruoli più leggeri, più comici; sono più portato al drammatico!

Quando si alza il sipario e senti nell’oscurità della sala la presenza degli spettatori che attendono silenziosi e attenti lo svolgersi della narrazione, quali pensieri ti attraversano? Sono pensieri inerenti lo spettacolo nel suo complesso o riguardano te come persona? Oppure sono rivolti alle tue capacità interpretative in rapporto al tuo ruolo?

Ci sono due momenti ben precisi: il primo momento l’attimo prima del sipario (oddio com’è la prima battuta?, o cavolo non me la ricordo più!!!!!), quella sensazione è solo quella di Bruno, perché poi tutto arriva come un fiume: infatti io sono già il personaggio e il personaggio sa perfettamente quel che deve dire e come lo deve dire. Ecco da questo momento (il secondo) devo solo cercare di arrivare all’anima degli spettatori; e per questo ho sempre risposto a chi mi chiede “Cosa è per te il successo?” “Arrivare all’anima anche solo di uno spettatore e sentirlo vibrare insieme con me”.

In assenza di altri personaggi, nello spettacolo “Aquila sapiens sapiens (Canto per Prometeo)” di Maria Letizia Compatangelo, quale sensazione interpretativa diversa hai sperimentato in quanto monologo ?

Il monologo ovviamente è qualcosa di estremamente difficile… e facile allo stesso tempo. Mi spiego: in un dialogo hai quasi sempre l’appoggio di un altro compagno di scena che ti da la battuta alla quale devi rispondere, nel monologo devi fare tutto da solo!
Forse più facile perché se non ricordi esattamente la battuta te la puoi giostrare ma anche più difficile perché se hai un vuoto sono cavoli amari!!! Ma anche in un dialogo se non ti arriva la battuta giusta sono cavoli!!!

A questo proposito ricordo una replica dell’Eccezione a Roma: un’attrice mi doveva rivolgere una domanda; io ero seduto su uno scranno fronte al pubblico. La battuta non arrivava perché la fanciulla era entrata nel panico più completo… Che fare? A quel punto visto che non recepiva nemmeno i suggerimenti ho ribaltato la situazione e ho sentenziato “Ahhh voi vorreste chiedermi se….” . Sudori a litri!!!
Il monologo “Aquila sapiens, sapiens” della Compatangelo è scritto talmente bene e con un pathos tale che è stato un gioco da ragazzi metterlo in scena. È costruito veramente come un orologio svizzero, è perfetto e regge sempre anche solo in lettura. Contrariamente il testo “Nel nome del padre” di Luigi Lunari, bellissimo e pieno di sentimento, è un testo che prende vita solo quando è messo in scena. Ovviamente ci vogliono attori preparati.

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con Gabriella Pochini in “Nel nome del padre” di Luigi Lunari

Cosa pensi del dopo spettacolo, cioè delle visite che gli spettatori rendono agli attori nei loro camerini come segno di omaggio e di riconoscimento della fatica teatrale appena conclusa?

Certamente fa piacere ricevere visite dopo lo spettacolo specialmente se le persone che vengono a trovarti sono amici. Gli spettatori devono però capire che gli attori dopo uno spettacolo (specie se impegnativo) sono stanchi sia fisicamente che mentalmente quindi le visite dovrebbero essere brevi!
In genere dopo uno spettacolo ci metto un momento a liberarmi del personaggio, lasciarlo andare per poi trovarlo la sera successiva quando torno in scena! Ma le visite mai prima dello spettacolo, nel modo più assoluto, almeno per me; ho bisogno di essere concentrato e di trovare il personaggio: una sorta di evocazione!!!

Quali sono le regole basilari che ritieni indispensabile che i tuoi alunni assimilino, quando insegni loro dizione e recitazione? Proponi loro dei modelli da seguire?

Innanzitutto mai copiare chicchessia; sempre e assolutamente essere se stessi. Regola fondamentale (per me, ovvio) è la dizione. E regola fondamentale è sempre cercare il personaggio dentro di sé. Io sono convinto che dentro ognuno di noi ci siano tutti i “personaggi” che possano essere stati creati: “tutto ci deriva dal passato che rimane vivo dentro; tutto ci viene di là: dall’immaginazione” (Pirandello). Ho quindi stimolato sempre i miei ragazzi a cercarsi dentro e, altra cosa per me fondamentale, a godere la parola.

Tra le tue esperienze c’è quella del teatro portato tra le mura delle carceri in particolare alle detenute politiche. Quali messaggi ritieni che il teatro abbia portato loro? E come hanno reagito?

In realtà il lavoro non venne fatto CON le” politiche” ma PER le “politiche”. Avevamo, con Teatro Zeta, vari corsi in carcere con le detenute comuni ed erano andati bene nel senso che eravamo riusciti a farle riflettere e lavorare come fosse un gioco.
Poi nacque l’idea di invitare (prima volta in Italia) le “politiche” a teatro e il nostro regista Pier Giorgio Gili costruì un testo che narrava delle tensioni, delle paure e dei sogni. Fu una serata molto strana e non credo che fossero rimaste più di tanto colpite. Penso che la cosa che le colpì maggiormente fu il fatto di essere uscite dalle quattro mura anche se scortate da decine di poliziotti armati!!! Fui abbastanza colpito dagli sguardi crudeli di alcune di esse… Chissà… invidia della libertà? Odio per gli esseri borghesi? Non so.

La sensazione che provi quando sei sul palcoscenico è diversa da quella che provi in quanto attore per i drammi radiofonici interpretati per la Rai?

Ovviamente: in teatro vai in diretta, in radio se sbagli ha sempre la possibilità di correggerti. Ma i personaggi li devi comunque cercare e il regista lo devi comunque assecondare e l’autore in qualche modo lo devi onorare!

È vero che tutte le volte che svolgi il ruolo di regista senti dentro di te la presenza di tutti i personaggi dello spettacolo e ne provi i diversi sentimenti a volte contrastanti tra loro?

E’ giocoforza credo per tutti i registi saper riconoscere tutti i personaggi e conoscerli a fondo per poterli spiegare agli attori. Spesso la prima lettura che si fa insieme la faccio io; cioè leggo tutti i personaggi io in modo da dare il “la” all’interpretazione come la vorrei. Poi mi apro alle considerazioni degli attori e si procede insieme a limare e aggiustare. Ovviamente solo il regista ha la visione d’insieme, il “taglio” che vuole dare alla messa in scena.

Una domanda d’obbligo a un attore teatrale che sperimenta anche il ruolo di attore cinematografico: quali diverse tensioni rispetto al teatro ti attraversano prima e durante la recitazione?

Non ho per scelta (diciamo così) avuto grandi esperienze cinematografiche. Per essere sincero ne ho avuta una sola per aiutare un giovane regista che aveva bisogno di un attore e non lo trovava!!! L’ho fatto anche per sperimentare qualcosa che non mi attraeva ma che non conoscevo. Il lavoro che ho fatto non è stato poi così diverso al recitare in teatro.

Ti andrebbe di raccontarci qualche aneddoto particolare legato a un incontro con un regista teatrale o cinematografico?

Uno, giusto così per dimostrare come sono fatto! Avevo sostenuto un provino con il grande Aldo Trionfo che era direttore dello Stabile torinese. Il provino andò benissimo tanto che venni convocato per iniziare le prove di uno spettacolo dello stabile. Beh… non mi presentai! Avevo nel frattempo iniziato le prove con una piccola compagnia che era in cattivissime acque e pensai “Se me ne vado anch’io questi poveracci che fanno?” non perché mi sentissi indispensabile, tutt’altro, ma perché avrai dato ai miei compagni un ulteriore problema. Due anni più tardi incontrai Trionfo che mi disse “Ricordati che chi non ha voluto lavorare con me non lavorerà mai più con me”. Me l’ero proprio voluta!!!

io

Grazie di questa intervista e delle risposte sincere e ricche di emozioni personali con cui hai soddisfatto la nostra voglia di conoscere i tuoi intimi pensieri (e in qualche risposta anche i tuoi intimi sentimenti) prima e dopo di quando indossi le vesti di attore. Le tue risposte non solo ci hanno mostrato il tuo animo “messo a nudo” dietro le quinte invisibili della “maschera del ruolo”, ma ci hanno permesso di capire le dinamiche psicologiche che si muovono nella mente degli attori in generale, di quegli attori di cui spesso limitiamo la nostra conoscenza al solo aspetto che ci viene mostrato, dimenticando tutta l’umanità che si cela dietro il loro apparire. Le tue risposte ci danno anche una ragione in più per amare il teatro, per riflettere sull’opportunità o meno di mantenere quella patina di elitarietà, per considerarlo ancora più vicino alle nostre vite di ogni giorno.