di Riccardo Ferrazzi

Gli scienziati che attribuiscono al caso l’ultima parola nella creazione di nuove specie animali si comportano più o meno come i critici letterari che attribuiscono alla fantasia degli autori la capacità di creare storie. Ma la fantasia di ogni autore ha un suo specifico modus operandi. C’è chi programma ogni particolare e chi si affida al pensiero poetante. C’è chi aspetta l’ispirazione e chi lavora a ore fisse. Ci sono autori che cercano spunti nella Storia o nei viaggi esotici, ce ne sono altri che aspettano che “si accenda la lampadina”. Eccetera eccetera. 
Secondo la teoria prevalente, le mutazioni genetiche sono variazioni minime nel DNA di strutture preesistenti, avvengono senza un motivo conosciuto e possono avere successo oppure no in funzione del tempo e del luogo in cui accadono. Trasponendo tutto ciò in termini letterari, sarebbe come sostenere che l’opera d’arte nasca sempre per contaminatio: procedimento che consiste nel prendere una storia già raccontata da altri autori e reinterpretarla con una diversa sensibilità, in una diversa ambientazione, in diverse circostanze.
Ma la creazione intellettuale non si lascia ridurre a un fatto combinatorio. Quando Galileo nella cattedrale di Pisa osserva oziosamente il dondolio delle lampade, che cosa fa scattare nel suo cervello l’idea che le oscillazioni di tutti i pendoli siano isocrone? Quando Dante viene a conoscere un certo fatto di cronaca nera, che cosa gli permette di ricavarne l’immortale canto di Paolo e Francesca?
Dietro alla intuizione di Galileo e ai versi di Dante non c’è un calcolo matematico e non c’è il nulla: c’è una ineffabile sensazione, lo stupore dell’essere umano che – in modo quasi inconsapevole – supera se stesso e attinge l’Assoluto.
In ultima analisi, senza uscire dall’ambito della scienza e lasciando per il momento da parte la creazione artistica, il problema è definire come si arriva a enunciare una legge fisica o matematica. Con un procedimento razionale o con un salto logico?
Agli inizi del Novecento un gruppo di scienziati noto come “circolo di Vienna” si dedicò ad analizzare i procedimenti della logica (matematica e del linguaggio) per individuare quelli certi e distinguerli da quelli fallaci. La loro analisi fu così radicale da concludere che l’unico enunciato sicuramente certo è la tautologia!
In parole povere: posso essere abbastanza tranquillo se dico che “2 è uguale a due”. Ma se mi spingo a dire che “7+5=12” già non posso più essere tanto sicuro.
In effetti, se dico che 2 è uguale a due, dico qualcosa che non ha bisogno di altro: il concetto di “2” è identico al concetto di “due”. Ma per essere davvero sicuro che sette più cinque faccia dodici devo prendere sette mele, metterle insieme ad altre cinque mele e poi contarle tutte sperando di scoprire che sono dodici. E ogni volta sarò sicuro solo dopo aver contato.
Questo deve farci concludere che la scienza procede senza rigore, in modo approssimativo e analogico? Potrebbe anche essere, ma come mai gli esperimenti confermano le ipotesi scientifiche? Anche se i processi mentali degli scienziati fossero fasulli, fatto sta che funzionano.
L’alternativa è: o la logica va analizzata con criteri meno formali, oppure la mente umana procede solo apparentemente more geometrico, in realtà in modo statistico. In altre parole: o non c’è bisogno di fare tanto i sofistici sul 7+5=12, oppure la nostra mente funziona “a spanne” e, per essere davvero sicuri dei risultati ai quali perviene, dobbiamo sempre verificarli nei fatti.
È un problema vecchio come il cucco, ma non si può dire che sia stato risolto. Almeno, non del tutto.
Già Aristotele (che, per inciso, come scrittore è uno dei più noiosi di tutti i tempi) distingueva deduzione e induzione. Quando deduciamo estraiamo da un concetto qualcosa che lì è contenuto. Purché il concetto sia correttamente definito e purché noi deduciamo correttamente, possiamo star sicuri che anche il risultato sarà corretto. Però non verremo a sapere niente di nuovo. Invece, quando induciamo, aggiungiamo al concetto qualcosa che non vi era contenuto, e per essere certi di aver ragione dobbiamo sempre controllare.
Questo però non spiega come procede la scienza, e cioè come fa la nostra mente a indurre, ad attribuire a un concetto qualcosa che in quel concetto non era già contenuto.
Ci sono voluti più di duemila anni per avere una risposta, e l’ha data Kant (che, come scrittore, è meno noioso di Aristotele ma è afflitto dal vizio di esprimersi in modo inutilmente complicato).
Innanzitutto c’è l’osservazione. Una lampada oscilla. Galileo osserva la durata delle oscillazioni e la misura contando i suoi battiti cardiaci. Scopre che la durata delle oscillazioni di quel pendolo è sempre la stessa anche quando l’ampiezza dell’oscillazione diminuisce.
Dopo aver osservato ciò che accade a quella lampada, Galileo è portato a pensare che tutte le oscillazioni di tutti i pendoli siano isocrone. Non può dimostrarlo con una deduzione logica, ma sa di avere ragione ed è disposto a scommettere che tutti i pendoli obbediscono alla sua legge.
Così progredisce la scienza: a forza di induzioni ottenute con un salto logico e giustificate dal costante esito degli esperimenti (finché continua a essere costante!).
Ma l’induzione che cos’è? Da dove scaturisce? È qualcosa di cui ci si può fidare solo fino a prova contraria? E se la prova contraria arriva, che si fa?
Secondo Kant è una struttura della mente umana: la nostra testa è fatta in un certo modo e può funzionare soltanto così. Tanto vale prendere atto che questo è ciò che abbiamo a disposizione e, nel caso, prendere gli opportuni provvedimenti: quando arriva la prova contraria dobbiamo riprendere in esame la materia e cercare di essere più precisi.
Si può anche dire che la nostra mente non è in grado di raggiungere certezze assolute, però sa ottenere certezze provvisorie, le sa correggere e affinare (per esempio: il calendario è stato definito con approssimazioni successive), sa formulare ipotesi e le sa scartare. Euclide, con una tautologia dopo l’altra, è arrivato a dedurre l’intera geometria piana, ma per stabilire il postulato-base (per un punto esterno a una retta passa una sola retta parallela) ha avuto bisogno di una intuizione.
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E la mente umana ha in serbo altri “effetti speciali”. Uno, in particolare, è piuttosto noto e storicamente documentato:
In un certo giorno del 1637 Pierre de Fermat (1601-1665), magistrato e matematico dilettante, scrisse sul margine di un libro questo breve appunto: “Non può esistere una soluzione intera di ax=bx+cx per x maggiore di due. Per questo teorema ho trovato una dimostrazione meravigliosamente semplice che purtroppo non posso trascrivere in così poco spazio.”
(Nota. In quattro parole, per chi detesta la matematica: 52=32+42 significa 25=9+16. Se, invece che al quadrato, provate a elevare al cubo l’equazione non funziona più. 53 è 125; 33 è 27 e 43 è 64. Ma 125 non è uguale a 27+64. Provate pure con altri numeri, cambiate le basi e gli esponenti, cambiate tutto quel che volete: constaterete che, usando numeri interi, si possono costruire equazioni vere e corrette soltanto se l’esponente è 1 o 2).
Qui non si può nemmeno parlare di induzione, ma solo di intuizione. Infatti la dimostrazione che doveva avere in mente Fermat quando scrisse quell’appunto era sicuramente sbagliata, e lui stesso se ne deve essere reso conto, visto che nei suoi successivi ventotto anni di vita non la pubblicò mai. Ciononostante, il teorema era esatto. A dimostrarlo ci provarono in tanti, compreso un matematico illustre come Eulero, ma la dimostrazione arrivò solo tre secoli più tardi, utilizzando tecniche di matematica superiore che ai tempi di Fermat non erano ancora state inventate!
Non è un caso unico: in materia di intuizione si verificano casi straordinari con una certa frequenza.
Solo per citare un altro esempio: nel saggio Literaturas germanicas medievales Jorge Luis Borges ricorda en passant che Samuel Coleridge nel 1816 ebbe in sogno l’idea di un poemetto intitolato Kubla Khan ispirato alla pianta di un palazzo del famoso imperatore cinese che ospitò Marco Polo. Molti anni più tardi si venne a sapere che Kublai Khan aveva fatto costruire quel palazzo dopo averlo visto in sogno! Questa informazione era contenuta in un testo persiano del Trecento che non era mai stato tradotto in una lingua europea prima della morte di Coleridge. (Si dirà: Coleridge sarà venuto a sapere di Kublai Khan e del suo palazzo da un professore di lingue orientali di rientro dalla Persia, e avrà millantato di esserselo sognato. È possibile. Ma bisognerebbe dimostrarlo, prima di dare del bugiardo a Coleridge.)
In casi come questi non ci sono enunciati generali dai quali dedurre affermazioni specifiche, né fenomeni da osservare, né induzioni da confermare con un esperimento. Più che di “induzione”, qui bisogna parlare di “intuizione”. E bisogna chiarire qual è la differenza.
L’induzione avviene quando osservo un caso specifico e da questa osservazione induco l’esistenza di un meccanismo, un modello, una legge generale. Non potrò dimostrarla logicamente ma potrò ripetere dieci, cento, mille esperimenti e controllare se ogni volta la legge viene rispettata.
Invece l’intuizione non nasce da un’osservazione. Chi intuisce può soffermarsi su qualcosa che funziona da catalizzatore, ma l’intuizione non ha un rapporto evidente con l’oggetto osservato, non è la generalizzazione di un fenomeno, non ha necessariamente la forma di una legge (fisica o matematica o d’altro genere). Semmai, ha qualcosa in comune con il presentimento.
A volte, ma non sempre, le intuizioni fanno pensare che la mente abbia seguito un percorso di analogie, simboli o metafore, il che ci riporta all’idea junghiana del “nesso acausale” e quella platonica del Mondo delle Idee. Ma non esistono prove che l’intuizione dipenda dalla teoria della conoscenza di Platone e/o dall’inconscio collettivo di Jung.
D’altra parte, non esistono nemmeno teorie alternative. L’intuizione è a tutti gli effetti un mistero. Chi rifiuta la teoria platonico-junghiana deve rassegnarsi a non avere spiegazioni per il fenomeno più straordinario che la mente umana sia in grado di produrre.

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