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di fabrizio centofanti

Poesia è andare a capo, per qualcuno. In effetti, il segno di riconoscimento più evidente è che non si arriva al bordo della pagina: la frase si interrompe prima, come a creare un effetto di sorpresa, affrancato dalle righe tutte uguali, che rimandano, indifferentemente, a un referto medico, un articolo di cronaca, il bilancio annuale di un’azienda.
La poesia, in realtà è qualcosa di diverso: un testo che dà maggiore informazione, un condensato di simboli che spalanca mondi, lasciando intravedere scenari inaspettati, che estasiano, turbano, commuovono.
Chiunque può scrivere versi: basta leggere, studiare, compulsare manuali di metrica e retorica, esercitarsi ogni volta che si sente una profonda ispirazione, appuntando parole su un foglio di giornale, uno scontrino, un biglietto del tram.
Per me è ancora altro, la poesia: sapere che c’è Uno che mi aspetta, che è fedele; che lo senta o non lo senta, è lì, inspiegabile come l’attrazione, irriducibile come la speranza. Ogni volta che ci penso, mi nascono parole, una specie di poesia che non va a capo, ma mi riempie la vita di bellezza.

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