Mario Luzi (1914-2005)

Qualcuno ha detto che Luzi costruisce poesie con parole vuote di significato. E anch’io mi sorprendo spesso a pensare che le sue poesie si reggono come i castelli di un bambino che gioca con la sabbia. E lo crederei davvero se non conoscessi l’iter poetico e umano di Luzi.
Certo egli conosce la parola meglio di tanti professionisti del verbo. Ma è anche vero che ha sempre dimostrato di conoscere la natura, e direi anche l’anima, di qualunque cosa, umana, animale, vegetale, minerale come ben pochi riescono a penetrarla.
Le sue poesie si animano di tutto ciò che lo circonda perché riesce a trovarne il principio vitale, quello che trasforma ogni cosa in motivo di aderenza al mondo e di scoperta del loro significato più intimo.

Così in questa poesia, la cui assenza iniziale di un soggetto ben identificato, ci conduce alla cieca tra i versi, Luzi ci spinge in realtà a riflettere su noi stessi come fossimo viandanti che scoprino all’improvviso, e quando ormai è proprio incombente (perché in età matura o in vecchiaia), il nocciolo della vita umana che qui è paragonata a un santuario.
Giunti alla sua ombra, che immaginiamo su un pianoro in cima a una qualche vetta, ci rigiriamo indietro per scoprire per quale via siamo giunti. E nella felicità e forse anche nella fatica, tranquillizzante della posizione raggiunta, vediamo lontane da noi tutte le difficoltà, che ora definiremmo spicciole, svanire, divenire piatte, essere quasi cadute nell’oblio. Tanta è la luce che l’uomo riceve nello scoprire il nocciolo della propria esistenza.
Una luce che non è esclusivamente spirituale, dimentica della realtà e quindi da questa avulsa. Luzi lo scopre rispondendo alla domanda che in lui, e in noi, sorge spontanea: a chi mai obbedisse l’uomo per mettere in campo tanta voglia di inerpicarsi attraverso le asperità dell’ esistenza.
“Dal mondo al mondo tutto era richiamo,
reciprocità, preghiera.
E lui era, era.”

Lo sorprese, imminente, il santuario.
Peccato, era venuto
su alla cieca
forse
troppo divagando.
Dov’erano? non le ritrovava
giù lo sguardo
nel paese sottostante
le rocce, i dirupi, gli strapiombi
del suo arduo itinerario –
ne aveva accesi però i segni
graffiti nella carne.
Per là, n’era sicuro, s’era in letizia e affanno
inerpicato a quel pianoro,
ma non li distingueva
più tra loro quegli scoscendimenti,
le forche caudine dove aveva
lui, bruco, strisciato
verso la luce, l’altezza, la farfalla.
Crollavano nel luminoso caos,
ecco, s’era parificato
quel mare di montagne
sotto lo scintillare delle cime.
A chi aveva obbedito la sua lena?
Dal mondo al mondo tutto era richiamo,
reciprocità, preghiera.
E lui era, era.