Se fosse nato negli Stati Uniti o anche soltanto in Inghilterra o in Francia, Luigi Tenco sarebbe stato sicuramente una star. Perché era bello, dotato di un fascino tenebroso e maledetto e soprattutto perché era bravo, un genio e un poeta. Ed era contro, sempre inquieto e sempre insoddisfatto.
Invece, Luigi Tenco nasce il 21 marzo 1938 a Cassine, in provincia di Alessandria, in un’Italia ancora quasi ignara del ’68 in arrivo e che gli aveva decretato a fatica un successo di culto, culto fragile e molto tormentato, proprio come lui. Tenco infatti scrive canzoni bellissime, che affrontano tantissimi temi, dall’amore alla politica alla vita all’esistenza e sono brani inquieti e tormentati, di una malinconia disperata e anche di un’ironia graffiante.

Muore in circostanze che a lungo sono state considerate misteriose anche se forse il vero mistero è lui. Intanto, quando muore e dove muore è già particolare. Muore dopo aver cantato “Ciao amore ciao ” al Festival di Sanremo 1967, nell’ hotel dove alloggiava.
Sono passate da poco le due di notte e Dalida è andata in camera di Tenco a vedere come sta perché la loro canzone è stata eliminata dalla giuria del Festival e lui, Luigi, sembra averla presa veramente molto male. La porta è socchiusa, ci sono le chiavi ancora fuori, nella serratura. Dalida la apre e vede Luigi Tenco steso a terra. Allora si attacca al telefono per chiamare aiuto, abbraccia Tenco e si mette a urlare e quando arriva gente corre fuori dalla stanza con i vestiti sporchi di sangue.
C’è Lucio Dalla che sta nella camera vicina, scende nella hall dell’albergo ed è il primo a raccontare a tutti che è successo qualcosa a Tenco. Ma che cosa è successo a Luigi Tenco?

Il commissario Arrigo Molinari del commissariato di Sanremo arriva verso le tre del mattino, assieme ad alcuni agenti e naturalmente anche al medico legale.
“Tenco è morto per un colpo di pistola alla testa ed è evidente”, scrive il commissario Molinari nella sua relazione, “la posizione assunta dal cadavere come conseguenza di ferita d’arma da fuoco a scopo suicida”. L’arma da fuoco c’è, è lì vicino, è una piccola Walther PPK calibro 765 e poi c’è anche un biglietto su un tavolino, scritto su una carta intestata dell’albergo. La calligrafia viene riconosciuta come quella di Tenco. Le parole sono proprio le parole di un suicida:
“Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io tu e le rose” in finale e ad una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.
(“Io, tu e le rose” è una canzone di Orietta Berti e “La rivoluzione” è una canzone di Gianni Pettenati e sono state entrambe selezionate al Festival di Sanremo quando la canzone di Tenco è stata eliminata).
È un caso molto chiaro, è un caso di suicidio. Il 24 giugno di quell’anno la Procura chiude ufficialmente l’inchiesta: Luigi Tenco si è suicidato.
Ma è vero? Forse sì, anzi probabilmente sì, però ci sono molte cose che non tornano nelle ultime ore della vita di Tenco e ci sono molti dubbi che hanno continuato a frullare nella testa di molta gente.

Quella sera al Festival Tenco è dietro le quinte, terrorizzato perché ha sempre avuto la fobia del pubblico. Una dose di Fenobarbital, un barbiturico che fino agli Anni ’70 era un farmaco di riferimento per il trattamento dell’ansia, poi un’intera bottiglia di grappa di pere e poi anche la spinta proprio fisica di Mike Bongiorno che conduce il Festival, riescono a farlo uscire da dietro le quinte. Canta la sua canzone e la canta male, donando al pubblico del Festival un’esecuzione disastrosa: stona, sembra che non riesca ad andare a tempo, nelle parti più lunghe da sostenere vocalmente non arriva bene e negli stacchi musicali la sua voce arriva in ritardo. “Ciao amore ciao” prende solo 38 voti sui 900 della giuria popolare e la commissione artistica del Festival composta da Ugo Zatterin, Lello Bersani, Gianni Ravera e Lino Procacci, che aveva il potere di ripescare una canzone, opta per “La rivoluzione” cantata da Gianni Pettenati. Luigi Tenco e Dalida sono fuori dal 17esimo Festival di Sanremo.
Tenco la prende malissimo, tratta male tutti e guida come un pazzo fino all’albergo, perché a cena con Dalida e gli altri non ci vuole andare. In camera telefona a Valeria, che è una ragazza che ama da sempre, anche se i rotocalchi lo danno fidanzato con Dalida, però è una cosa che serve soltanto a vendere canzoni; si sfoga con lei, con Valeria, dice che l’indomani convocherà una conferenza stampa per protestare e che compreranno un casolare in campagna e vivranno assieme, avranno un figlio. È l’una e trenta.
Poco più di mezz’ora dopo Dalida arriva e lo trova a terra, morto.

Ci sta che Tenco si sia suicidato, uno come Tenco così inquieto, insoddisfatto, contraddittorio, insomma un ribelle, un cantautore impegnato che anticipa i temi del ’68 e che allo stesso tempo si ritrova a Sanremo a inseguire il sogno di una popolarità da star, prigioniero delle logiche commerciali delle case discografiche; uno che ama Valeria ma è innamorato di Dalida allo stesso tempo, che è stanco, pieno di ansiolitici e alcol e ha appena subito una delusione frustrante; insomma, uno come lui, capace di scrivere canzoni di una disperazione esistenziale bellissima e insopportabile come “Un giorno dopo l’altro”, se si spara non è certo per il Festival. Ma per un ideale tormentato, una crisi esistenziale, un suicidio filosofico, ecco. Come già accaduto a molti poeti, a molti scrittori e anche a moltissimi musicisti.