“Se questo è un uomo” Queste sono poesie necessarie, se mai altre ce ne sono state” (Primo Levi)

di Elvio Bombonato

50675769_405186006885151_975007037035380736_n

SHEMA’
Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

Questa poesia figura come epigrafe nella prima pagina di “Se questo è un uomo”. Shemà significa ‘Ascolta’, chiarì Primo Levi: “è l’inizio della preghiera fondamentale dell’ebraismo, in cui si afferma l’unità di Dio. Alcuni versi di questa poesia ne sono la parafrasi”. Si trova nel Deuteronomio, però Levi ne capovolge il significato: non è Dio che deve essere ricordato, bensì la Shoah, il Male assoluto.

La poesia afferma la necessità che la testimonianza diventi memoria storica collettiva. Colpisce qui il tono perentorio e perfino minaccioso, certo inatteso nel sabaudo Levi, di solito “così sobrio nel giudicare e restio a predicare“ (Cesare Segre), così pacato, equilibrato, prudente, persino pudico, nella compostezza della sua scrittura “precisa, chiara e distinta, trasparente verso il senso e la comunicazione” (Pier Vincenzo Mengaldo).

L’appello del titolo sottolinea l’appartenenza della poesia al genere parenetico: un invito incitamento esortazione, che diventa, nel “crescendo di intensità oratoria” (Ernesto Ferrero) via via dominata dal pathos, un ordine/comando ineludibile.

“Shemà” è divisa in tre tappe corrispondenti alle tre strofe. Il “Voi” che la apre e la chiude, si riferisce ai lettori tedeschi (“la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, perché volevano non sapere”, Appendice in “Se questo è un uomo”), e a tutti noi, soprattutto alle future generazioni. Raccontare “l’esperienza incredibile del Lager fu da Primo Levi considerata come una missione” (Segre).

La quartina iniziale interpella coloro che vivono tranquillamente ignari, nel calore del cibo, della famiglia e degli amici. Ad essa si contrappone la seconda, scolpita dalla parola-chiave dantesca, che pare un’affermazione invece è una negazione (questo non è un uomo, questa non è una donna), “Considerate”, in dieci versi – cinque per l’uomo e cinque per la donna – con la sintetica descrizione, la cui efficacia non richiede parafrasi, dell’annientamento spirituale fisico e morale attuato ad Auschwitz, delle condizioni disumane e perdipiù casuali tra vita malattia morte degli internati.

La terza strofa è la più forte perché di impronta biblica veterotestamentaria; una maledizione “per chi non obbedirà all’obbligo del ricordo” (Segre), dettata non dal rancore, ma dalla preoccupazione disperata del temuto ricorso storico.

Mengaldo individua nell’ossimoro, la figura retorica degli opposti e delle contraddizioni, lo stilema principe, per frequenza e qualità, dell’opera di Levi. In questa poesia si aggiungono il martellamento delle anafore: voi (vi, vostri), casa, considerate, se, questo, senza, il pronome relativo soggetto che; i climax: gli imperativi perentori, meditate vi comando scolpitele ripetetele; i gerundi durativi, stando andando coricandovi alzandovi; l’anatema dei congiuntivi ottativi negativi, vi si sfaccia vi impedisca torcano.

Levi passa dal doveroso ricordo delle vittime offese, all’“intimazione di feroce attualità” (Franco Fortini), l’ammonimento necessario per prevenire il possibile ripetersi dell’orrore.