L’Italia fra acquedotti colabrodo e la legge Daga che potrebbe cambiare tutto. Ma in meglio o in peggio?

di Enrico Sozzetti  https://160caratteri.wordpress.com

Italia, nazione inaffidabile anche per l’acqua? Non passa giorno, infatti, che si aggiunga un altro tassello al puzzle della precarietà del sistema economico.

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La scorsa settimana alla fine di un articolo (https://160caratteri.wordpress.com/2019/02/28/alessandria-novi-ligure-e-lacqua-bene-comune-o-forse-non-troppo-comune/),  dedicato a quanto sta per accadere in provincia di Alessandria rispetto alla gestione del sistema idrico, era riassunto lo stato dell’arte della proposta di legge numero 52 (denominata ‘proposta di legge Daga’ dal nome dell’onorevole Federica Daga del M5S, prima firmataria) intitolata “Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque” che propone di ridisegnare il ciclo integrale delle acque.

Il testo è attualmente all’esame della Commissione Ambiente di Montecitorio, dove e si è già aperto l’ennesimo scontro politico.

 

Al tema, finora poco raccontato dalla stampa nazionale, sono dedicate le due pagine di apertura del settimanale ‘L’Economia’ del Corriere della Sera, a firma di Ferruccio de Bortoli. E la lettura dovrebbe fare riflettere, con preoccupazione, su quello che potrebbe essere il futuro dell’acqua, bene comune e bene pubblico («Il novantasette per cento della popolazione è servito da società a maggioranza o interamente pubbliche» ricorda de Bortoli).

La proposta di legge Daga è riassunta dalla prima firmataria con queste parole: «L’acqua deve uscire dal mercato, è un monopolio naturale, è un diritto universale, noi vogliamo gestirla fuori dalle logiche di mercato senza far profitto, ma reinvestendo ogni centesimo delle bollette pagate dagli utenti negli investimenti necessari sulle reti». A giudizio di molti questo sarebbe però un passo indietro rispetto alla normativa introdotta con la legge Galli nel 1994 e al servizio idrico integrato, senza contare le ricadute sulle tariffe e sulla finanza pubblica.

Sul primo punto si può leggere un altro passaggio dell’articolo di de Bortoli: «Lo studio Global Water Intelligence del 2017 registra un costo a Roma di 1,49 euro al metro cubo; a Francoforte di 4,23; a Copenaghen di 5,46. I gestori italiani applicano le tariffe decise dall’Autorità di regolazione (Arera) che con la riforma non sarebbe più indipendente. Le categorie deboli sono già protette attraverso un bonus idrico. Le nuove aziende pubbliche, senza finalità di lucro, sarebbero limitate all’ambito provinciale. Manutenzione e investimenti verrebbero coperti con anticipazioni da parte dello Stato».

La gestione diretta degli acquedotti tornerebbe in capo ai comuni. Già. Ma i costi? Come potrebbe essere sostenibile, una rivoluzione del genere, da parte di casse pubbliche che definire esangui è poco? I numeri stimati sono impietosi. Sempre sull’articolo pubblicato da ‘L’Economia’ ecco un altro passaggio, per bocca del direttore di Utilitalia (federazione nazionale delle imprese di acqua, energia, ambiente), Giordano Colarullo, che spiega: «Nel 2019 sono già programmati 2,6 miliardi di investimenti sulla rete degli acquedotti, fognature e depurazioni ai quali vanno aggiunti circa 800 milioni di contributi pubblici a fondo perduto.

Le tariffe, nel progetto Daga, coprirebbero solo i costi operativi. Il resto peserebbe tutto sulla fiscalità generale». Sempre Utilitalia stima in almeno cinque miliardi all’anno gli investimenti necessari per «una rigenerazione, riparazione e manutenzione della rete e per opere ormai necessarie».

La parlamentare del Movimento 5 Stelle, proprio a proposito di risorse, ha dichiarato nelle scorse settimane che nella legge di bilancio è stato «destinato un miliardo in dieci anni, quindi sono 100 milioni l’anno, per il piano invasi e acquedotti. A questo piano accedono anche quei gestori che magari hanno necessità di fare dei lavori che costano un po’ più del solito o dovevano essere fatti negli anni passati. Quindi se non vuoi aumentare troppo la tariffa, se ci sono dei lavori, vai ad accedere a quel fondo».

E già qui i valori sono distantissimi. L’incertezza poi cresce quando precisa a de Bortoli come verrebbe finanziato il Fondo nazionale per la ripubblicizzazione. Le ipotesi, si legge, vanno da un intervento sul bilancio della Difesa, alla tassa sulle bottiglie di plastica, ai proventi dalla lotta all’evasione. Idee apparentemente in libertà, prive di riscontri contabili solidi e certi nell’arco degli anni.

Daga si limita a dire «siamo pronti a discutere su tutto. Non siamo contro i privati che possono accedere al miliardo stanziato nella legge di Bilancio 2019 per gli invasi e gli acquedotti. Forse dodici mesi per la revoca delle concessioni sono troppo pochi. L’ambito territoriale delle aziende speciali si può allargare alle città metropolitane, ai bacini idrografici che per la Puglia coprono l’intera regione. E questa legge è coerente con il programma del governo del cambiamento».

Però quanto tutto questo sia coerente con il mercato (che esiste, piaccia o no), invece non è chiaro. Ferruccio de Bortoli pone infine l’accento sull’effetto «negativo della rottura di un impegno contrattuale su investitori privati e internazionali». Un altro elemento di preoccupazione rispetto alla affidabilità italiana.

Il territorio alessandrino è un caso tipico sui cui declinare i possibili effetti della proposta di legge ‘Daga’. Il 2017 è stato uno degli anni peggiori, con una crisi idrica diffusa, molti paesi e città rimaste senza acqua o con una erogazione garantita con il contagocce, benché Alessandria e la provincia abbiano il positivo primato di una falda acquifera, circa trenta milioni di metri cubi, fra le più grandi del nord Italia.

Ma fra reti non collegate fra loro e perdite consistenti degli acquedotti, l’acqua, bene prezioso e comune, spesso si disperde in quantità. La soluzione è rappresentata da una serie di collegamenti in tutta l’area, per portare l’acqua dalle falde più grandi verso le aree più a rischio.

Fra gli interventi c’è l’interconnessione della valle Bormida al campo pozzi di Predosa, la realizzazione di un nuovo bacino di accumulo in località Bric Berton per Ponzone e i comuni vicini, il potenziamento del sistema di approvvigionamento e potabilizzazione di Novi Ligure, ci si aggiunge l’ottimizzazione delle reti e degli impianti esistenti. Se tutto questo dovesse tornare nelle competenze dei comuni, il rischio è che una parte della rete si riduca a un grande colabrodo. Non per cattiva volontà, ovvio, ma solo perché non ci sono i soldi per farlo.

Entro il 2021 dovrebbe diventare operativa la società consortile costituita da Amag Reti Idriche e Gestione Acqua (gestiscono complessivamente circa 120 comuni su 190 della provincia) che significa arrivare, all’interno dell’ente di governo d’Ambito Territoriale Ottimale Egato 6 a un unico gestore, che avrà il compito di erogare il servizio, gestire la tariffa e coordinare tutti gli investimenti, circa duecentodieci milioni di euro da qui al 2034.

Obiettivo è arrivare a un unico sistema di rete efficiente, capace di modulare la distribuzione e recupero dell’acqua, oltre che regolare gli interscambi con altri gestori. Una modifica, o una inversione di rotta, con la proposta di legge, potrebbe avere conseguenze, ancora tutte da definire, sull’approvvigionamento e la gestione dell’acqua, bene comune.

Il meccanismo attuale è assolutamente da migliorare e la politica ha colpe pesanti per la gestione di molti enti, però pensare di risolvere tutto riportando l’orologio al tempo dei comuni appare decisamente azzardato. Non fosse altro che le risorse scarseggiano. Come l’acqua nelle reti di molti acquedotti.