25 aprile, in capite venenum, di Agostino Pietrasanta

Domenicale ● Agostino Pietrasanta

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Alessandria: Immaginate Macron o un qualunque presidente francese capace di dichiarare che il 14 luglio va festeggiato per motivi diversi dal ricordo di una Rivoluzione che ha sovvertito le strutture sociali, istituzionali, e politiche dell’Europa; la sua percentuale di consenso in ventiquattrore crollerebbe allo 0%.

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Da Sinistra a Destra lo manderebbero a casa anche con sommosse che i “gilet gialli” neanche immaginerebbero. Immaginate Trump (Trump!) o qualunque presidente americano tanto improvvido da irridere o banalizzare il 4 luglio, memoria della dichiarazione di indipendenza o il 28 novembre, giornata del ringraziamento; tutti gli Americani lo metterebbero “sotto processo”: tutti, senza distinzione di parte politica.

Bene, anzi male. Matteo Salvini convinto di rappresentare la nazione può tranquillamente snobbare il 25 aprile e nulla accade. Alle critiche di chi tenta di contrapporsi, nulla succede sul versante del consenso. Per questo, parafrasando un ben più noto adagio, potremmo dire “In capite, venenum”.

Il fatto è che gli Italiani non riescono a scegliere una data di riferimento comune al di sopra delle parti legittimamente in confronto; figurarsi poi, se si aggiungono i negazionisti di una nazione democratica e di una storia di liberazione dal totalitarismo.

Perché qui ci sono alcuni limiti di lunga data, che ancora ripropongono la parafrasi “in capite venenum”.

Certo, si sostiene con ragione che non tutte le parti sono accettabili: non è sostenibile l’opzione che vorrebbe omologare la tradizione del totalitarismo con quella della democrazia, né si possono omologare le scelte dei seguaci di Salò con i protagonisti della Resistenza, al di là della possibile buona fede di tutti i protagonisti, ma il tentativo reale di parte e non già ispirato da ragioni ideologiche, di appropriarsi di una lotta complessa, mi sembra abbia sortito effetti devastanti.

Vorrei anche chiarire che non intendo sminuire la lotta del partigianato che ha in parte salvato l’onore della nazione e neppure misconoscere la valenza positiva del maggior partito di opposizione nel corso della seconda metà del secolo scorso. Il PCI ha avuto il merito di legittimare le maggioranze democraticamente elette, al di là delle dichiarazioni di fedeltà reiterate per alcuni decenni, nei confronti del totalitarismo sovietico. Il problema è di altra natura.

Nella sostanza si è negata la complessa ricchezza dei diversi atteggiamenti di Resistenza al fascismo e alla tirannide che si sono imposti, nel giro di alcuni anni finali del conflitto mondiale, nello spirito unitario della nazione che sembrava proporsi, ma che non ebbe gli esiti sperati.

Non si è voluta riconoscere la valenza di un ripudio della guerra che tutto un popolo ha sentito e che la Costituzione ha recepito: era un ripudio che si radicava in un’ opzione della pace comune a tutti e non solo a una parte; non c’è stata la capacità di promuovere il senso di solidarietà che nei comportamenti comuni di quegli anni, molti italiani hanno posto in essere; non c’è stata sufficiente attenzione alla fecondità di una scelta morale radicata nel Cristianesimo, indipendentemente dai compromessi dell’istituzione ecclesiale coi totalitarismi, ma nello stesso tempo si è banalizzata la scelta di tanti uomini di Chiesa che sono rimasti al loro posto, mentre tutte le autorità civili scappavano di fronte all’occupazione tedesca.

C’è però una questione che supera ogni considerazione circa le condizioni nazionali che non si limita a sottolineare la banalizzazione delle lotte per la libertà nel nostro Paese, almeno da parte di chi si arroga ruoli di governo (“in capite venenum”); una questione che rischia di affossare l’Europa prima di tutto nella sua tradizione culturale.

Certo le culture dell’Illuminismo, le culture della libertà e della solidarietà sono o dovrebbero essere il pilastro costitutivo del continente; tuttavia il non aver capito che quelle culture avrebbero potuto ricevere dal messaggio evangelico una forza particolare, ha indotto inevitabili conseguenze.

Fu De Gasperi, nel congresso della DC a Venezia del 1949 a affermare che il “trinomio” della “Libertà, Fraternità, Uguaglianza” dell’ottantanove francese, si radica nello spirito evangelico della dignità della persona e dei suoi diritti imprescindibili.

Si è diviso ciò che era costitutivo di un’unità (“in capite venenum”) e ora si rischia di svuotare una grande civiltà di un grande continente; di questo passo anche il 14 luglio di Francia, sia pur celebrato da tutti i Francesi, potrebbe rischiare una dolorosa irrilevanza; ciò che molti tentano di fare per il 25 aprile in Italia..