La formazione marco_candida

by Giulio Mozzi di Marco Candida

[Questo è il decimo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Marco per la disponibilità. Con questo articolo la rubrica va in vacanza: riprenderà giovedì 4 settembre con il contributo di Raul Montanari. gm]

Ho scritto il primo romanzo a dodici anni. 1990. Quell’anno passavano in televisione la serie televisiva Twin Peaks. Avevo visto La Casa Russia con Sean Connery e Michelle Pfeiffer. A scuola leggevamo in classe Zanna Bianca di Jack London e io avevo trovato presso le bancarelle in Piazza Duomo a Tortona Martin Eden e Il richiamo della foresta nell’edizione cartonata e molto voluminosa dei Fratelli Melita.

Il richiamo della foresta è stato un grande libro, ma Martin Eden è stato un libro che ha rappresentato per me, come per molti altri, un caposaldo. Casa Russia. Twin Peaks. Martin Eden. Ricordo d’essermi seduto per la prima volta alla scrivania nella mia stanza soprattutto con le suggestioni e le atmosfere date da queste storie nella testa – come non rimanere suggestionati dalla colonna sonora composta da Angelo Badalamenti per la serie televisiva girata da David Lynch? 

E’ venuto fuori un romanzo lunghissimo scritto in sei mesi con tre diversi tipi di penne (una penna biro blu, una Bic nera e poi un bavoso tratto pen) in un quadernetto con la copertina rigida (che recava l’immagine della maglietta della Juventus con qualche adesivo che acquistavo in un negozio sottocasa che si chiama Chewing-gum, vera e propria oasi di colori, plastica e gomma nel grigiore paludoso, di pietra e di stucco, della mia città natale) con fogli a spirale a quadretti e poi a righe. 

Ora che lo riguardo mi accorgo come nel quaderno i caratteri della grafia diventino sempre più piccoli man mano che la narrazione procede. Più il romanzo si scioglie e diventa solo una storia e non il tentativo di un ragazzo di scrivere, di fare lo scrittore e più la grafia si rimpicciolisce, cosa che forse suggerisce una forma di pudore: nelle parti dove non stavo facendo lo scrittore, ero soltanto io con una penna e dei fogli e questo mi procurava imbarazzo, lì dentro c’ero io, e scrivevo piccolo per rendere quello scritto accessibile solo a me, comprensibile solo ai miei occhi e a nessun altro sguardo occasionale – mi figuravo i miei genitori curiosare tra le cose che scrivevo e poi me li figuravo leggerle agli Elemento o ai Taverna o a Piero e Assunta. Ciò che è davvero interessante del quadernetto è forse che nella prima pagina si trova una griglia dove si fa un calcolo approssimativo del numero di parole all’interno del romanzo. Se non ricordo male era un discorso che avevo letto per la prima volta proprio presso Jack London. Tenere conto del numero di parole in uno scritto. Mi stupisce ora pensare che un ragazzino di dodici anni si appassionasse a dettagli come calcolare il numero di parole dei suoi romanzi perché questa è una questione veramente molto molto tecnica – e per la verità nemmeno particolarmente praticata presso i più affermati scrittori nostrani. Di qua avevamo un ragazzo che aveva attaccato il suo romanzo con la descrizione del canto del gallo, delle foglie nella rugiada, l’alba e di là lo stesso ragazzo vedeva tutte quelle cose con sguardo aritmetico, considerava ogni emozione e palpito dato dalla prosa come quantità.

La verità è che non avendo messo date nel quaderno se mi concentro non sono in grado di ricordarmi davvero se avessi scritto quel romanzo a dodici anni o invece a undici. In effetti c’è stato un momento alle scuole medie nel quale ho scritto così tanto che non mi sembra umanamente possibile d’essere riuscito a farlo in un periodo di tempo così breve. Santo cielo, in quel periodo ho scritto ben due thriller di centoventi pagine cadauno con la Olivetti Lettera 32 del nonno più il romanzo scritto a penna che ho appena detto dal sapore più londoniano e l’ho fatto nel mio stile avaro di spazi: margini inesistenti, l’interlinea non esiste praticamente. Non posso crederci d’aver avuto tutta quell’energia. Però è così che le cose sono andate. Ho faldoni su faldoni. Mazzi di fogli battuti a macchina che lo provano. Non sono allucinazioni. Il primo romanzo battuto a macchina parla di una spia russa la quale ovunque va lascia una scia di sangue, morte, violenza e distruzione dietro e attorno a sé. Ambientato a Londra e a Mosca. Avevo acquistato un paio di cartine stradali di queste città. Ci sono i nomi delle vie. Ricavavo le atmosfere e i dettagli degli ambienti dalle descrizioni dei romanzi di Ken Follet (in particolare L’uomo di San Pietroburgo) o Philip Cornford (un romanzo mozzafiato dal titolo Komplotto). E poi L’alternativa del diavolo di Forsyth oppure La Casa Russia o La spia che venne dal freddo di LeCarré. Anche se a quell’epoca lo scrittore che cercavo di emulare più degli altri (sopratutto per la ragione di certo non trascurabile che fosse tutto sommato più facile farlo) era senza ombra di dubbio il grande Jack Higgins. Le sue scene d’azione sono ancora oggi impareggiabili ai miei occhi, anche se a volte penso soltanto di tornare indietro nel tempo ogniqualvolta rileggo qualche pagina di quei libri e semplicemente di ridiventare quel ragazzino di dodici anni che per la prima volta scopriva i piaceri del mondo della finzione acquistando volumetti dalle copertine sgargianti e un po’ osé – l’edizione paperback della Sperling & Kupfer di Una preghiera per morire presenta una scena con una donna molto sexy a seni nudi e un uomo inginocchiato davanti a lei col volto affondato nel suo addome; la copertina di Confessionale mostra il buco scuro di una Walther PPK in primissimo piano, grande e inquietante e il commento del New York Times in corsivo: “Teso, incalzante, tutto ciò che un thriller deve essere!”; per non parlare poi delle copertine dei paperbacks di Lawrence Sanders… – sotto casa sua. Ecco. Già allora quando leggevo Higgins o Forsyth o Mario Puzo per non parlare più tardi di Robin Cook o Richard Laymon o Brian Lumley o Ramsey Campbell la sensazione che provavo era di piacere misto a peccato. E’ sempre stato così. Mi vergognavo. Quando entravo in un negozio di libri e chiedevo l’ultimo volumone di King o acquistavo tascabili di Alistair MacLean o Clive Cussler diventavo ogni volta un peperone la voce riducendosi al contempo a un sibilo abissale. (Noto che a rievocare queste letture, anche la mia prosa si compiace di quei bei tempi andati diventando felicemente dozzinale). Questo senso di peccato e di vergogna oggi io lo giudico addirittura importante. Prima di tutto perché compiere un’azione provando senso di peccato, vergogna significa compiere quell’azione essendo consapevoli che esistono libri e libri e che esistono gesti e gesti e che ancora non ci attraversa in maniera indifferente compierne uno al posto dell’altro: abbiamo ancora, grazie a Dio, capacità di discernimento nella testa. Poi è importante perché acquistare un libro superando senso di peccato, vergogna e imbarazzo (diamine, in fondo non lo stavo chiedendo in prestito, stavo sborsando dei soldi per averlo!) significa attribuire un valore del tutto personale a quei libri. Si tratta di libri che forse non valgono molto (non sono L’urlo e il furore di Faulkner o Cuore di tenebra di Conrad o Ragazzi di vita di Pasolini o Pavese o Cassola o Fenoglio), però sono libri che acquistavo perché per come la vedevo io mi sarebbero serviti. Per intrattenermi. Per farci cappellini di carta. Non ha importanza. Mi sarebbero serviti. Io li acquistavo soprattutto perché leggendo libri commerciali riuscivo a capire meglio ingranaggi che mi sarebbero tornati utili per le storie che avevo in mente e che volevo raccontare – storie non necessariamente commerciali. Però forse dentro di me stava invece nascosto solo un gonzo lettore di robaccia di bassa qualità in cerca di qualche ora di svago, qualche pagina con tette e scene hot e qualche immagine che alimentasse la parte più morbosa della sua psiche. Può certamente essere. D’altra parte entrare in una libreria e vergognarsi di acquistare un libro non significa forse riconoscere che quel libro che vogliamo acquistare è dotato di una sua sicura forza scandalosa? Voglio dire, più o meno sappiamo tutti che Kafka, Dostoevskij, Baudelaire e che in generale la grande letteratura che adoriamo, celebriamo e studiamo contiene novantanove su cento elementi di scandalo – cosa dire ad esempio di quell’amabile componimento poetico firmato da Rimbaud e Verlaine dal titolo Sonetto del buco del culo? Però acquistare questi romanzi scandalosi non genera nessun problema. Quella è letteratura. Anzi, ti guardano tutti con rispetto. Invece acquistare un Harmony oppure Harold Robbins o Jackie Collins è qualcosa di cui tutto sommato provare vergogna (o almeno ai miei tempi, quando avevo dodici, tredici, quindici anni; oggi è un po’ diverso, ci siamo inventati gli ipermercati dove possiamo peccare liberamente senza arrossire davanti a niente: la cassiera del supermercato è infatti troppo cotta dal superlavoro per stare a emettere giudizi di ordine morale sui nostri acquisti e regalarci un’occhiataccia; per non parlare poi di chi oggigiorno acquista direttamente e-book o acquista libri su Amazon o su Internet in generale). Leggendo tutta quella robaccia per camionisti a dodici, tredici, quattordici anni io stavo cercando un territorio scandaloso. Stavo cercando io stesso di ribellarmi, di essere lo scandalo: insomma stavo prendendo la decisione di cercarla, la letteratura, non volevo trovarla e basta, volevo cercarla, riconoscerla. E in fondo penso che sia esattamente questo quello che la letteratura fa e ha sempre fatto. Si allarga in luoghi contaminati, corrotti. Fotoromanzi. Fumetti. Horror. Stiamo larghi. Mettiamoci a nostro agio. Comunichiamo. Leviamoci dal grugno quest’aria da professori in cattedra. Nascondiamoci. Vediamo un po’ se veniamo fermati e riconosciuti da tutta queste pletora di somari che ormai ripete concetti “elevati” solo a macchinetta. Mentre scrivo queste righe, con meno ironia di quel che sembra, mi viene da pensare che presto dall’horror, i fumetti, i fotoromanzi e le strisce comiche del diario Smemoranda, la new weird o chissà cos’altro si dovrà cercare un territorio del diavolo nei poemi cavallereschi o nelle forme letterarie medievali. Il principio comunque resta quello enunciato.

Certamente questo senso di peccato e imbarazzo si è addirittura espanso mentre mi dedicavo ai miei primi esperimenti letterari. Certo, lo ricordo bene. Lavoravo come un matto ai miei romanzi senza margini e senza interlinea. Pestavo sull’Olivetti Lettera 32 del nonno per ore. Rinunciavo anche agli allenamenti di pallone ai quali peraltro a causa di un’infezione ai tendini avevo dovuto dire addio molto presto passando uggiosissimi pomeriggi novembrini in casa – e se cerco di ricordarmi quei momenti, nella stanza dell’appartamento dei miei nonni, col letto, il tavolo pieghevole di legno con la superficie foderata di un panno verde che i miei nonni avevano utilizzato anni per giocarci a bridge o a scala quaranta prima di prestarmelo per appoggiarci la macchina per scrivere e i fogli, l’immagine della portafinestra che mi si forma nella mente è sempre quella di un rettangolo bianco con vetri scurissimi, il ricordo dei nubifragi è molto persistente dentro di me, a volte mi fa venire i brividi. Quando arrivavo in fondo alle mie storie fatte di spie, inseguimenti, sparatorie, ma anche molti pensieri sulla morte, la vita, l’esistenza non avevo il coraggio di far leggere niente di quel che scrivevo a nessuno. Questo soprattutto a causa del senso di peccato. Avessi scritto poesie o racconti che tentavano di essere graziose allegorie sul significato della vita o sul creato probabilmente non avrei avuto scrupolo a farli leggere in giro. Non ci sarebbe stato appunto niente di cui vergognarsi. Invece scrivevo quello che scrivevo: storie di spie, assassini e più tardi addirittura storie horror, tunnel degli orrori con cadaveri veri all’interno oppure uomini che uccidevano sotto ipnosi oppure ragazzi che si facevano masturbare da donne che si animavano improvvisamente da riviste per adulti, tutte cose di cui provare vergogna e solo vergogna – specialmente per un ragazzo di provincia come me. Ho dovuto aspettare fino a quindici anni prima di trovare un amico che mi prendesse seriamente e che condividesse con me i miei stessi gusti – e peraltro era un polacco naturalizzato italiano.

In realtà non era nemmeno per una questione di gusti che scrivevo quello che scrivevo. Sono quasi tentato di affermare che ho scritto quello che ho scritto anche non piacendomi completamente. Solo che come ho già detto ho scritto così tante pagine che mi sembra assoluta fantascienza sostenere una cosa del genere con reale convinzione. In ogni caso stavo cercando il mio vero io. Questo è sicuro. Il mio vero io stava facendo le prove per scrivere graziose allegorie sul significato della vita o sul creato e prima di arrivarci aveva bisogno di fare sperimentazioni su un territorio molto differente. Dovevo essere sicuro. Chissà, magari è così per tutti. Tutti quanti sotto sotto vorremmo arrivare lì, a dire qualcosa sulle questioni fondamentali. Elmore Leonard. Clive Barker. John Grisham. Dan Brown. Magari c’è una parte di loro che vorrebbe scrivere ciò che sono e basta (scritti d’oscena semplicità e pensieri di profondità sconvolgente) e invece essendosi affermati con grande successo come scrittori di genere ormai pensano di non poterlo più fare e basta oppure addirittura che farlo sia pretenzioso, non sia giusto. Stavo comunque facendo già allora subito dai dodici, tredici anni un percorso di costrizione e al tempo stesso di liberazione. Per sentirmi libero avevo bisogno prima di sperimentare il carcere delle regole e delle forme predefinite. Ed è seguendo questo processo di liberazione in fondo che mi sono appassionato al genere fantastico e in particolare all’horror. Ho scoperto che per scrivere un racconto horror (a sedici anni ho scritto un romanzo dell’orrore, anche questo piuttosto corposo, dalle dimensioni vere, centoventi pagine scritte molto piccole con la mia prima macchina da scrivere elettronica; parlava di una casa infestata dalla polvere, una quantità spaventosa di polvere) non bisognava nemmeno documentarsi più che tanto. Un mostro poteva saltare fuori dall’armadio della mia stanza oppure una forza oscura poteva avvicinarsi a me in qualsiasi momento da dietro le spalle – anche proprio in una situazione come questa, mentre scrivo queste parole o voi le leggete. Invece per scrivere spy-story devi tirare in ballo per forza CIA e KGB oppure l’Intelligence Service o il Mossad. Le storie devono essere ambientate a Quantico in Virginia o a Washington o a Mosca, San Pietroburgo, Nairobi. Ci sono pistole. Veleni. Microspie. Scrivere una storia di spie è molto impegnativo e se vuoi cimentarti con una storia così devi giocoforza appassionarti alla documentazione. Ogni evento per quanto fantasioso va incastrato in una cornice di riferimenti reali, credibili. Questo lo capisce anche un ragazzino di dodici anni.

Come senz’altro comprenderete leggendo queste righe per me è fondamentale insistere sull’età e sul fatto di aver cominciato presto a scrivere perché a essere sinceri mi è sempre sembrato un po’ ridicolo o patologico quando qualcuno decide di chiudersi in una stanza a battere parole su un foglio bianco componendole con una tastiera a ventidue anni o a trentacinque o a quarantasei anni (nel pieno della sua apertura verso il mondo, la vita, pieno di energie). No. L’età per imbarcarsi nelle imprese titaniche e per avere la volontà di realizzare sogni che è un modo come un altro per dire fabbricarsi le sbarre del proprio carcere con le proprie mani è intorno ai sette, otto, dodici anni, quindici. Più o meno come l’età per voler essere un eroe. Per decidere di farsi ammazzare in nome di un ideale. Sono i ragazzi di venti, venticinque anni che imbracciano un fucile e si buttano oltre la collina dove sta appostato l’esercito nemico. Qualcuno con un minimo di sale in zucca certe cose non le fa e basta. Una persona matura non lo fa e basta. Ho cominciato a scrivere presto e ho cominciato a leggere presto. Se dico queste cose tra l’altro lo faccio perché credo sia inevitabile pensare a questo punto di essere di fronte a un individuo che ha trovato nella lettura e nella scrittura un’ancora di salvezza, una passione. Il mondo è pieno di persone che riempiono diari di parole. Di grafomani. Cosa diversa è però quel soggetto che per scrivere un diario privato cerca di capire come altri tengono diari. Si compra dei libri e se li legge. Qui non siamo più in presenza di una semplice passione per la lettura di diari o di biografie di grandi uomini o di agiografie. Questo non è più leggere un buon libro. E’ documentarsi. Indagare. Apprendere. Approfondire. Ecco. Lo spartiacque sta qui. Da un lato uno stagnetto dove si sguazza con il salvagente, i braccioli e una palletta e dall’altra un oceano spesso tempestoso, ruggente, difficile da attraversare, soprattutto sconfinato. Si può essere nuotatori in uno stagnetto e nello stagnetto si può nuotare ottimamente (e ce ne sono in giro autori di libri di questo tipo che sostengono di aver letto quattro o cinque grandi opere e poi alé sotto a scrivere o che hanno scritto un mezzo sonetto e alé richieste di pubblicazioni a gogò), ma soltanto chi decide di nuotare affrontando l’oceano in tempesta, solo quello sarà uno scrittore.

Dunque ho preso le mie decisioni presto – dodici anni appunto. A dire il vero le cose non sono nemmeno andate così. Non credo di aver deciso un bel niente. Lo facevo e basta. Scrivevo. Però dentro di me (sono nato il 4 settembre; il mio segno zodiacale è Vergine) qualcosa mi spingeva a voler fare questa cosa che facevo e basta perché farlo mi piaceva il meglio che potessi. Quello che scrivevo doveva somigliare il più possibile a qualcosa di vero, a un libro reale, a un racconto reale, vero, autentico, vero. A me non importava avere uno stile. Non ho mai pensato: “Sono io che sto scrivendo”. Non ho mai pensato: “Sono io il padrone qui”. Il foglio è bianco e ci faccio quello che mi pare. Sono il comandante su questo territorio che mi è costato poche mille lire giù dal cartolaio in Piazzetta San Simone. No. Pensavo invece di voler scrivere per catturare sul foglio, fermarlo lì, farlo comparire lì, quel qualcosa di magico che percorreva tutti i fogli stampati che stavano nelle librerie, che stavano nei libri in biblioteca e che uscivano in suoni, parole e immagini dalla televisione. Avevo in mente Robert Louis Stevenson. Avevo in mente Emilio Salgari. Avevo in mente Agatha Christie. Come ho già detto, I segreti di Twins Peaks di David Lynch. Quel libro complicato che si chiama Il vecchio e il mare di Hemingway e che io a quell’età – sempre i fatidici dodici anni – avevo solo sfogliato lasciandomi suggestionare dalle pagine piene di parole e dagli acquerelli che facevano da illustrazioni senza nemmeno cercare ancora di leggerlo veramente. Volevo cercare di catturare quella magia. Io l’avevo percepita soprattutto in quei libri ma già allora sapevo che quel che avevo avvertito in quei libri si trovava distribuito in varia misura anche in tutti gli altri. Ho sempre pensato a me stesso come a un tramite. A volte penso che sia questo che intendiamo per talento. Non tanto pensarsi un generatore di energia, una fonte primigenia, unica. Piuttosto pensarsi come un trasmettitore in un circuito elettrico più vasto. Un campo elettrico percorso da un particolare tipo di cariche che insieme formano energia cosmica. Quest’energia passa attraverso ogni libro. Ti attraversa mentre tu non te ne rendi nemmeno conto e non è questione di bravura e nemmeno d’età. Passa e basta. Ed è ferma lì, sulla pagina. Magari solo per una, due, tre pagine. Magari passa a intermittenza. C’è in un paragrafo, ma nel paragrafo successivo scompare. C’è intensissima in una riga e poi devi aspettare altre cento o cento cinquanta righe perché ricompaia. Ad ogni modo non dipende da niente. E’ un interruttore. Quando l’interruttore viene premuto l’energia passa. Quando c’è lei, non ci sei tu, tu sei spento. Quando ti riaccendi tu, l’energia se ne va via. Davvero. E’ così che le cose vanno. E’ una descrizione oggettiva di quello che accade. L’interruttore c’è. Non si sa dove sia. Non si sa come si faccia a premere e non si sa mai – non esiste abbastanza esperienza, esercizio o intelligenza al mondo. Però quell’interruttore c’è. Disattiva te, fa passare l’energia. Ecco perché sono convinto che ventidue anni, trentacinque anni o quaranta sei anni siano una brutta età per mettersi giù e cominciare a scrivere. C’è troppa energia in circolo. L’interruttore è sempre on per noi e off per l’energia cosmica. Una depressione aiuta l’energia cosmica. Una patologia aiuta a spegnere il nostro interruttore in favore dell’energia cosmica. Una batosta d’amore. Però se gli assegni in banca arrivano con regolarità l’energia cosmica non potrà mai veramente arrivare. Tanto più ci siamo noi in giro, quanto più quella troverà comodo passare da altri. Già, perché questa energia cosmica di cui parlo e che non è affatto un escamotage per intrattenere il lettore ma è più vera della tastiera Skintek dove batto le lettere che compongono questo scritto è senz’altro un’energia amica.

Ovviamente l’energia cosmica passa attraverso di noi quando scriviamo così come quando leggiamo. Anche quando leggiamo infatti siamo spenti. E’ l’energia cosmica a essere di scena. Ci trasporta in un altro mondo. Ci fa viaggiare e ci fa vibrare. Quando leggiamo non decidiamo niente e se c’è abbastanza energia non decidiamo nemmeno di muovere da sinistra a destra gli occhi. Accade tutto autonomamente. Noi non siamo più lì. Non stiamo nemmeno leggendo. Niente. L’unica cosa che sappiamo è che quando stacchiamo gli occhi dal testo e guardiamo l’ora pensiamo: “Ho letto così a lungo?! E’ già l’ora di cena?!”. Tutta colpa dell’energia cosmica dei libri. L’interruttore è stato trovato ed è stato premuto. Mi chiedo se non sarebbe possibile ipotizzare uno scenario dove l’interruttore non si potrebbe premere di nuovo. Appena finito il romanzo che si sta leggendo si ricomincerebbe da capo, senza staccarsi mai dalla lettura, mai, stando lì per sempre. Roba che a pensarci ti fa ringraziare tutti i rumori e rumorini che da sempre ti circondano e ti fanno perdere la concentrazione… In effetti però a me è successo abbastanza spesso che l’interruttore rimanesse sull’off per me e sull’on per l’energia cosmica per una quantità di tempo piuttosto lunga. Finisci un libro e sei come stordito. Il fatto è che con la testa sei ancora là. Là non è là. Non importa il luogo o il tempo o a cosa stai pensando. E’ un’illusione. Tutta quanta. In realtà ti trovi ancora avvolto nella dimensione dove domina l’energia cosmica, l’energia delle energie, bianca e gialla e verde e rosa e blu e scarlatta e di tutti i colori, papposa o intangibile, profumata o inodore, che sa di zuppa o di crostata della nonna. Insomma sei là anche quando hai chiuso il libro. Sì, perché non occorre certo dire che questa energia che percorre tutte le cose e che trova e preme interruttori di tutto non arriva soltanto dai libri. Si capisce a intuito. Può arrivare appunto da tutte le cose, da tutto. Un albero. Un gallo. Una nuvola. Un quadro. Un ghiacciolo al limone. Un biscotto Plasmon. Qualsiasi cosa. L’energia è lì pronta ad avvolgerti e a farti suo e come ci siamo già accorti più sopra devi ringraziare che questo tipo di energia non riesca a farti mai suo completamente. Noi non vogliamo mai amicizie troppo invadenti. Il fatto è che questa energia di cui parlo ti rimane in testa. Puoi accumulare immagini e parole e suoni che la facciano ritornare. Infatti dopo un po’ non serve nemmeno più leggere troppo per ritornare in seno al suo calore latteo, la sua ombra arcobaleno si proietterà su di te in qualsiasi momento. L’interruttore potrà scattare molto più facilmente sparandoti in dimensioni diverse. Sappiamo in fondo bene tutti quanti, noi che siamo lettori e chi di noi scrive, di che cosa qui stiamo parlando. Per me che scrivo e leggo dall’età di dodici anni (e intendo leggere e scrivere opere di finzione o saggi; di sicuro non scarabocchiare su un foglio il mio nome, ah,ah,ah, ringrazio il simpaticone che ha fatto la sua ironia, ora può anche andare a casa dalla mamma a controllare che i suoi assegni siano arrivati con la solita regolarità) questa faccenda dell’interruttore è un problema reale e appunto spesso mi ritrovo a vagare per la stanza o per le strade con l’interruttore spento rapito dall’energia cosmica. Le compagne che sono state con me o che ci stanno ancora oggi (alle donne gli uomini con l’interruttore off non dispiacciono; c’è qualcosa, piaccia o no, che le attira) a volte possono persino sentirla questa energia percorrermi (le donne di solito hanno il potere di iniettarsi nel midollo cerebro-spinale dei propri uomini e un paio delle mie io le ho sentite viaggiarmi attraverso le terminazioni nervose, lungo tutti i muscoli, in ricognizione) e se non scappano via terrorizzate trovano appunto in questa forma di assenza qualcosa di molto fascinoso. Percepiscono l’esplosione multicolore che è l’energia cosmica dentro di me. E del resto alcune delle donne che ho avuto la fortuna di frequentare hanno alimentato ben bene questa forma di energia. Monica Winters è stata un corso accelerato, e qualche volta durissimo, di editing (mi faceva editing anche quando le chiedevo di passarmi il bavagliolo a tavola), Luisa Pianzola mi ha fatto apprendere tutto del meraviglioso mondo della poesia italiana, Elizabeth Harris mi ha introdotto a tutti i segreti dell’arte della traduzione ma anche, non posso ormai non citarla, Lorenza Ronzano con la quale ho scritto gomito a gomito un romanzo, è stato come fare un gruppo studio solo che ognuno si scriveva il proprio libretto. Queste sono le persone che in carne e ossa hanno tenuto premuto l’interruttore e poi naturalmente c’è quel grande patrimonio che è Internet e le persone che ci scrivono su. E quel che accade quando l’interruttore è off per me e on per l’energia cosmica è che leggo o scrivo. Altri potranno dipingere. Cantare a squarciagola. Ballare il tip-tap. Io leggo o scrivo. Passo da un libro alla scrittura o dalla scrittura a un libro oppure mi siedo su una poltrona e sto in bambola circondato da una bolla di calore latteo. Come ho detto sto pensando. Ma non è pensare. Il pensiero funziona come per quello che abbiamo detto succede nel leggere un libro. Avviene tutto autonomamente. Non sei nemmeno tu che sposti gli occhi da destra a sinistra e da sinistra a destra. Quando leggi, leggi davvero, non è possibile pensare di stare leggendo, si legge e basta. Lo stesso è per il pensiero. Quello vero. E’ quasi un essere senza forma. Puro essere. Puro movimento. Onniscienza. In effetti non ho parole per descrivere un bel niente dal momento che quando accade tutto questo io non sono là. L’energia è dentro un corpo senza anima e senza pensieri. In questo momento in questa voce ci sono milioni di voci ma come se fossero tutte quante equalizzate e allineate tanto da dare l’illusione di sentirne una soltanto. E’ una collisione di mondi perpetua. Un’esplodere di stelle. Attraversamento di fantasmi. Non sono io. Non ci sono. Io in questo momento sono in una stanza buia, in una dimensione di non essere. Sono nel nulla. Quando ritornerò ci saranno delle tracce dentro di me. Ci sarà la traccia lasciata da questo scritto. Tracce lucenti. Orme arcobaleno. Non molto di più.

Ho letto la biografia di Andre Agassi Open e devo dire che anch’io come è successo per il grande campione statunitense col tennis ho avuto a che fare con la scrittura molto presto e quasi negli stessi termini. Per me però non è andata come per lui. Non c’è stato mio padre a costringermi a picchiare palle da tennis con una racchetta da quando sono nato. Nessuno mi ha mai attaccato libri a penzolarmi sulla culla o mi ha messo in mano una penna precocemente. Nessuno mi ha mai nemmeno passato un romanzo o un libro da leggere. Invece ho fatto tutto da solo. Tutto da me. Quando ho letto Open ho pensato che dopotutto il padre di Agassi abbia voluto dare subito un futuro al figlio e che per una generazione come la mia (ma in effetti essendo una non-generazione non è possibile parlare di generazione anche solo quando si nega che esista: in fondo ha perfettamente senso a pensarci, non è vero?) avere un futuro anche a queste condizioni (non potere smettere di colpire una pallina da tennis; essere solo una scimmia ammaestrata) non è qualcosa di disprezzabile. Non lo è più. Potrà fare orrore, ma è così che secondo me stanno le cose. Almeno Agassi si è ritrovato con un futuro. Noi che siamo lasciati liberi, oggi cosa abbiamo? Se penso a me penso di essere invece una scimmia auto ammaestrata. Ecco a che cosa portano la libertà e il desiderio. Desidera liberamente, amico, e diventerai una scimmia auto ammaestrata. Ecco tutto. Fine della lezione.

Mia madre ha portato a casa una Lettera 22 (prima che scoprissi la Lettera 32 del nonno e poi acquistassi una macchina da scrivere elettronica per poi passare alla rivoluzione del personal computer e infine al portatile) e ancora oggi ricordo l’ingresso della 22 in casa come fosse ieri. Mia madre l’aveva messa sul tavolo della sala dentro una custodia rigida nera. Io l’avevo vista e la custodia aveva subito cominciato ad attirarmi più o meno come il monolite del film 2001 Odissea nello spazio attira gli uomini preistorici o più tardi l’equipaggio d’astronauti. Ho aperto la custodia, ci ho trovato dentro la Lettera 22. La gabbia era di colore arancione. Ho accarezzato la dentiera di tasti neri. Ho battuto qualche tasto. Poi più tardi quel giorno ne ho parlato a mia madre. Lei mi ha preparato un tavolino, ci ha messo sopra un plico di fogli, una lampada, ha messo il tavolino nella sua stanza vicino alla finestra perché la luce si riflettesse direttamente sulla macchina per scrivere e mi ha spiegato brevemente come far funzionare l’Olivetti. Poi mi ha lasciato lì a pasticciare e dopo quella volta da quando dal soggiorno di casa la Lettera 22 mi ha sorriso più di vent’anni fa con la sua dentatura fatta di tasti neri e lettere bianche non ho più smesso. Ho scritto e letto. Letto per scrivere meglio e scritto per leggere meglio – e dopo un po’ letto e scritto per vivere meglio. Ho fatto tutto da solo. Mi sono comperato i libri da solo. Ho scritto da solo. Studiato da solo. Sbagliato e fatto giusto da solo. Persino in segreto. Per anni. Almeno una decina fino a quando non ho scoperto Internet e su Internet altre persone come me. Tuttavia se vado indietro con la memoria e penso a tutto quel tempo impiegato in quel modo appunto non riesco a vedere nient’altro che un ragazzo che colpisce una pallina da tennis come una macchina, senza nemmeno desiderarlo realmente, senza nemmeno saperlo. Il desiderio dentro di me si è come pietrificato. Possiamo veramente dire che un desiderio pietrificato non sia ancora pur sempre un desiderio? Lo è. E’ un desiderio ingombrante, solido, che non riesco più a mettere da parte. Non c’è niente che può demolirlo ormai. Nessuna delusione. Nessuna sconfitta. Niente. E’ duro. Indistruttibile. Non posso smettere di desiderare. A volte vedo colleghi andare avanti, avere soddisfazioni, successi. A volte giudico questi successi palesemente immeritati. Sto male. A volte vorrei sprofondare nella terra, mangiare un quintale di cotone o di gesso. Ha lo stesso sapore della delusione che ho in bocca. Devo uscire. Camminare. Se bevessi, immagino mi attaccherei a una bottiglia. Negli Stati Uniti era più facile. Il cielo aiutava. I prati verdi. Gli americani sorridenti. Poi succede che la consolazione vera però mi venga sorprendentemente proprio da ciò che mi ha procurato tutto quel dolore. Mi aspetto infatti che forse non voglia più aprire un libro. Che non voglia più leggere. Basta. E’ finita. Finita. I miei amici. Mi hanno completamente tradito. Goethe, a cosa mi sei servito? E tu, Shakespeare? E tu, invece, Thomas Mann? Credi che sia stato facile stare in tua compagnia a vent’anni, Marcel Proust? Invece è proprio aprendo i libri che ritrovo consolazione. Lettura e scrittura. Ricominciamo. Riproviamo. Non mollare. Tanto non posso. So già che presto o tardi l’interruttore scatterà sull’off e io sarò di nuovo nella stanza buia e l’energia cosmica mi avvolgerà con il suo canto celestiale e il calore latteo e io starò di nuovo colpendo una pallina da tennis come Agassi. Ci starò immerso di nuovo tutto dentro e non ci saranno più ingiustizie. Ludwig Wittgenstein. Baruch Spinoza. Carlo Sini. Emanuele Severino. Friedrich Nietzsche. Arthur Schopenhauer. Sono ancora miei amici. Mi aiuteranno. Il mio desiderio è ancora dentro di me. Pietrificato. Monumentale. Me ne accorgo ogni giorno. Ogni volta. Ha ostruito il passaggio a così tanti altri desideri nel tempo. Così tanti… Per tanto tempo mi ha bloccato. La mia gente non lo capisce. Loro non capiscono quanto impegnata possa essere una persona come me, una persona con un idolo di pietra grigia eretto nel centro dell’anima, consapevole dell’esistenza dell’interruttore e in balia dell’energia cosmica. Non riusciranno mai a capirlo. Ci vuole serietà. Ci vuole costanza. Dedizione. Sottrazione di tempo. Dunque ecco illustrato qui di seguito come sono diventato la scimmietta ammaestrata di me stesso.

Sul finire della prima media (lo stesso anno che leggemmo Zanna Bianca in classe e io per conto mio scoprii in una bancarella Martin Eden e Il richiamo della foresta) il mio professore di italiano ci aveva dato una lista di romanzi da leggere. Così. Solo una lista di nomi d’autori. Il compito era scegliere un paio di titoli e poi andarglieli a raccontare al rientro dalle vacanze. Niente che possa far gridare a intenzioni di matrice pavloviana. Il sottoscritto si è comprato il quaranta per cento della lista. Ci saranno stati dentro novanta titoli. Novanta nomi di autori. Bene, durante quell’estate io me ne sono letti una marea di autori presenti in quella lista. Ho cominciato con Bulgakov e Il Maestro e Margherita. Un buon inizio è importante. Avessi cominciato con un romanzo noioso mi sarei bloccato in partenza. Invece ho trovato Bulgakov e un po’ di magia. Poi Pian della Tortilla di Steinbeck. Poi Uomini e topi. Poi Guerra e pace. Le illusioni oerdute. Oliver Twist di Charles Dickens. Ecco ricordo soprattutto di essere stato attratto subito dai libri voluminosi. Più erano spessi, più mi attiravano. Mi sembra un dettaglio importante. Significa che volevo spendere del tempo con le parole. Leggevo per imparare a scrivere, ma volevo anche diventare un lettore vero. Non mi interessava dare un’occhiata superficiale e dire: “D’accordo, ho capito. Si fa così. Corriamo a scrivere”. Volevo imparare il movimento del lettore e quello dello scrittore. Mi stavo appunto ammaestrando. Volevo diventare una macchina. Russi. Francesi. Tedeschi. Americani. Compravo compravo e compravo. Leggevo e leggevo e leggevo. La paghetta che mi dava mio nonno me la giocavo tutta così e mio nonno me l’ha alzata intorno ai tredici anni, quando ha visto che facevo seriamente, da quindicimila lire a quindicimila lire più i soldi per comprarmi i grandi classici che vendevano all’edicola non mi ricordo più per quale iniziativa. Un bel gruzzolo, ora che ci penso. Non saprei dire quanto realmente capissi di quel che leggevo. Probabilmente non molto. Però avevo in mente Martin Eden di Jack London e anche lui aveva cominciato in modo selvaggio ed era anche mezzo analfabeta. Dovevo leggere, andare avanti. Tutta quella roba che mettevo dentro alla testa, in un modo o nell’altro, in un momento o in un altro, avrebbe trovato ordine, senso. Stavo attento alle parole. Alle espressioni. Mi lasciavo colpire e distrarre da tutto. Trovavo un’espressione a pagina quarantuno e magari a pagina cinquantasette mi rendevo conto che ci stavo ancora pensando e che nel frattempo non riuscivo più a raccapezzarmi con la storia. Forse a pensarci adesso avrei dovuto partire dalla poesia, ma una parte di me ancora oggi pensa che la poesia sia roba troppo leggera. Nah. Io volevo romanzi di ottocento pagine. Seicento pagine, mille pagine.

A dodici anni forte e orgoglioso delle mie letture, comincio la seconda media inferiore. Scrivo temi ma qualcosa al primo compito in classe va storto. Io m’impegno, ce la metto tutta. Ho la testa che esplode di parole e letture, scrivo tanto, do fondo a tutto quello che ho osservato e imparato durante l’estate. Eppure i risultati sono mediocri. Il professor Galli aveva i suoi modi per darti un giudizio e quando ti diceva “abbastanza bene” era un risultato mediocre. Altri si sentivano dire “bene” o addirittura “molto bene” – come Federico Chiodi o Luca Davico – e io volevo eccellere, giocarmela coi migliori e dargli anche polvere. Invece valevo molto poco. In fondo il mio problema era semplice e anche drammatico. Volevo così tanto cercare di catturare l’energia cosmica che si muove e si sposta nella totalità dei libri che cercavo di prenderne a piene mani dalle tracce lucenti e dalle ombre arcobaleno che l’energia mi lasciava ogni volta dopo avermi attraversato. Leggevo molto di modo da trovarmi un buon numero di quelle tracce luminose e quelle ombre dentro di me e da quelle pensavo sbagliandomi di poter attingere a piene mani. In altre parole il mio problema era che le cose che leggevo mi rimanevano appiccicate addosso in maniera allarmante. Leggevo Cime tempestose e scrivevo Cime tempestose. Leggevo Il dottor Antonio e riproducevo quella prosa. Ancora non avevo interiorizzato il movimento. Imitavo troppo. Ecco perché dico che uno scritto a otto anni può essere migliore di uno scritto a venti. Sembra incredibile, ma è proprio così. Oggi vedo tutto questo con molto più favore. Penso che ci debba essere un momento dove si è molto bravi e uno dove si peggiora improvvisamente. Peggiorare è importante. Ricevere una fila di no. Com’è possibile che mi dicano no adesso, se mi hanno detto sì prima? Com’è possibile se ora sono più forte, più consapevole, ho letto di più? Semplicemente essere più forti di prima non significa sapere sempre quanto si è forti davvero, si tende a sopravvalutarsi, ci si lancia contro imprese molto più grandi e forti di noi. Il che è ancora una volta tutto sommato un valore positivo. Ci vuole un momento dove imbracciare il fucile e dirigersi oltre la collina anche se brucia dei fuochi del nemico e noi siamo solo una goccia d’acqua in un oceano che mugghia e ruggisce. Ambizione e inadeguatezza. Due parole fondamentali. Alle quali nella migliore delle ipotesi si sostituiranno in seguito adeguatezza e necessità, mandando a mollo per sempre la parola “ambizione”. Quando c’è ambizione non c’è adeguatezza e non c’è nemmeno necessità. Scrivere è energia cosmica e noi siamo nella stanza buia. Non ci siamo. Non decidiamo. Non c’è ambizione. Non c’è niente. Si è solo dei trasmettitori. Invece io nei temi in classe c’ero, c’ero eccome. Tutto lì, col mio sprezzante bagaglio di letture. Ecco che ho imparato però la prima lezione. Se vuoi scrivere, se vuoi fare qualcosa rivolto a qualcun altro e vuoi che questo qualcun altro ti dica quello che vuoi sentirti dire, devi tenere conto di questo qualcun altro. Sembrerà banale, ma non lo è. Anche qui, non è questione di bravura. E’ questione di astuzia. Ed è ancora una volta questione di non esserci. Se vuoi trasmettere, non devi esserci. Così ho dovuto fare i conti col fatto che i miei temi pur essendo pieni di idee, immagini, cose belle, che non potevano non piacere, non andavano bene quanto desideravo e che a questa cosa dovevo trovare assolutamente rimedio. Ho pensato che se il mio problema era che imitavo troppo e non riuscivo a fare altro che imitare, perché la mia testaccia ancora non sapeva come fare per non essere là, lasciarsi andare, allora avrei dovuto tanto per cominciare imitare autori con un linguaggio più vicino a quello contemporaneo. Niente più Balzac. Dumas. Turgenev. No. Nell’estate dell’anno successivo sono sceso alla Standa (Standa viene da Standard, no? O quantomeno ci assomiglia) e ho cercato romanzi degli autori moderni che ho già citato, scritti con parole semplici, chiare, leggibili, moderne. Ho così scoperto il mondo delle spy-story. Norman Mailer. Tom Clancy. Graham Greene. E. Phillips Oppenheim. Che cazzo, ora non ricordo nemmeno più chi altro. Comunque sono andato avanti parecchio a leggere questa roba ottenendo due risultati importanti: mi divertivo da morire, il mondo dei libri appassionandomi sempre di più, e i risultati a scuola miglioravano. La strategia da me escogitata funzionava. Tra l’altro imitando qualcosa che capivo meglio sono anche riuscito a smettere di imitare e a metterci sempre più del mio. In realtà stavo sempre attento che dentro di me passasse la voce che passa in ogni libro, la voce equalizzata fatta di milioni di voci, quella singola, particolare, magica voce di cui ho già accennato. Però mi rendevo conto in qualche modo già allora che quella voce poteva passare anche attraverso la mia stessa voce, equalizzarsi e fondersi alla mia stessa voce. Un discorso forse che può apparire complicato e delirante, ma scrivere, mi spiace tanto, non è compilare una partita doppia. Così me la sono cavata con l’astuzia in attesa che riuscissi a diventare veramente bravo. Al ginnasio coi temi sono andato bene e poi al Liceo dopo un anno di assestamento, me la sono di nuovo cavata – prendevo voti alti. Anche lì ci ho messo un pizzico d’astuzia. Siccome alla mia professoressa di italiano quello che scrivevo sembrava non piacere più che tanto («Lungo, è troppo lungo!» mi diceva), allora io mi sono messo a scrivere temi di filosofia, i quali venivano corretti dal professore di filosofia e poi ratificati (di solito abbassandoli di mezzo voto) dalla prof di italiano. Appunto solo un’altra astuzia in attesa di diventare bravo, così bravo da poter piacere sempre e allo stesso modo senza bisogno di ricorrere a nessuna astuzia ossia diventare fortissimo, formidabile, senza debolezze, un carro armato indistruttibile. Ancora con cinque romanzi pubblicati per quattro case editrici diverse e altri tre romanzi per due case editrici diverse di là da venire non so cosa pensare circa questa faccenda. E’ bravura o è astuzia? E’ talento o mestiere? Ma poi contano queste domande? Io penso di no. Però a volte per qualche lettore sembra essere la sola cosa che importi. Il fatto è che in questo Paese alla scrittura si collegano sempre elementi di pura sacralità. Infatti si tende a confondere prosa e poesia. Si dice che è lo stesso – lo diceva anche Calvino. E poi nella prosa c’è spesso molta filosofia. Noi abbiamo un concetto altissimo degli scrittori. Non sono dei semplici cantastorie. Dei menestrelli. No. Nient’affatto. Ci deve essere qualcosa di divino che soffia dentro di loro e io stesso ho parlato di energia cosmica (un’espressione, mi rendo conto, alquanto new age e che probabilmente farebbe la gioia di molti seguaci di L. Ron Hubbard). Lo scrittore tendiamo a pensarlo come uomo d’intelligenza divina. Ciò che è divino non ha fatto prove per diventarlo: è divino e basta. Divino da subito. Ecco. Lo stesso deve essere per lo scrittore. Non importa che Mozart fosse una scimmia ammaestrata. Che Stephen King abbia scritto da sempre. Che Michael Jackson sia stato una scimmia ammaestrata. Non ha importanza che García Márquez definisca lo scrivere falegnameria e che scrivere sia effettivamente falegnameria, come studiarsi un libro solo che bisogna inventarselo. No. Non importa che sia del tutto lecito immaginare che uno scrittore ci metta tempo per costruirsi. In Italia abbiamo bisogno della storia miracolosa. Io non saprei dire, dopo tutto quello che ho scritto qui, se in me c’è o c’è stato del talento. In generale io credo soltanto che il talento esista e che la pratica un talento possa sciuparlo. Ma credo anche non sia possibile esercitare un talento senza praticarlo. E’ così che le cose vanno. Nell’esercitare il proprio talento questo talento subisce scossoni, colpi e contraccolpi, smottamenti squassanti e alla fine se è un talento abbastanza solido uscirà fuori da tutto, altrimenti affonderà, non ce la farà. Quando a ventidue anni ho conosciuto alcuni personaggi tra i più importanti della società italiana contemporanea, mi pare di poter affermare in tutta tranquillità che proprio questo sia accaduto. Il mio talento (che in gran parte, però, tendevo a non mostrare) è stato preso a calci e calpestato, deriso e negato. Dopodiché mi è stato detto: «Ora siediti e scrivi. Se ci riesci». Due anni e mezzo più tardi mi sono seduto e ho scritto e ringrazio il Cielo e l’editore Sironi ancora oggi di avercela fatta altrimenti non so proprio cosa sarebbe di me adesso.

Sono molte le cose che potrei ancora aggiungere, ma credo di aver reso ormai l’idea e dunque preferisco fermarmi qui. Questo scritto mi ha svuotato. Lo consiglio a tutti di prendersi un paio d’ore e scrivere uno scritto come questo. Sedersi e cominciare con «Ho cominciato a scrivere dall’età di…», «Ho cominciato a sognare di diventare architetto all’età di…», «Ho cominciato a sognare di diventare avvocato all’età di…» e poi buttar fuori il più possibile. Scrivere a ruota libera. Chiarisce le idee. Chissà, forse molti non avrebbero un punto preciso da dove partire. Si accorgerebbero di non aver nemmeno desiderato di essere quello che sono oggi e che quel che sono oggi è solo il frutto di circostanze occasionali. Niente interruttori o desideri di pietra. Nessuna voce. E’ strano ma ero partito con l’idea di parlare di libri, far tanti nomi di romanzi, raccontar trame e invece ho messo in fila nomi di autori ben conosciuti e ovviamente non ho detto tutto. Voglio pensare che i nomi che ho fatto siano quelli che mi stanno veramente più a cuore degli altri, quale che sia la ragione. Tanto per dire, di Márquez ho letto solo Dodici racconti fiamminghi e tuttavia ho fatto qui il suo nome. A volte certi autori sono importanti per noi anche se non li abbiamo praticamente letti. Così come certi libri. Non ho letto nulla di Maupassant. Però mi piace ogni tanto tornare col pensiero a questo autore e immaginarmi come potrebbe essere una storia scritta da Maupassant – magari partendo da qualche mozzicone di trama che ho orecchiato qua e là nel corso del tempo. Quello che mi stupisce quando parlo di scrittura è che mi sento come se mi venisse un’amnesia totale riguardo alle letture che ho fatto. Mi succede sempre. Per me parlare di scrittura attraverso la lettura è solo un ornamento lezioso. Considero la letteratura solo robetta. Per chi vuole emozionarsi e pensare a una storiella. Del resto noto che più o meno questo è il pensiero della maggioranza dato che per esempio delle nuove uscite si parla pochissimo delle trame, delle idee in sé, e si tende a enfatizzare, invece, gli effetti che queste trame, idee hanno sul pubblico. Sulle fascette promozionali si trova scritto «200.000 copie in una settimana!» o «Terza edizione in un mese!» e non «Questo libro parla di un uomo che legge il pensiero degli oggetti e ha aperto una bottega con una fila lunghissima di clienti che vogliono capire cosa pensano il proprio tostapane, radio a transistor, mangiadischi, carica batteria del cellulare!» o “In questo romanzo troverete la storia di una donna che brucia tutto ciò che incrocia il suo sguardo!» (tanto per fare l’esempio di un paio di libri che se esistessero sarebbero senz’altro idioti e probabilmente non schioderebbero una copia). Si evidenzia il numero di copie vendute sottintendendo che tutto sommato quel che c’è dentro il libro a questo punto non importa che sia un’idiozia o una cosa molto saggia e intelligente: va comprato e basta o quantomeno è perfettamente lecito commercializzarlo. In ogni caso se devo parlare di scrittura cerco di parlare direttamente di scrittura o addirittura mi metto direttamente a scrivere – m’invento delle storielle, cose così: di solito non mi metto a parlare delle storie scritte da altri, perché per quanto bravo possa essere a farlo mi sembra sempre di far la figura di quei cantanti che cantano le canzoni degli altri: alla fine dell’esibizione il pubblico applaude loro o il cantante che è stato interpretato? Qui ho scritto quello che avevo da scrivere come mi è venuto da scrivere. Non c’è molta differenza con uno che ha preso la penna in mano ieri. Potrei avere diciotto anni o ventiquattro o trentatré anni appena compiuti. Quando l’energia cosmica ti attraversa davvero questo non conta. E qui ce n’è tanta di energia cosmica. E’ dappertutto ed è densa. Per questo e solo per questo scrivo. Credetemi. Il vento cosmico dei libri, lasciarmi attraversare dall’anima delle cose nel mondo.