Sono insieme a lei, mentre leggo sdraiata sul prato le sue parole, sembra che fra le sue poesie di paesaggio s’intercali la sua anima, che io sento vicina.

Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – Milano, 3 dicembre 1938) per tutta la vita cavalcò la tigre della sofferenza interiore e a 26 anni finì la sua corsa. Uno sguardo di luce il suo, è un pò come guardare il sole, si diventa ciechi. La breve vita è stata segnata dal destino di scrivere che per lei era descrivere e conoscere. Nessuna poesia è stata forse consolatoria, ma il processo creativo, nel suo caso, ha suturato in qualche modo le lesioni che il mondo le aveva procurato e le sue perdite. Nel suo mondo il lettore percepisce una stupenda tenerezza, un’attesa infantile, quasi tremore di primavera per la speranza di vivere appienoL’intera struttura è ricalcata sul modello tipico dell’evocazione.

L’andamento iterativo sottolinea inoltre il senso di verticalità spirituale, il sentimento sacro e il desiderio di Dio.

L’amore è trasfigurato e purificato nel Signore, con l’emblematico elemento dell’acqua vivificatrice (ridammi una stilla di te/che io riviva).

L’idea di finitudine, di imperfezione, di miseria umana (ed è ora dentro il cuore/ho una caverna vuota,/cieca di Te) incontra il conforto di esperire una fede in sé, che colmi la voragine dove è risucchiata la vita. Preghiera che sgorga da una solitudine lacerante, da vuoti inespressi di un’anima fragile.

La Pozzi innalza un mondo che raccoglie e trasfigura la sofferenza della vita. La sua macchina poetica è creazione di un universo di segni che esplorano con meraviglia la natura che pulsa dentro il suo cuore, le sue immagini metaforiche rispecchiano l’eco della sorpresa, con una capacità simbolica che progetta quel che vede come immagine di se stessa. La sua poetica vive nella diatriba fra la pulsione verso la vita e la pulsione verso la morte, come se i due regni fossero mescolati, l’eterno inferno del suo esistere è l’attesa e il suo presentimento oscuro di fatalità che modula la sua auto confessione e il suo desiderio di luce.

Nella poesia “Giorno dei morti”, del 2 novembre del 1932, in questa stessa anima “sfinita”, i sogni nascono e “come fogliame cadono”. C’è una perdita irrimediabile, un salto paralizzante nel deserto (l’invariata piana della esistenza). Rimane il corpo livido, spossato a tenere peso (a sopportare con scarne braccia) di un’immensità terribile poiché imperscrutabile (il peso dei cieli).

Anche in questo caso è l’IO lirico a confondersi con elementi vegetali: “E resto come un pioppo nudo”, come fosse pianta percossa e inaridita.

Si sente la sua impotenza come una testimonianza di sofferenza e di bellezza, l’immenso mistero di essere lei natura, aggiunge un pathos ai suoi versi, sentito dai lettori come partecipazione. Sono state recuperate, grazie al Cielo, un gran numero della sua opera inedita, per questo sappiamo che la ricchezza postuma dei suoi versi è dovuta al contrasto che apre un paradigma elementare della vicenda comune vissuta da tante donne. Si potrebbe rivedere l’opera della Pozzi con nuovi occhi, se si guarda anche l’ostinazione, il non volere arrendersi del suo “Io” femminile, che si sente in molti dei suoi versi, come una risposta al carico di fatica e di pena quotidiana per non potere vivere appieno il suo amore.

In una condizione di affidamento assoluto, e di accettazione, la donna si riconosce poetessa, accetta di esserlo:

“Perché non è per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per un’adesione innata, irrevocabile, dal più profondo essere, io credo, Tullio, alla poesia. E vivo della poesia come le vene vivono del suo sangue. Io so cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima delle cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore.” un amore. La produzione poetica relativa al periodo che va dal ’31 al ’32, è la raccolta di versi che si avvia tristemente verso la rinuncia del suo amore per Antonio Maria Cervi (suo professore in prima liceo di greco e latino). Antonia Pozzi usa come strumento di fuga la poesia che, per tutta la sua corta vita, rappresenta un’evasione per le parole non dette e per i momenti non vissuti, dove sgorgano continuamente sentimenti ed emozioni in cui si coglie la dinamica della perdita, del movimento transitorio, la filigrana di una vocazione sotterrata, di canti non letti che si trasfigurano in una porta aperta sull’anima. Il tono complessivo di queste poesie è tragico. Il senso del tempo e dello spazio si fa dilatato, affannoso, angosciante. La poetessa patisce la nostalgia quasi convulsa e la patisce dalla fibra, in ogni chiaroscuro.

La giovane poetessa è un fiore tenero piegato dalla vita; una vita dove le parole bussano furiosamente e pregano di uscire alla deriva; le sue parole si rivelano emettendo un “grido mortale” verso il tramonto (l’ultimo sogno di sole), che costituisce un atto creativo, di fede.

Nella sua poetica è una consuetudine l’uso dell’epanalessi come modo di enfatizzare la profondità delle emozioni. In certe poesie i verbi sono coniugati al futuro (sarà l’onda mostruosa; sarà la notte intera; sarà –tu lo sai- la pace), si notano le ripetute repliche, supportate dall’andamento elegiaco dei versi che portano a riflessioni che transitano sul senso del destino ultimo dell’essere umano e dell’universo, i suoi versi sembrano quasi una sfida alla morte, in una dimensione escatologica moderna, che parla dei sentimenti intrappolati in una parabola fra la vita e la morte. Si percepisce il dolore e poi il silenzio, la rabbia delle parole abortite, che si mitiga in un “arcano cielo dell’ombra” dove esiste ancora la percezione visiva (con gli occhi aperti), ma è esiliata la capacità di esprimersi in vocaboli (con le labbra serrate). Nella poesia si nota questa insistenza ricorrente sul “guardare il cielo” (e il cielo riporta, per antonomasia, a un paradigma ascensionale), richiama a una fede. Lo sguardo di Antonia Pozzi è verso l’infinito, le immagini per lei sono porte comunicanti fra la natura e i suoi sentimenti, con grande frequenza sovrappone le sue sensazioni per mascherare la natura ed è così, che con maestria stilizza l’ambiente alla sua giustezza emozionale per non affogare tutto dentro. Nel desiderio di luce e nella realtà che la circonda troviamo il suo nome. Il cielo è nella sua poesia grembo del creato, nel quale si raccolgono tutti gli altri elementi dell’universo lirico pozziano.

La poetica di Antonia Pozzi è un canto di amore platonico, contrastato, di un candore che viaggia nella duplice fiamma del volere e non potere, di una certezza nostalgica di essere due e diversi, perché “nell’amore tutto è duplice e tutto tende all’unicità”, che nei versi della Pozzi è una unicità temporanea, istantanea e fugace.

La poesia della Pozzi è contornata da una contemplazione velata di malinconia, di luoghi dell’anima, fatti di tumulti e silenzi insopportabili. L’impianto biografico si sente in ogni verso, con un’umana e profonda sensibilità.

Antonia Pozzi ancora ventenne, al secondo anno di università deve ricominciare da capo. Sente qualcosa che la estrania dal mondo e, nello stesso momento, la accentra drammaticamente sull’amore e sulla sofferenza. Le sue ombre interiori sono voci perdute nella distanza morta; lei non sente dentro di sé nessun spiraglio di luce. Le sue porte si chiudono, come i versi, che vi riporto a seguito.

“L’ALLODOLA

Dopo il bacio – dall’ombra degli olmi

sulla strada uscivamo

per ritornare:

sorridevamo al domani

come bimbi tranquilli.

Le nostre mani

congiunte

componevano una tenace

conchiglia

che custodiva

la pace.

Ed io ero piana

quasi tu fossi un santo

che placa la vana

tempesta e cammina sul lago.

Io ero un immenso

cielo d’estate

all’alba

su sconfinate

distese di grano.

Ed il mio cuore

una trillante allodola

che misurava

la serenità.

25 agosto 1933 ”

(da Parole, 1939)

 

“IMMAGINI AMICHE

(dedicato ad Antonia Pozzi)

Giungo lì,

dove posso vederti

accanto a me,

sdraiata fra i versi,

sento la tua essenza nelle radici

che succhiano e forse ancora si nutrono

del tuo immobile corpo.

Antonia, vorrei riposarmi sulla tua ombra,

essere quel mazzetto di papaveri

che ancora fiorisce

con l’idea di essere

il senso bello di tutti i tuoi termini,

lo spirito debuttante delle tue metafore,

nate dai pensieri liberi

di quella ragazzina incasinata che eri.

Antonia, leggendo i tuoi versi,

entro in punta di piedi nei tuoi pensieri,

danzo con gli occhi

per tutti i percorsi dei tuoi sandali,

rievoco i tuoi fantasmi,

parlando con le fragranze vergini

di stradine che svaniscono

nelle vie dei passi,

dove incontro le tue chimere rosate

e costruisco parvenze che sorridono

come immagini amiche. ”

di Yuleisy Cruz Lezcano

“Tu lo vedi sorella: io sono stanca,

stanca, logora, scossa,

come il pilastro d’un cancello angusto

al limitare d’un immenso cortile;

come un vecchio pilastro

che per tutta la vita

sia stato diga all’irruente fuga

d’una folla rinchiusa.

Oh, le parole prigioniere

che battono battono

furiosamente

alla porta dell’anima

e la porta dell’anima

che a palmo a palmo

spietatamente

si chiude!

Ed ogni giorno il varco si stringe

e ogni giorno l’assalto è più duro.

E l’ultimo

-io lo so-

l’ultimo giorno

quando un’unica lama di luce

pioverà dall’estremo spiraglio

dentro la tenebra,

allora sarà l’onda mostruosa,

l’urlo tremendo,

l’urlo mortale

delle parole non nate

verso l’ultimo sogno di sole.

E poi,

dietro la porta per sempre chiusa,

sarà la notte intera,

la frescura,

il silenzio.

E poi,

con le labbra serrate,

con gli occhi aperti

sull’arcano cielo dell’ombra,

sarà

-tu lo sai-

la pace.”

di Antonia Pozzi

Ho potuto cogliere come l’uso dell’epanalessi al decimo verso e al quattordicesimo (“battono, battono” e “palmo, palmo”), quasi con tono sfumato onomatopeico, rafforzano l’azione disperata delle parole prigioniere che vogliono uscire dalla loro condizione di stasi contraddittoria che occulta la vera essenza dei sentimenti.

La poesia di Antonia Pozzi è una luminosa composizione, il suo sentimento di luce è di una rara fecondità e di uno spessore musicale caratteristico; leggere le sue poesie equivale a entrare in un flusso misterico, attraverso un remoto desiderio del “vuoto” o del “non-dire”, un processo di assorbimento della natura, piuttosto che d’immersione, alimentato dall’esperienza surrealistica, che in modo meticolosamente magnetico fa corrispondere lo spazio inconscio alla realtà. Una realtà mai univoca. La poetica della Pozzi è, senza dubbio, il groviglio di una vita, che si materializza in un nodo esistenziale d’ingenuità adolescenziale, che le fanno a volte toccare il fondo, trovandosi così in un limbo, in un non-luogo, che nega il naturale passaggio da bambina a donna.

La produzione poetica di Antonia Pozzi relativa al periodo che va dal ’31 al ’32 è la raccolta dei versi che si incammina tristemente alla privazione definitiva dell’amore tra lei e Antonio Maria Cervi (suo professore in prima superiore di greco e di latino). Nel ’33 la vita e la poesia della Pozzi si legano irrimediabilmente, sta per concludersi definitivamente, per obbligo di suo padre, il rapporto amoroso con Cervi. Si rompe, così, per sempre l’unico rapporto con il mondo esteriore e inizia la comunicazione e il monologo con l’altra voce, quella interna, quella che la mette in conflitto con se stessa e le fa davvero male. La poesia in questa nuova dimensione assume il suo compito sublime, prende tutto il dolore e lo lenisce, lo trasfigura, così Antonia Pozzi affida la sua intera anima alla poesia.

La sua ininterrotta comunicazione con un amore assente, è come una conversazione a due voci. Il tono complessivo dei suoi versi è tragico. Si percepisce la rinuncia diretta, segretamente inconfessata. La poesia non si oppone al tempo bensì lo sente pesante, dilatato in un’attesa eterna e angosciante. Il tempo diviene spazio senza transito e le sue liriche sono incarnazioni di porte chiuse e di pianto soffocato, senza speranza. La poetessa patisce una melanconia quasi convulsa, la sente in ogni fibra di se stessa.

Vi lascio un esempio con la poesia “LIMITI”, scritta il 16 aprile del 1932.

“Tante volte ripenso

alla mia cinghia di scuola

grigia, imbratta,

che tutta me coi miei libri serrava

in un unico nodo

sicuro-

Né c’era allora

questo sconfinamento senza traccia

questo perdersi

che non è ancora morire-

Tante volte piango, pensando

alla mia cinghia di scuola. ”

Antonia Pozzi è anche la poetessa del silenzio, dell’abbandono, dei paesaggi alpini incantati, ma anche la poetessa dell’incontro. Come si può cogliere nella poesia che segue:

“CERTEZZA

Tu sei l’erba e la terra, il senso

quando uno cammina a piedi scalzi

per un campo arato.

Per te annodavo il mio grembiule rosso

e ora piego a questa fontana

muta immersa in un grembo di monti:

so che a un tratto

– il mezzogiorno sciamerà coi gridi

dei suoi fringuelli –

sgorgherà il tuo volto

nello specchio sereno, accanto al mio. ”

(9 gennaio 1938)

La ricerca di un sentimento religioso e il bisogno intimo di una fede si scontrano con la disperazione nei versi della Pozzi. Antonia non regge le proprie emozioni contrastanti, è come un fiore del mattino reclinato sul suo stesso stelo, un fiore che cerca un appiglio nella fede: “Guardare una luce accecarsi nel nulla”, la sua voce in queste parole diviene un grido disperato.

“Non avere un Dio

non avere una tomba

non avere nulla di fermo

ma solo cose vive che sfuggono –

essere senza ieri

essere senza domani

ed accecarsi nel nulla –aiuto –

per la miseria

che non ha fine – ”

di Antonia Pozzi

(10 febbraio 1932)

Nei versi seguenti, invece, Antonia Pozzi percepisce la vita come un nulla, con un senso di resa, marcata dall’esigenza profonda di un ascolto non avvenuto, di un sogno irrimediabilmente perso. Si nota come la nudità dello spirito è anche quella del corpo. Antonia si sente svestita, indifesa e piena di paure.

“Nuda come uno sterpo

Nella piana notturna

(…)

Come un colchico lungo

con la tua corolla violacea di spettri

tremi

sotto il peso nero dei cieli. ”

La natura è uno specchio deforme nel quale la Pozzi si guarda, dove il suo giovane corpo nudo sente il peso di un’anima vecchia che l’attende, come un’ombra che avanza, in un sentire serrato. Nuda, senza linfa “come uno sterpo”, i versi mettono in evidenza un’aridità interna, un abbandono spirituale e una rinuncia. Si parla sempre di Antonia Pozzi come la poetessa milanese morta suicida, all’età di soli 26 anni, ma leggendo i suoi versi si nota che la sua vita è una morte continua, avvenuta mille volte nell’anima, prima della morte del corpo. Nell’ultimo verso della poesia anteriore, La Pozzi usa una sinestesia ad effetto quasi osimorico (il peso nero dei cieli), la sua anima si percepisce come un’ombra inghiottita dal buio, il suo sentire nel paesaggio si trasforma e soccombe su un luogo soffocato dalla pena, dalla fine. Il nero cromatismo dell’abbandono per eccellenza.

I versi della Pozzi sono un atlante poetico, dove la geografia è una vasta connessione di strade che portano verso il suo interno. La sua immaginazione figurativa si traduce in una sequenza di istantanee che traducono i conflitti interni dell’anima. Il campo semantico della sua scrittura si collauda con le sfumature infelici, oltre che angoscianti della sua stessa vita.

La lirica pozziana è di una bellezza distante, vietata, che non può essere sfiorata. L’infelicità taglia le profonde radici di una tormentata volontà di affidamento.

La voce, implosa, si esaurisce, in un toccante congiungersi di mani a preghiera.

“Signore, tu lo senti

ch’io non ho voce più

per ridere

il tuo canto segreto.

Signore, tu lo vedi

Ch’io non ho occhi più

Per tuoi cieli, per le nuvole tue

Consolatrici.

Signore, per tutto il mio pianto,

ridammi una stila di Te

ch’io riviva.

Perché tu sai, Signore

che in un tempo lontano

anch’io tenni nel cuore

tutto un lago, un gran lago,

specchio di Te.

Ma tutta l’acqua mi fu bevuta,

o Dio,

ed ora dentro il cuore

ho una caverna vuota,

cieca di Te.

Signore, per tutto il mio pianto,

ridammi una stilla di Te,

ch’io riviva. ”

L’intera struttura è ricalcata sul modello tipico dell’evocazione.

L’andamento iterativo sottolinea inoltre il senso di verticalità spirituale, il sentimento sacro e il desiderio di Dio.

L’amore è trasfigurato e purificato nel Signore, con l’emblematico elemento dell’acqua vivificatrice (ridammi una stilla di te/che io riviva).

L’idea di finitudine, di imperfezione, di miseria umana (ed è ora dentro il cuore/ho una caverna vuota,/cieca di Te) incontra il conforto di esperire una fede in sé, che colmi la voragine dove è risucchiata la vita. Preghiera che sgorga da una solitudine lacerante, da vuoti inespressi di un’anima fragile.

La Pozzi innalza un mondo che raccoglie e trasfigura la sofferenza della vita. La sua macchina poetica è creazione di un universo di segni che esplorano con meraviglia la natura che pulsa dentro il suo cuore, le sue immagini metaforiche rispecchiano l’eco della sorpresa, con una capacità simbolica che progetta quel che vede come immagine di se stessa. La sua poetica vive nella diatriba fra la pulsione verso la vita e la pulsione verso la morte, come se i due regni fossero mescolati, l’eterno inferno del suo esistere è l’attesa e il suo presentimento oscuro di fatalità che modula la sua auto confessione e il suo desiderio di luce.

Nella poesia “Giorno dei morti”, del 2 novembre del 1932, in questa stessa anima “sfinita”, i sogni nascono e “come fogliame cadono”. C’è una perdita irrimediabile, un salto paralizzante nel deserto (l’invariata piana della esistenza). Rimane il corpo livido, spossato a tenere peso (a sopportare con scarne braccia) di un’immensità terribile poiché imperscrutabile (il peso dei cieli).

Anche in questo caso è l’IO lirico a confondersi con elementi vegetali: “E resto come un pioppo nudo”, come fosse pianta percossa e inaridita.

Si sente la sua impotenza come una testimonianza di sofferenza e di bellezza, l’immenso mistero di essere lei natura, aggiunge un pathos ai suoi versi, sentito dai lettori come partecipazione. Sono state recuperate, grazie al Cielo, un gran numero della sua opera inedita, per questo sappiamo che la ricchezza postuma dei suoi versi è dovuta al contrasto che apre un paradigma elementare della vicenda comune vissuta da tante donne. Si potrebbe rivedere l’opera della Pozzi con nuovi occhi, se si guarda anche l’ostinazione, il non volere arrendersi del suo “Io” femminile, che si sente in molti dei suoi versi, come una risposta al carico di fatica e di pena quotidiana per non potere vivere appieno il suo amore.

In una condizione di affidamento assoluto, e di accettazione, la donna si riconosce poetessa, accetta di esserlo:

“Perché non è per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per un’adesione innata, irrevocabile, dal più profondo essere, io credo, Tullio, alla poesia. E vivo della poesia come le vene vivono del suo sangue. Io so cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima delle cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore.”

Articolo di Yuleisy Cruz Lezcano