“Fiori estinti” è un libro di ossa e di memoria. Ma, soprattutto, è un diario spirituale. Mattia Tarantino vi si riversa intero, aprendo le vene del sogno, togliendo il velo alla realtà visibile e alla stessa vicenda umana. Accedendo da una remota zona del suo intimo ad una ideale via di conoscenza: il passato. E non il passato dei ricordi, bensì quello della reminiscenza.

Fui sarto in Palestina: ricucivo
le vertebre di Cristo a croci marce
e fiorellini, i fiorellini
si scheggiano nell’erba che rivela
le ferite e la salvezza.

Un cammino a ritroso per tornare alla creazione, nel senso più ampio e variegato del termine. Di questo viaggio, la poesia è il percorso: e, come tale, non è mai stasi ma moto incessante, processo dialettico, trasformazione continua. Ed è un movimento, quello della poesia, sostanzialmente sinergico e sincrono: sinergico perché l’artista, mentre crea, guarda a chi lo ha preceduto, ne eredita e ne utilizza gli strumenti, ne rielabora gli stili, i moduli, i temi; sincrono perché nella sua opera c’è contemporaneità di passato, presente e futuro. Mattia non è figlio di un’epoca ma di tutte le epoche: fuori dallo spazio e dal tempo, eppure conficcato all’interno di essi come una radice alla terra.

Mi troverai al di là della luce,
nell’orma bianca del passo
tracciato dal canto, dove tutto
il dolore del mondo è ammainato.

Ed è proprio la radice il fine ultimo a cui tende: la poesia di Mattia è un fiore che sboccia all’inverso, rientrando nelle sue fibre, cercando le sue origini, in questo mondo e oltre, guardando al momento antecedente alla nascita, alla vita amniotica e prima ancora; ripercorrendo in senso opposto le tappe della storia e dell’evoluzione, attingendo alla sfera del mito e della profezia, in un’”escatologia al contrario” che è poi l’unico mezzo per ritrovare la propria umanità.

Che lo squarcio si richiuda sul tuo nome
inciso nell’argilla che troncò
il primo astro indovinato. Che
l’indovino tragga auspici dall’orrore
bianchissimo del seme: risorga
da Ponente la vocale e sia salvezza.

Ma questo andare all’indietro non è, come si potrebbe pensare, un regredire: è, al contrario, un avanzare, in quanto mirato a riappropriarsi dell’”uomo” autentico per attuarne la pienezza spirituale e intellettuale, per amarne anche le imperfezioni e le debolezze. Perché il senso dell’esistenza non risiede nel potere dell’uomo sulla materia, nei deliri di onnipotenza con cui il progresso tecnologico ci celebra e al tempo stesso ci aliena; il vero uomo che Mattia, quasi novello Diogene, cerca in pieno giorno alla luce della sua lanterna è fatto d’angelo e di fango, e ha mille ferite aperte dalle quali si scorge, ben distintamente, tutta la sua fragilità.

Si ammala la parola, le mie
vertebre si curvano in silenzio.
Non piove che acqua sporca,
e questa stanza è troppo bianca:

morirò nel singhiozzo delle allodole.

Quell’uomo è in questo mondo e al tempo stesso nel distacco da questo mondo: è l’ombra anonima che cammina per strada, confondendosi tra la folla, apparentemente uguale al resto della moltitudine. Perché, a ben guardare, gli abiti, l’andatura, i gesti, sono gli stessi: l’unica differenza sta nel modo di “essere” tutto questo, nella libertà di forgiarsi attimo dopo attimo, di sperimentare forme differenti, di non lasciarsi toccare dai rumori. E’ il coraggio del fiore estinto che affronta il suo martyrium sine sanguine, chiamandosi fuori da questo mondo per rientrare nel caos primordiale; è ignorare lo sguardo impietoso di una società che ti chiede di essere una superficie liscia, un angolo arrotondato, una sequenza prevedibile di eventi.

Dal cancello al precipizio il passo
e altrove il volo, la ricerca
di una lingua irrivelata

In questo contesto, i versi sono urlo, silenzioso ma lacerante, capace di scuotere le menti assuefatte e risvegliarle dalla loro abulia. Sono gli occhi tormentati del Cristo che ti passano da parte a parte, che ti mettono di fronte a te stesso: sono il cerchio e la croce, quel ciclo senza inizio né fine dove ognuno di noi trascina il dramma dello stare al mondo.

Ecco, amate
ostinati la grazia, le impervie
vie della sorte e mai, mai
la sciagura dello stare.

Per dar voce a questa particolare sensibilità, la scrittura di Mattia assume un aspetto “pietroso”, a tratti cruento: leggendo, si ha la sensazione di trovarsi al centro di una sciara, sconfinata distesa di magma spento in cui il sangue germina fiori ossuti e anime cadute, in un tempo sospeso che precorre la vita e la morte; dove braccia martoriate rovesciano il cielo e dove la luce trae l’uomo dalla polvere solo per svelare la sua colpa primigenia.

Dolore di fiorire questo cardo
che collassa nella luce.

Qui, il verso grida la rabbia della beffa a cui siamo atavicamente condannati: che ogni respiro, ogni slancio vitale, ha in sé i vermi della morte e della putrefazione; che gli angeli della nostra infanzia hanno denti acuminati. La tenerezza primitiva di certe immagini – come la madre nell’atto di spezzare il pane o i passeri che giocano – sembrerebbe una via di fuga da questa aridità desolante.

Da domani i bambini torneranno
a inventare nuove storie e nuovi fiori.

Ma anche questa è un’illusione. E’ l’ennesimo inganno della vita che che mentre sboccia è già morta, in un circolo infinito che ha in sé del dolce e del doloroso:

ogni giorno il sole è nuovo e noi soffriamo.

I continui rimandi al linguaggio, al suo legame simbiotico con i meccanismi della vita e dell’anima umana, ci restituiscono la potenza devastante di ogni singolo vocabolo, di ogni suo significato e di ogni sua declinazione; la ridondanza di alcuni termini – madre, vene, angeli, cerchio, pane, fiori – sembra obbedire ad una particolare simbologia misterica.

Nella torre la lingua mi respinge
al precipizio della sillaba e fa polvere
del nome, sbriciolando
l’inverno che abitò la terra santa.

Per diventare poesia, il sentire deve trovare la “sua” parola: una parola pensata a lungo, frutto di studio e di riflessione. Mattia è l’artista che disegna solo quando la sua mano è pronta: l’approfondimento precede la versificazione, la scelta del tema mostra all’ispirazione la sua rotta. Il risultato è una poesia “piena”, completa, la cui pregnanza non prescinde mai da quell’aspetto “colto” che tanta importanza ha avuto per i nostri antenati.

Nominare, ecco, non il nome
voglio; rivelare tutto ciò
che è prima: carne, e polvere
e miseria e cerchio conoscere.

Nonostante questa ricercatezza, Tarantino non risulta mai freddo o artificiale, tanto nei contenuti quanto nelle modalità espressive. Gli apporti della metafisica, della mistica e dell’esoterismo, i riferimenti storici e i richiami ai testi sacri vengono filtrati alla luce di un vissuto intimo e strettamente personale, formando con l’impianto un tutto megalitico in grado di evocare, di ferire, di erodere; di riesumare paure remote e immagini ancestrali. Così Mattia scorre, si muove, si trasfigura, capovolge cielo e terra, guarda in faccia i suoi angeli e i suoi demoni: tutto in lui è perpetuo lavoro di scavo, disamina e auto-creazione, nella consapevolezza che fermarsi equivarrebbe a perdersi.

Donatella Pezzino