La questione sociale perno della democrazia liberale, di Daniele Borioli

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Alessandria: (Prosegue il dibattito di Appunti Alessandrini sul futuro della democrazia liberale. DopoMarco Ciani con Il disordine della ragione pubblica e la replica di Luigi Lama dal titolo Sulla democrazia politica, ospitiamo oggi l’intervento del Senatore Borioli. Ap).

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L’articolo di Marco Ciani (“Il disordine della ragione pubblica”) mette in fila, in modo sistematico e con precisi riferimenti teorici, spunti di riflessione indispensabili per affrontare i dilemmi politici e istituzionali del nostro presente, non solo italiano.

Provo a ritornare su alcuni di essi, secondo un taglio più direttamente “politico” e, quindi, con minor cura per la precisione. Cominciamo da ciò che io ritengo possa in ultima istanza qualificare il concetto di “democrazia liberale”: che io definirei come il regime nel quale la maggioranza degli elettori seleziona, attraverso il voto, coloro cui affidare tanto il compito di perseguire l’interesse generale, quanto quello di tutelare i diritti delle minoranze, senza che tra la prima e la seconda delle due funzioni vi sia una gerarchia di rilevanza.

Aggiungo, la democrazia liberale, nel contesto contemporaneo, non può esistere in quanto tale se non fondandosi sul suffragio universale, unico strumento di legittimazione della rappresentanza e del governo (nelle due possibili versioni, parlamentare e presidenziale); non può contemplare, tra i meccanismi che ne disciplinano il funzionamento, il passaggio ad altre forme di regime, neppure se suffragate dalla maggioranza degli elettori.

A questo servono, in definitiva, le Costituzioni e gli organi di garanzia: a far sì cioè che la forma storica della “democrazia liberale” ponga se stessa nei confronti del divenire come forma tendenzialmente non reversibile dell’organizzazione istituzionale di una comunità nazionale. Ancorché tutti sappiano quanto questa pretesa debba fare i conti con la fragilità e la caducità di un sistema che rappresenta solo uno dei possibili (ancora oggi minoritario nel mondo) esiti dell’organizzazione statuale.

In epoca moderna, la “democrazia liberale” è la particolare forma di democrazia affermatasi nelle società occidentali, organizzate sul terreno economico secondo i canoni del capitalismo e del mercato; nei primi decenni del secondo dopoguerra essa si è plasticamente contrapposta alla “democrazia popolare”, concetto con il quale sono stati lungamente e impropriamente definiti i regimi affermatisi nell’Unione Sovietica, in gran parte dell’est europeo, in Cina e il diversi altri Paese del mondo.

L’ulteriore precisazione è che la “democrazia liberale” è stata, dal secondo dopoguerra sino ad oggi, l’unica declinazione del concetto di democrazia ritenuta accettabile e praticabile nel mondo libero: per grandi linee, l’Europa occidentale, il Nord-America e, seppur con alcune contraddizioni, alcuni Paesi del resto del mondo. Al punto che gli stessi partiti comunisti dell’Occidente, laddove hanno raggiunto considerevoli dimensioni di massa, ne hanno accettato in pieno le regole, sempre contenendo la propria azione nell’alveo del sistema, nonostante il reiterato richiamo ideologico alla necessità di superarlo.

Il concetto di “democrazia liberale” è divenuto così sinonimo di “democrazia” tout court. Ed è inevitabile, perciò, che le preoccupazioni per la tenuta delle istituzioni democratiche liberali coincidano con l’allarme per il destino più generale della democrazia come strumento di regolazione dei rapporti tra i cittadini, le comunità e il potere.

Naturalmente, il sistema della “democrazia liberale” può essere messo in crisi da una molteplicità di fattori, che, ad esempio, nei tentativi di allargamento del modello a realtà geo-territoriali differenti rispetto al bacino originario possono discendere dall’instabilità di taluni elementi costitutivi: la scarsa disponibilità di élites dirigenti formate a guidare una nazionale secondo quel complesso modello; un’insufficiente cultura diffusa nel corpo della popolazione. Fattori che hanno agito e agiscono più di frequente nelle esperienze di Paesi in cui i processi di democratizzazione si sono imposti più di recente, o per spinta esterna o per lo sgretolarsi dei precedenti regimi, talvolta riciclandone gli apparati di potere.

In questi casi, i movimenti di andata e ritorno tra modelli di governo democratici e modelli di governo autoritari o plebiscitari sono piuttosto frequenti. Casi come quello della Turchia o di alcuni Paesi latinoamericani, così come le esperienze di alcune delle Repubbliche ex-sovietiche possono rendere l’idea dell’oscillazione irrisolta in cui vive una parte molto consistente del globo. In qualche modo, anche i principi della “democrazia illiberale”, o “democratura”, che ci arrivano da nazioni come l’Ungheria o la Polonia, acquisite alle regole democratiche dopo la “caduta del muro”, possono essere sommariamente rubricate sotto questa categoria.

La novità più rilevante di questi anni, tuttavia, è la penetrazione di modelli istituzionali che tendono a scardinare, in sostanza prima ancora che in forma, la democrazia liberale nel grembo profondo che l’ha storicamente generata. L’Europa continentale è il palcoscenico sul quale è aperta questa drammatica rappresentazione, densa di incognite quanto al possibile esito finale. Nonostante le recenti elezioni europee ci consentano di tirare oggi un profondo respiro di sollievo, lo “spettro che si aggira” per il nostro continente è tutt’altro che sconfitto e sepolto. Di fronte all’incombere della sua ombra, serve a poco spaventarsi e occorre invece provare a scandagliare le ragioni che gli hanno permesso di portare la sua minaccia fin dentro le nostre case.

Torno al punto da cui sono partito: perché i presupposti di tutela dei diritti delle minoranze, funzione sostanziale della democrazia liberale, possano concretamente vivere e costituire condiviso mandato da parte delle maggioranze popolari che con il voto esprimono la propria sovranità, occorre che sia tendenzialmente compiuta (o almeno come tale percepita) l’altra funzione democratica: quella relativa al perseguimento dell’interesse generale. Quando l’equilibrio tra le due funzioni si spezza, il sistema entra in crisi.

Non è un caso che in quasi tutti i Paesi occidentali, seppure con varietà di soluzioni legate alle peculiari caratteristiche di ciascuna comunità nazionale, i meccanismi che hanno consentito di dare un lungo e stabile equilibrio alla missione democratica siano stati quelli del welfare: un sistema di protezioni sociali che ha consentito, agendo attraverso il fisco sulla leva distributiva, di temperare il capitalismo nella più morbida versione dell’economia sociale di mercato e di destinare risorse ingenti alla costruzione, per le classi popolari, di un edificio di diritti e di mobilità ascendente verso posizioni economiche e di status migliori, rispetto al punto di partenza.

La crisi della “democrazia liberale” è la crisi di questo modello. Essenzialmente calibrata sugli stati nazionali e sul loro potere di controllo delle dinamiche economiche e dei flussi finanziari, essa non ha saputo, o voluto, affrontare il passaggio di paradigma che si sarebbe reso necessario di fronte alla globalizzazione dei mercati, ai nuovi processi di digitali di diffusione delle informazioni e delle conoscenze, alla finanziarizzazione dell’economia, all’entrata in campo di nuovi e giganteschi protagonisti della scena mondiale, alla crescita esponenziale della manodopera disponibile e ai processi di delocalizzazione produttiva da essa generata.

Quasi sempre, e giustamente, quando si parla di “minoranze”, i cui diritti la “democrazia liberale” ha il compito di tutelare, ci si riferisce a gruppi sociali individuabili per caratteristiche riconducibili a provenienze nazionali e/o linguistiche, per convinzioni religiose, per orientamenti sessuali. Minoranze che, in quanto tali, senza le tutele garantite dall’ordinamento, possono essere oggetto di discriminazioni sociali o anche solo di condizioni di svantaggio rispetto agli altri membri della comunità. Si dimentica, tuttavia, che nella percezione popolare diffusa, durante gli anni in cui “l’insostenibile leggerezza” della globalizzazione ha accresciuto a dismisura le disuguaglianze, diseredando milioni di lavoratori, impoverendo legioni di ceto medio e via via concentrando quote crescenti di ricchezza nelle mani di pochissimo, il concetto di minoranza ha finito per inglobare anche le sempre più ristrette élites di super-ricchi e le “caste” della politica. Le “minoranze” insomma, che detengono il potere del denaro e delle istituzioni.

Anche in virtù di queste dinamiche, il concetto di “minoranza” ha assunto per scivolamenti progressivi di senso un tratto di sinonimia con quello di privilegio. E’ privilegio pensare, anche se si scappa da guerra e tortura o dalla morte certa per fame, di poter vivere in un Paese straniero e avere in esso casa, scuola e lavoro; è privilegio pensare di poter vivere la propria affettività “sovvertendo” le regole millenarie che ordinano la natura dei rapporti familiari. Anche qui, a mio parere, va cercato il successo di massa di alcune bizzarre teorie, come quella che riconduce a figure negativamente mitologiche la responsabilità dei fenomeni che il popolo avverte come maggiormente inquietanti. Tra tutti, spicca il caso del miliardario ungherese Soros, ritenuto secondo una popolarissima vulgata il deus ex machina di tutti i fenomeni che destano allarme sociale, a cominciare dall’immigrazione.

Non aver colto il progressivo e dirompente delinearsi di questo scenario è la principale colpa ricadente sulle spalle delle classi dirigenti che hanno guidato le maggiori democrazie europee nel corso degli ultimi anni. Il loro fallimento non consiste tanto (anche se in parte c’è anche questo) nel non aver potuto, saputo o voluto dare maggiore solidità alle istituzioni europee sul versante sociale e fiscale, ma nell’aver sostanzialmente assecondato quell’espansione senza regole del mercato globale che ha finito corrodere, quando non per travolgere gli stessi pilastri dello stato sociale in ragione dei quali l’interesse generale coincideva in buona parte con la sicurezza nel presente e la speranza nel futuro di milioni di donne e di uomini.

Da questa responsabilità nessuna delle grandi famiglie politiche europee, certo non quelle   Popolari e i Socialiste, può chiamarsi fuori. Hanno avuto lungamente loro in mano le “chiavi della casa” e sono loro ad aver consentito che anche l’esperienza coraggiosa e necessaria dell’euro ripiegasse verso una deriva monetarista e rigorista, invece di essere premessa per la costruzione di uno spazio sociale e identitario comune. Hanno consentito, nelle fasi buone dell’economia, che la creazione di ricchezza portasse con se l’ulteriore crescita degli squilibri redistributivi. Di fronte alla crisi, hanno chiamato al rigore gli strati popolari delle nazioni, quelli che al rigore sono costretti per consuetudine: consentendo che i sacrifici durissimi da questi sostenuti venissero ripagati con un ulteriore allargamento della forbice delle disuguaglianze in occasione dei primi cenni di ripresa.

Ian Zielonka, uno dei principali allievi di Ralf Darhendorf, ha definito questo fenomeno come “disfatta dell’Europa liberale”. Tracciando, da liberale quale egli è, una requisitoria incalzante sui gruppi dirigenti europei degli ultimi quindici anni, accomunati tutti in uno sferzante giudizio sulla sostanziale subalternità delle diverse famiglie politiche dell’Unione ai dogmi del “neolibersimo”, trasformatosi da piccola fazione all’interno del mondo e del pensiero liberali, a teoria e prassi egemoni nel pensiero e nelle prassi politiche.

Seguendo il suo ragionamento, la crisi della “democrazia liberale” è dunque un fenomeno di natura essenzialmente endogena, che ha aperto le porte ai numerosi e differenti nemici oggi in assedio “sotto la torre”. L’equilibrio raggiunto nel contesto degli stati nazionali durante la stagione dell’economia sociale di mercato, quel compromesso alto tra le potenzialità espansive della libera iniziativa e le protezioni poste democraticamente a presidio della coesione sociale, è saltato. Ed è stato il mercato a vincere, imponendo le proprie regole, prima fra tutte la de-regulation: vale a dire la regola dell’assenza di regole.

Nell’imprimere questa svolta, le forze del liberismo hanno saputo dotarsi di una narrazione incisiva: la globalizzazione avrebbe portato con sé l’uscita dalle condizioni di povertà estrema, nel loro micidiale mix di denutrizione e pandemie, centinaia di milioni di esseri umani del terzo mondo. Il che è in effetti avvenuto, ma a costo di una vertiginosa impennata delle disuguaglianze, tracciabile nell’abnorme ampliamento delle fasce di povertà o di prossimità ad essa, o nella drastica caduta di status sociale ed economico di gran parte del ceto medio, che si è verificata in seno ai Paesi più avanzati.

La crisi profonda della “democrazia liberale” nasce da lì: dall’incapacità mostrata, proprio nelle nazioni che l’avevano generata e fatta crescere, di tenere insieme i capisaldi della libera iniziativa economica con le tutele necessarie alla coesione del corpo sociale. Nel tranello sono caduti un po’ tutti, non solo i teorici del liberismo, ma anche i gruppi politici che maggiormente avrebbero dovuto e potuto fare argine a quella deriva. Tutti, in minore o maggior misura, ci siamo acconciati all’idea che la marcia trionfale e globale del mercato mondiale, finalmente liberato dagli impicci della guerra fredda, approdato nelle praterie rese sterminate dalla “fine della storia”, allargatosi addirittura a coinvolgere la Cina comunista, avrebbe portato benessere a tutti. Quasi che la caduta del muri, la destituzione dei confini, l’allargamento virtuale dello spazio e la contrazione radicale dei tempi di comunicazione resi possibili dalle relazioni immateriali, potessero rendere automatica la realizzazione del “migliore dei mondi possibili”

Guardando a casa nostra, lo stesso atto di nascita del Partito Democratico, con la celebre prolusione di Veltroni al Lingotto, è imbevuto di questo sostanziale “ottimismo della volontà”, privo tuttavia del necessario contrappeso: quel “pessimismo della ragione” che nel 2007, alla vigilia della paurosa crisi di Wall Street, avrebbe pur dovuto farci vedere l’aprirsi di alcune crepe. Nel suo discorso, il fondatore e primo segretario del PD teorizza di fatto la fine del conflitto sociale e traccia il quadro di una società in cui il compito prioritario di una forza progressista è assecondare le dinamiche economiche del mercato, provvedendo a creare le pari opportunità e le condizioni del “merito” per dare a ciascuno la possibilità di salire sul carro, e riservando alle isole di disuguaglianza, disagio, povertà l’attenzione solidale che si deve a chi non ce l’ha fatta.

Qualche parola sul concetto di “merito” va spesa, perché è proprio intorno al merito che le forze progressiste e democratiche italiane hanno riorganizzato nel corso degli ultimi vent’anni la propria proposta politica per il riscatto delle classi subalterne. Il cosiddetto “ascensore sociale”, il cui funzionamento nei decenni precedenti la sinistra aveva affidato al conflitto sociale e tradotto in successivi avanzamenti collettivi delle condizioni di partenza, sposta i propri ingranaggi su un altro perno: il merito, in virtù del quale ciascuno occupa il proprio posto nella società.

La fase matura delle “democrazia liberali” è connotata da questo leit-motiv; rispetto al quale la distinzione di campo politico è tra le forze del campo conservatore, per le quali il merito è una sorta di atout funzionale alla selezione gerarchica delle posizioni economiche e sociali; e le forze del campo progressista, che ritengono invece il merito quale leva per ampliare a beneficio di ognuno, e soprattutto di chi parte da posizioni più svantaggiate, le opportunità di ascesa sociale.

Un punto di vista nobile, maturato in origine nel mondo britannico con l’obiettivo di favorire l’ascesa sociale dei figli delle classi povere, ma che tuttavia, come ha acutamente osservato sul numero del 14/20 dicembre scorso di “Internazionale” il filosofo Kwame Anthony Appiah, dopo una fase indubbiamente propulsiva, ha finito per generare una nuova casta, arroccata a difesa delle proprie prerogative e quasi naturalmente ostile ad allargare il proprio milieu. Naturalmente, non si tratta di gettare nel cestino uno strumento certamente utile per determinare i criteri attraverso cui si svolge la mobilità sociale delle persone. Ma l’idea di sostituire i soggetti e gli strumenti di governo del conflitto sociale con il ricorso alla “meritocrazia” ha fatto fallimento: se è vero, com’è vero, che le disuguaglianze sono cresciute a dismisura, la qualità dei gruppi dirigenti non è migliorata, l’ascensore sociale si è completamente bloccato.

A quest’idea abbiamo creduto in molti, compreso chi scrive. Ma la constatazione empirica di quanto è successo in questi anni induce a cambiare strada, prendendo atto che il conflitto sociale non solo non si è esaurito, ma al contrario si è rigenerato in maniera particolarmente virulenta: secondo modalità di disaggregazione e riaggregazione delle forze che hanno completamente stravolto il campo tradizionale delle relazioni tra società e politica, ripresentando molto spesso i tratti (ne siano più o meno consapevoli i protagonisti) del conflitto di classe. In questa partita, gli istituti della “democrazia liberale” appaiono sempre meno in grado di agire come strumenti di regolazione condivisi.

Sarebbe necessario andare più a fondo sulle ragioni per cui proprio in Italia, prima e più che altrove in Europa, questa condizione abbia trovato esito nell’approdo al governo di forze che, in un caso, derivano da una matrice apertamente ostile alla democrazia rappresentativa, mentre nell’altro si manifestano sempre più orientate a condividere il disegno di quei Paesi nei quali il concetto di democrazia viene declinato come “diritto di comando” delle maggioranze di volta in volta costituite. E’ plausibile giochino in questo le molte fragilità strutturali del nostro Paese, non ultima quelle legate a un sistema politico e istituzionale mal funzionante, rimessosi più o meno in sesto dopo la stagione traumatica di tangentopoli ma ancora alla ricerca di un assetto stabile ed equilibrato. Così come non è da escludersi la peculiare “ombra lunga” di una nazione che ha profondamente infissa nel proprio dna la matrice del ventennio fascista. Forse, ancora, qualche spunto di spiegazione si può rintracciare nell’anomala vicenda politica e istituzionale della nostra penisola, che ha precluso nei decenni della guerra fredda lo svilupparsi e il maturare di un sistema politico di alternanza, cardine essenziale delle democrazie liberali compiuto. O infine, si può riflettere su quanto pesino tuttora le conseguenze dalla traumatica fine della “prima repubblica”, connotata dalla scomparsa delle forze che avevano guidato il consolidarsi della democrazia nel nostro Paese, sostituite in parte rilevante dalla prima, vera esperienza “populista” dell’Europa occidentale, il partito di Berlusconi.

Sta di fatto che qui siamo e con questa realtà dobbiamo fare i conti. L’Italia è in questo momento la nazione in cui la “democrazia liberale” si trova maggiormente in difficoltà e, data la rilevanza demografica ed economica che essa ricopre in Europa, può divenire il punto di rottura del sistema. Pur con i suoi molti difetti, il crollo della “democrazia liberale” non può che portare a qualcosa di peggio: parafrasando e riadattando al nostro caso ciò che uno studioso ebbe a dire a proposito del comunismo a qualche anno dalla caduta del muro, potremmo dire che “la cosa peggiore della democrazia liberale è ciò che viene dopo”. Di questo peggio, nelle gesta di Salvini e Di Maio sotto gli occhi, ogni giorno, “fulgido esempio”.

Cosa bisogna fare, allora? Nessuno ha, ovviamente, la ricetta in tasca. Provo però a formulare qualche personale (s)conclusione. In primo luogo, la “democrazia liberale” deve assumere in sé l’ineluttabilità del conflitto sociale e individuare strumenti nuovi per regolarlo. Ciò che non è invece successo in questi anni, nel corso dei quali, di fronte alle drammatiche conseguenze che la crisi ha gettato su lavoro e società, nella pur difficile ricerca di un equilibrio tra le dinamiche del mercato e le crescenti domande di protezione, le istituzioni democratiche sono apparse del tutto inabili a trovare soluzioni che non fossero l’adattamento, spesso in contrazione, del sistema dei diritti sociali e del lavoro alle “compatibilità” richiesta dal mercato. E’ questa la faglia più profonda apertasi, in particolare in Italia, tra il centrosinistra e il “popolo”, i cui sintomi erano già leggibili all’epoca dell’Ulivo, sebbene non ancora giunti al livello di estrema rottura registrato in occasione della drammatica sconfitta registrata dal Pd il 4 marzo del 2018.

La stagione del governo Monti e la seconda fase del governo Renzi hanno agito come detonatori su un fascio di micce innestate e pronte per esplodere. Quale che fosse l’inevitabilità necessitante di alcune riforme, resta il fatto che la loro attuazione è stata percepita dalle masse popolari come un modo per scaricare la crisi generata dalla spregiudicatezza degli attori del mercato sulle spalle delle vittime: non solo relativamente alle condizioni economiche (a quello ci pensavano già disoccupazione di massa e fallimenti di migliaia di piccole imprese), ma anche e soprattutto in termini di contrazione delle protezioni e dei diritti. La legge Fornero e il Jobs Act hanno svolto questa funzione. Si possono avere opinioni diverse e non pregiudiziali sul merito di quelle riforme. Ma ogni ragionamento politico sul destino, tanto in specifico della sinistra riformista quanto più in generale della “democrazia liberale” (torno a dire, l’unica forma di democrazia per cui valga la pena di battersi) non può non partire dall’obiettivo di ricucire lo strappo.

Significa, questo, come qualcuno paventa, tornare a una sinistra radicale pre-riformista o, come qualcuno specifica, a un Pd che ritorna ai Ds? Al punto di rendere necessario postulare l’esigenza di far nascere un nuovo soggetto politico di conio liberal-moderato? La mia risposta è no, per due motivi: in primo luogo perché il ritorno alla centralità del conflitto sociale porta con sé tematiche nuove, che richiedono di essere governate con strumenti nuovi e più articolati rispetto alle precedenti impostazioni ideologiche; in seconda istanza perché, a differenza di altre stagioni della storia italiana, è patrimonio consolidato, comune e condiviso da parte di tutte le forze della sinistra riformista, che la “democrazia liberale” rappresenta l’unica cornice istituzionale in grado di rendere compatibile la libertà con l’uguaglianza.

Il ritorno a un quanto maggiore di “radicalità”, cui di frequente mi è capitato di argomentare, non è perciò legato a un nostalgico ripiego verso approdi messi del tutto fuori uso dal tempo, ma caso mai alla ricerca di una nuova sintesi, capace di innestare più robustamente tra i pilastri fondativi della “democrazia liberale” i termini della “questione sociale”, anche semplicemente riprendendo l’obiettivo di dare attuazione alle molte parti della Costituzione rimasti inevasi. O anche, finalmente, provando a dar corso più in profondità a quella “cultura politica nuova”, che doveva stare alla base della fondazione del Partito Democratico e che, invece, non è mai nata. Non volendo mai sciogliere il nodo della falsa alternativa, tra una stagnazione delle plaghe della tradizionale cultura della sinistra storica e il permanente attestarsi su un’idea di relazione con il “centro” della società inestricabilmente associato al “moderatismo”, siamo rimasti al palo.

Anche l’aver impostato le linee di una imponente riforma costituzionale (che io continuo a ritenere sarebbe stata foriera di un assetto istituzionale migliore dell’attuale) proprio nel momento in cui chiedevamo al popolo e alle sue parti più deboli di sacrificare parte dei diritti duramente acquisiti, è stata alle origini della sonora sconfitta subita al referendum del dicembre 2016. Allo stesso modo, le pur coraggiose battaglie aperte sul fronte dei diritti civili, non sono state sufficienti a compensare il senso di sconfitta che le masse popolari hanno avvertito sul terreno delle conquiste sociali e del lavoro.

Paradossalmente, il punto critico cui siamo giunti ora, portando con noi gli stessi presupposti vitali della “democrazia liberale”, può essere l’occasione per riprovare a fare ciò che non siamo riusciti a fare prima: saldare in un crogiuolo di cultura politica nuova la vocazione sociale di tanta parte del mondo cattolico, oggi sospinta con energia dal pontificato di Francesco, con la missione storica del riformismo di sinistra, nella sua propensione a fare del conflitto sociale e del suo governo verso approdi più avanzati in direzione dell’uguaglianza. Con la consapevolezza che solo da questo amalgama, configurante una nuova radicalità positiva, contrapposta al radicalismo estremista dei sovranismi e dei populismi, possono derivare la salvezza e la saldezza della nostra democrazia.