Fanny Targioni Tozzetti


Un amico comune mi ha detto che sorridi pensando al primo verso della mia poesia in cui chiamo ”donzelletta” quella campagnola “che vien dalla montagna” . No, non mi offendo né voglio accusarti. Ti capisco. So bene che non è una critica alle mie poesie né al mio modo di pensare il mondo e la natura umana.

Immaginare di dire a una ragazza che è simile a una donzelletta oggi fa ridere, ne convengo. Sarebbe come paragonarla a una farfalletta un po’ sciocca, un po’ dimessa e dai colori un po’ sul grigio.

Ma per renderla ai tuoi occhi più credibile, prova per un attimo a caricare quell’espressione della carnalità con cui un giovane guarda una ragazza.

Oggi le vesti mostrano tutte le forme del corpo femminile e il ragazzo, guardando può carezzare ciò che gli riesce facile immaginare. Ma quando io ero giovane, incontrare una donna in strada era come vedere la luna scendere in terra e venirgli incontro. Al più incontravi delle popolane o campagnole o contadine o delle prostitute.

E non a tutti gli uomini era concesso guardarle come esseri umani se non addirittura come persone. Le donne erano quelle che indossavano gonne lunghe sino ai piedi. Ed erano madri o figlie o sorelle. Ed erano caste. Così sembrava di loro. Perché poi c’erano le amanti, dei più colti, dei più fantasiosi, dei più raffinati ma anche dei più rozzi, dei ricchi e dei potenti, nascoste o di dominio pubblico. E c’erano gli stupri di madri, sorelle, figlie che nessuno doveva sapere.

 

E i poeti? Cosa facevamo noi poeti? Quelli veri, quelli magari tristi come me, cosa dicevamo? Accusavamo i difetti e i limiti della società in cui vivevamo? Volavamo alti sulle miserie della società, ci chiudevamo nel solipsismo un po’ filosofico, salvo poi a sbandierare improbabili inni storico-patriottici rievocando e invocando un passato idealizzato e purificato.

In fondo non dovresti meravigliarti. Voi poeti di oggi, preda anche voi del solipsismo, ma ben più subdolo del mio, non fate altro che piangervi addosso, invocare amori perduti, inseguire ideali usurati e condivisi da una maggioranza credulona e ignorante. Chi siete nel chiuso delle vostre mura? Qual è il vostro carisma? Quale bagaglio di esperienze, culturali, sociali, morali vi portate sulle spalle? Cosa profetizzate? A volte ho la sensazione che credete in ciò che scrivete esclusivamente ai fini del comporre belle parole che suscitino emozioni fine a sé stesse.

No, non parlo di moralismo o di eticità della poesia, ma di trasmettere valori umani che si radichino nell’animo attraverso le emozioni che siano anelito alla conoscenza della realtà, in cui anche il poeta storicamente vive.

Come tutti i miei contemporanei colti, anche io ho sentito il bisogno di idealizzare l’immagine di quella ragazza, chiamandola donzelletta o, con maggiore affetto, Silvia.

Un affetto che mi sembra la faccia somigliare a una Beatrice, senza voglie, senza bramosie, se non quella di tessere e cantare. Ma non di reagire guardando in faccia il proprio destino i propri desideri .

E se i suoi occhi mi apparivano ridenti non potevo fare a meno di definirli anche fuggitivi, mentre schivi definivo gli sguardi che la concupivano.

Ho sottolineato questa fuggevolezza di sguardi per sottendere proprio quella difesa, tutta femminile di allora, ritenuta necessaria per sottrarsi a possibili maldicenze, a linciaggi morali, alle bramosie dell’uomo, a possibili stupri, per apparire in ogni caso casta.

E la canto da morta così da giustificare ai miei occhi immersi nel moralismo del tempo, il mio scrutare dalla finestra il suo vivere, i suoi gesti più intimi che, non lo nascondo, eccitavano i miei “amorosi sensi”. Avrei potuto cantare tutto questo impunemente?

E mi chiedo se davvero ho amato o solo desiderato la donna che credevo di amare. Mi chiedo se davvero sono stato rifiutato per la mia fisicità e non per il mio carattere chiuso, scontroso, altezzoso. Per il mio non saper accettare che una donna potesse avere dei desideri che prevaricavano, rifiutandolo, il mio solipsismo.

Temo che la mia ingiuria feroce verso l’unica donna viva, reale e di carne, che ho desiderato, e che deluso ho chiamato Aspasia, sia la prova che avvalora il mio dubbio.

Fanny era una donna che aveva fatto le sue scelte, aveva una sua vita, una famiglia, i suoi affetti, in cui io non potevo che restare ai margini. Per questo suo respingermi l’ho definita “allettatrice dotta”, quasi una puttana di rango, incapace di elevare il proprio spirito verso quella donna ideale che mi ero costruito. Lei, come tutte donne con le loro “anguste fronti”, non era stata capace di arrivare a tanto. E mi sono rifiutato di comprenderla e accettarla, perché è l’uomo che “nei corporali amplessi, inchina ed ama” la donna. È della donna il dovere di chinarsi e subire. Ma non era in grado di comprendermi, non voleva sottomettersi alle mie brame, non voleva cedere alla mia supremazia intellettuale. Nell’impeto della rabbia e delusione le ho dedicato versi che oggi definisco terribili. Ma che allora rispecchiavano il mio pensiero e il pensiero degli uomini del mio tempo:

….male
al vivo sfolgorar di quegli sguardi
spera l’uomo ingannato, e mal richiede
sensi profondi, sconosciuti, e molto
più che virili, in chi dell’uomo, al tutto
da natura è minor. Che se più molli
e più tenui le membra, essa la mente
men capace e men forte anco riceve.

Eppure mi chiedo ancora cosa si celasse nella mia anima per paragonare la donna amata a una cortigiana dotta che ha fatto innamorare Pericle, stratego di Atene, per la sua saggezza e abilità politica. Non riuscivo a sopprimere l’ammirazione per l’intelligenza di quella donna?

È questa la prova che ho amato solo la fantasia e la malinconia del mio desiderio d’amore? Quei versi colmi di rabbia accrescono il dubbio che mi tormenta maggiormente.

Ma così è stato. E allora “donzelletta” è un’espressione più che appropriata. E più che appropriata è la pietà che nutro nelle mie poesie, verso gli eroi, verso la natura, verso la morte. Senza un’incitazione alla ribellione, senza un cenno di rifiuto che non si concluda in un’invocazione remissiva o in’espressione stizzosa se non rancorosa.

Ma tu che sorridi della “donzelletta”, tu che hai deciso di vivere nel disinganno, prima addirittura che ti pervada il brivido amaro della disillusione, come raffiguri le donne, quelle che non ti hanno compreso, quelle che ti hanno abbandonato, quelle che ti hanno rifiutato? Come riesci a giustificare la tua vita, le sconfitte subite, le umiliazioni ricevute, a tollerare le ingiustizie, a condannare l’odio, senza una filosofia per la quale tutto è vano e insufficiente e la natura una nemica delle aspirazioni degli uomini?

Saprai rispondermi?

Con stima.

Giacomo.