IL MIO NOME È NESSUNO, di Vittoriano Borrelli

I tablet e gli smartphone dell’ultima generazione fanno ormai parte delle nostre abitudini quotidiane e sonoaccessori irrinunciabili di ciò che indossiamo. Se ci capita di osservare le persone che ci girano intorno, scopriamo che sono sempre di più quelle intente a parlare al cellulare, a messaggiare o a seguire l’ultima moda del selfie, ovvero l’autoscatto fotografico.

IL MIO NOME E' NESSUNO

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Voglia di visibilità, di sentirsi qualcuno in mezzo a tanta anonimia, sembra essere questa la molla che ha fatto scattare una tendenza sociale sicuramente innovativa e intrigante che ha stimolato non  poco l’interesse di sociologi e psicologi, veri o presunti, del nostro tempo.

Ma qual è il prezzo da pagare e, soprattutto, l’effetto di cotanto protagonismo?

Chi mi segue sa che ho trattato questo argomento in diversi articoli con accenti quasi sempre negativi. Le infinite strade comunicative rese possibili dalle tecnologie del momento, se da un lato hanno accorciato, e di molto, certe distanze un tempo impensabili e irraggiungibili, dall’altro hannovirtualizzato le relazioni sociali creando più solitudine che appartenenza al contesto, più esclusione che inclusione, in una parola, più emarginazione.

Certo, se il progresso tecnologico venisse utilizzato a piccole dosi e con sapiente oculatezza si potrebbero apprezzarne anche gli aspetti positivi come l’immediatezza e la facilità di reperire leinformazioni, la possibilità di entrare in contatto con un mondo dalle mille sfaccettature capace di pungolare le curiosità più esplorative.

Ma, come si dice, non è oro tutto quello che luccica. In primis l’autenticità di chi è al centro delle nostre attenzioni mediali è messa a dura prova da una realtà che latita nei sentimenti e nel coinvolgimento emotivo. Quanto più le cose o le persone con cui entriamo in contatto quotidianamente ci disturbano o, peggio, ci sono indifferenti, tanto più il rigurgito verso più comode trasposizionivirtuali del nostro essere è dirompente.

E’ un po’ come stare continuamente in bilico tra la nostra incapacità di relazionarci  e la nostrafertilità ideologica nel ricercare in ciò che non esiste -se non come fotografia o messaggio virtuale- quello di cui siamo carenti: affetto e attenzione.

Dubbio amletico del nostro tempo.  Ecco che allora il selfie, l’attesa di un commento o di un “mi piace”, tanto agognati ed effimeri, assumono sostanza in un mondo reale che di concreto ha ben poco.

E poco importa se il mio nome è nessuno quando per pochi istanti le luci di una ribalta immaginaria possono regalarci un brevissimo sorriso.

Perché, come cantava il grande Renato Zero, “è meglio fingersi acrobati che sentirsi dei nani …”

BLOG RETRO: 08.04.2016