Ius soli, ius culturae, ius laboris, di Giovanni Castagnello

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Alessandria: A quali condizioni gli stranieri che vivono in Italia possono acquisire la cittadinanza? Bisogna ridurre i tempi e cambiare le condizioni per concederla? Perché? E infine, dev’essere una priorità di questo governo?

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Ad un estremo vi sarebbe la risoluzione di riconoscere fin da subito la cittadinanza a tutti i bambini che si sono trovati a nascere in Italia, sulla scia del XIV emendamento della Costituzione americana, approvato dopo la guerra di Secessione, durante la quale fu abolita la schiavitù, che recita: “Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggetti alla giurisdizione della stessa, sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono”. Nella situazione odierna dell’Italia, paese di prima accoglienza per tanti migranti dell’Africa o del Medio Oriente, un simile atto di apertura produrrebbe effetti paradossali, nel caso che ai genitori stranieri dei nati nel nostro territorio nel frattempo non sia riconosciuto il diritto d’asilo o lo status di rifugiato, o nel caso che gli stessi, dopo un soggiorno temporaneo in Italia, si stabiliscano in altro paese europeo.

All’altro estremo c’è l’aumento degli ostacoli che gli stranieri dovrebbero superare per ottenere la cittadinanza, sostenuto con il richiamare la difficoltà dell’integrazione, l’obbligo per i cittadini italiani di conoscere lingua e leggi, la crescita dell’illegalità, il pericolo di uno snaturamento del nostro modo di vivere, e perseguito da un lato con la linea dei respingimenti, dall’altro con l’introduzione di tempi più lunghi e condizioni più esigenti per i  richiedenti la cittadinanza che in Italia vivono e lavorano. In questa direzione si è mosso il Decreto Salvini del 4 ottobre 2018 che prolunga da due a quattro anni il termine del procedimento per la concessione della cittadinanza, aumenta da 200 a 250 € il contributo richiesto per la domanda stessa  e consente di rigettare le domande di cittadinanza per matrimonio anche se sono trascorsi due anni dalla richiesta.

Questa pretesa di difendere la società e la cultura italiana o piuttosto una loro deformata e nostalgica immagine, alzando l’asticella per la concessione della cittadinanza, si accompagna a una coltre d’ipocrisia gettata sulla presenza degli stranieri nel nostro paese: ci sono, e il loro lavoro è indispensabile nelle fabbriche, nelle piccole aziende artigiane, nell’agricoltura, nelle famiglie, però di questa realtà, di questa trasformazione in atto della società italiana, non si vogliono considerare conseguenze e implicazioni: gli stranieri non devono sollevare problemi, men che meno rivendicare qualcosa, come se non fossimo un paese democratico,  devono essere silenziosi e non farsi notare, non esprimere nessuna soggettività che alteri il quadro della buona coscienza sociale e della pretesa identità italiana.

In mezzo (senza scomodare Aristotele) stanno le soluzioni razionali. Presuppongono la considerazione degli altri come persone, la cultura dei diritti, la consapevolezza che questa è oggi il vero patrimonio dell’Europa, ma non si limitano alla traduzione normativa di questi principi, tengono anche conto della realtà in atto (per questo sono espressione di razionalità politica, cioè concreta) riflettono sull’andamento evolutivo delle grandi migrazioni internazionali e sulla demografia nei paesi europei, con i problemi che pongono, e poi sulla struttura della società e le condizioni del lavoro in Italia, sulla reale presenza degli stranieri nel tessuto economico e sociale.

Le proposte razionali per il diritto di cittadinanza sono quelle che si confrontano con dati come quelli elaborati dal Centro Studi “ImpresaLavoro” nella primavera scorsa:

In Italia, ImpresLavoro registra dal 2008 al 2018 una ripresa dell’occupazione ma anche un effetto “sostituzione”: i lavoratori stranieri sono infatti aumentati da 1.690.090 a 2.455.003 (+764.913 unità, +45,3%) a fronte della riduzione di quelli italiani, che sono invece diminuiti da 21.400.258 a 20.759.946

(-640.312 unità, -3,0%).

Un altro dato da considerare è il numero degli alunni stranieri iscritti nelle scuole italiane per il 2019-2020: 789.066 su una complessiva popolazione scolastica di 8.469.259 di alunni, poco meno del 10%.

Riflettendo su questi dati, sulle esperienze, le relazioni, la vita che la loro stringata aritmetica riassume, possiamo impostare in termini razionali la questione della cittadinanza. Lo ius soli si può concretizzare in due percorsi che conducono a riconoscere il diritto di cittadinanza: quello dello ius culturae e uno che chiamerei dello ius laboris, perché la permanenza in un paese che dà diritto a divenirne cittadini si concretizza,  nel procurarsi onestamente, con il lavoro, il necessario per vivere, entrando per questa via nel sistema sociale della nazione ospite e, per i minori, nell’apprenderne con l’istruzione  la cultura e le regole di convivenza. Di ius culturae, che prevede la concessione della cittadinanza ai figli di genitori stranieri che hanno completato un ciclo di studi nel nostro paese, dopo che la precedente proposta di legge si era arenata al Senato nel 2015, si è tornati a parlare con le dichiarazioni favorevoli della ministra Elena Bonetti e di altri rappresentanti dell’attuale governo.

Lo  ius laboris è una formula, che rimanda alla normativa in vigore, per cui la cittadinanza può essere richiesta dallo straniero che risiede in Italia da almeno dieci anni, ha un reddito sufficiente al sostentamento e non ha precedenti penali. Questa formula ci fa pensare che il lavoro – fondamento della Repubblica – sia costitutivo di diritti per chi contribuisce alla vita, alla ricchezza, al progresso della nazione.  Il complemento di questa affermazione si trova  nella Costituzione, al secondo comma dell’art. 4 che afferma: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Chi adempie con assiduità e nel rispetto delle regole a un dovere, può acquisire un diritto.

Tirando le fila, il numero degli stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza italiana è crescente negli ultimi anni e, se guardiamo il decennio trascorso, assomma a poco più di un milione. Può capitare che alcuni tra loro compiano purtroppo atti criminali, così come atti criminali sono compiuti, purtroppo, dagli italiani. Credo si possa in generale affermare che l’esposizione all’illegalità e al crimine è maggiore tra chi non ha una base sicura di vita, vede misconosciuti i propri diritti e non sente vincoli di lealtà verso un sistema sociale che  lo tiene ai margini. Riconoscere i diritti che vengono dal lavoro o dall’integrazione prodotta dalla cultura è un modo per ridurre l’illegalità e aumentare la sicurezza. Questa argomentazione può essere avvalorata dal fatto che, sebbene un reato su tre sia commesso da stranieri, come ha affermato di recente il  capo della Polizia Gabrielli, la percentuale di quelli commessa da stranieri che hanno la cittadinanza non si discosta invece dalla media dei reati dei cittadini italiani.

Sull’opportunità di aprire la via dell’istruzione per giungere alla cittadinanza, i pareri sono discordi e non sorprende che lo siano tra gli stessi alleati di governo. Per stoppare i favorevoli è sempre pronta la ragione tattica che ammonisce di non prendere provvedimenti che siano impopolari e facciano crescere i consensi delle destre che si pascono di paure, sospetti, fobie verso gli stranieri.

Ritengo invece che un governo democratico, che guardi al futuro e voglia rendere più sano e forte il tessuto sociale con politiche di inclusione debba proporre una nuova legge in questo senso, per rispondere alla situazione concreta degli stranieri di fatto inseriti, e spesso con successo, nel mondo del lavoro, nelle scuole, nei contesti sociali, capaci di rispettarne le regole, e desiderosi di diventare nuovi cittadini italiani. Rinviare, pensarci ancora, aspettare il momento politicamente opportuno, palesa un’incertezza politica che non giova e mette nella posizione fallace di chi non riconosce la legittimità di una richiesta con l’effetto di logorare così la riserva di speranza, di idealità, di energia, di fiducia nel nostro paese che tante persone hanno portato con sé affrontando percorsi difficili e a volte spaventosi, segnati dalla morte di familiari e compagni, per costruirsi una vita di lavoro, famiglia, diritti e doveri, pace e dignità.