Il gatto balzò sul letto dopo aver superato l’armadio a due ante in legno di betulla ricavato all’inizio del secolo dal bisnonno Giovanni, e sulle mensole ricoperte di coppe vinte alle corse sui sentieri di montagna, passando poi con salto felino al cassettone alto, sempre di betulla con i cassetti storti e i pomelli di ottone grossi come mele fatto dal nonno Glauco che in guerra aveva perso l’uso del braccio sinistro. Da lì si era lanciato come ogni mattina quando la sveglia era suonata e dopo che il braccio peloso di Ernesto era uscito dal piumino per spegnerla brutalmente.

Dormiva sulla poltrona consunta in panno e lino pied-de-poule giallogrigio vicino alla stufa a legna, nella cucina rustica che era stata della sua padrona, si svegliava al suono del gallo e raggiungeva la camera da letto del solitario abitante della vecchia casa immersa nel bosco della Carnia. Esplorava circospetto la stanza, salendo sui vecchi mobili per osservare l’uomo dormire in attesa del segnale sonoro. Preciso come un orologio svizzero si lanciava ai piedi del letto, poi con elegante leggerezza evitava le dune sopra le gambe lunghe dirigendosi alla schiena muscolosa e tonica di Ernesto che restava sdraiato per godersi gli ultimi minuti di sonno. A quel punto il felino zampettava sinuoso fino al collo massaggiando piacevolmente la spina dorsale e andando a ronfare affettuoso al suo orecchio.

«Buongiorno gatto» Disse Ernesto con la voce ancora rauca del lunedì mattina di fine agosto «Vuoi mangiare?» E il gatto rispose salendogli sulla testa e leccandogli l’orecchio fino a che Ernesto non lo cacciò via con il braccio. Poi si alzò, nudo come sempre e raggiunse la cucina per riempire la ciotola di crocchette e la vaschetta di acqua fresca che arrivava al suo acquaio direttamente dalla sorgente. Lasciato il gatto alla sua colazione, passò in bagno e poi, una volta indossata la sua maglietta gialla porta fortuna e i suoi vecchi pantaloni da ferrata, si preparò la colazione: Formaggio fresco, uova strapazzate e speck, caffè corretto con la grappa, infine mise nello zaino due fette di torta al tarassaco, una manciata di frutta secca e due panini con speck e formaggio. Calzò gli scarponi e partì con la vecchia motocicletta del padre per raggiungere la Val di Fuosa.

Il tempo era buono ma il cielo non era del tutto sereno, una velatura copriva la zona cosicché la camminata sarebbe stata umida ma non afosa. Lo zaino in spalla e l’andatura svelta di chi era abituato a percorrere quei sentieri fin dall’infanzia lo rendevano riconoscibile da chiunque fosse pratico della valle. I paesani lo chiamavano Alpino perché da piccolo aveva soccorso un cucciolo di stambecco ferito senza più la madre uccisa dai bracconieri e l’aveva curato, trasportandolo a valle da solo. Raggiunse il bosco e iniziò la salita poco ripida fino al termine del tratto asfaltato. Lì trovò parcheggiato il Quad che Mauro Cotton usava per portare le vivande fino al rifugio Floriani. Era ancora in paese a fare spese, questo significava che lo avrebbe raggiunto più avanti lungo i tratti di ghiaia. E proprio dopo aver superato una mezza dozzina di tornanti, uscì dal bosco, davanti a lui si apriva il lungo tratto in salita di sassi e pietre formatosi a causa della frantumazione delle creste dolomitiche. Aveva percorso già due chilometri quando aveva raggiunto il punto in cui Bear Jo li aveva abbandonati tutti ed era schiattato una domenica di dodici anni prima. Ancora non se ne faceva una ragione. Il suo unico, vero amico dall’infanzia. Avevano condiviso tutto: scuola, militare, soccorsi, crisi, lutti. Era rimasto solo e da allora si era chiuso in sé stesso. Fece il segno della croce come ogni lunedì che passava di lì da dodici anni e riprese il cammino. Dietro di sé sentiva il rumore del Quad che si avvicinava.

Continua…

 

Michela Santini

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