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«Se te dice male nun è colpa mia, chiaro? Se nun me porti natre venti sacchi non té sforzà manco a venì». Mi avvertì con arroganza facendo ordine. «Queste non mentono». Si sistemò la parrucca fucsia scivolata di lato «C’ha ragione il giornale. Sei ‘na sciacquetta, tié!».
«Hai finito di farmi la morale? Presto il mondo saprà la verità. Domani è un altro giorno!». Enfatizzai con tono solenne, manco fossi stata Rossella O’Hara e le voltai le spalle uscendo.
«Il mondo s’è già accorto che sei ‘na sgualdrina alcolizzata». la sentii recriminare prima di raggiungere il portone. Avrei voluto rispondere a tono ma fui incapace di trovare una replica valida.

Una volta uscita mi sentii salire un magone nel petto e mi sembrò di avere le vertigini. Respirai cercando di dimenticare appoggiandomi alla parete fredda e bucciata del pianerottolo. Il pavimento in linoleum era consumato e si era alzato vicino agli scalini. Mi ricordò un materasso ad acqua che dondola ad ogni movimento. Tuttavia era sempre meglio del buco coi bacarozzi e i sorci dove mi nascondevo da una settimana.
La tentazione di interrogare i tarocchi era un vizio che non se ne voleva andare. Ne tenevo sempre un mazzo in borsa. Ma per cosa? Incassai la testa nelle spalle. Avevo perso troppe battaglie, così ad ogni sirena di allarme battevo subito in ritirata. Chiamai l’ascensore, non volevo farmi vedere lì.
Le porte si aprirono e uscì un uomo sulla sessantina, tozzo e con il riporto. «Io la conosco…Gioia!!». Sbavava malizioso.
«Mi ha scambiato per un’altra persona, mi lasci in pace». Tagliai corto irritata, spingendo con frenesia sul tasto dell’ascensore perché si chiudesse e girando la faccia per non guardarlo mentre puntava l’indice su di me. «Quello scandalo con la regista l’ha rovinata, eh?». Sentii mentre scendevo nel seminterrato. Nascosi le chiavi di Giuliana e presi il borsone carico dileguandomi in fretta.

Ci vollero più tentativi perché il Maggiolino si accendesse, mi facevano male le mani a forza di battere i pugni sul volante per la rabbia. La guida nel traffico impazzito dell’ora di punta, anche se snervante, mi aiutò a contrastare i pensieri sgradevoli; indolenzita e sudata nonostante fosse quasi inverno, raggiunsi l’Appia Antica e poi via Tuscolana, l’unica zona in cui l’ambiente di Cinecittà mi accettava ancora dopo l’articolo. Cercai un parcheggio davanti al complesso popolare. Aldo abitava nell’ultimo edificio, quello con la facciata più disadorna e sporca. Questa volta salì fino al suo piano. L’atrio puzzava di piscio e aglio, mi ero ripromessa di non scendere mai a quel livello, eppure… Suonai.
«Aspetti qui». Il ragazzino lasciò aperta la porta con il chiavistello inserito e corse per il corridoio buio, fino alla stanza in fondo. Il lampadario a gocce era rimasto con quattro lampadine e solo due funzionanti, e la carta da parati stracciata, rendeva gli spazi lugubri. La puzza di cane mi travolse e dovetti indietreggiare nauseata.
«Torna tra un’ora, Marì». Riconobbi la voce rauca di Aldo mentre cercavo in borsa un fazzoletto per sopportare quell’olezzo disgustoso. Mi appoggiai alla porta sbattendola con insistenza. «Perché tra un’ora?». Ribattei con insolenza. Non volli prender fiato e quasi soffocai «Se hai qualcosa per me apri, altrimenti me ne vado».
«C’ho ‘n copione da incubo perfetto pe té, ‘a Marì! Ma me serve ‘na conferma. Aspetto un’interurbana importante». Si schiarì la voce. «Fatte un giro de n’ ora. Fidate, nun te ne pentirai!». Ansimò. Impressionata portai le mani alla gola come avessi una strozzatura. Cacciai via il ricordo.
Un cane lupo vecchio e malato uscì dalla stanza e si distese sotto al lampadario, il ribrezzo mi avrebbe impedito di superarlo, un attacco d’asma e il rumore dell’aspiratore mi convinsero a non andare oltre. «Vado dal paninaro e poi torno, ma se me freghi… poi me senti! E lava quel cane, questa casa puzza come un porcile!». Protestai e lo sentii chiamarmi ancora. «Sta attenta a chi incontri, m’hanno detto che il figlio de Sandro Roberti bazzica là, è un debosciato che s’è messo con brutte compagnie. L’ho cacciato st’estate e quasi mi prendevo una pugnalata, insegnava al ragazzino a usà le armi». Tale padre, tale figlio, pensai e comunque io neanche lo conoscevo.
Recuperai la borsa che mi era caduta e ricacciai in fondo la busta e la pistola.

Michela Santini

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