Erano gli anni ,dice, della grande ripresa, si camminava in bicicletta e si pensava all’automobile, si lavorava quasi tutti ma sopratutto non c’era fretta. Ero venuto da poco ad abitare nella città, mio padre si era risposato dopo una lunga vedovanza e avevo dovuto abbandonare la donna che fino allora mi aveva allevato, e fare l’entrée nella nuova famiglia, che a me stava molto stretta, ma avevo sei anni e chiaramente non avevo parola. Abitavamo in un piccolo appartamento, all’ultimo piano, ovvero il terzo, affacciato su una bellissima e grande piazza che confinava su antiche seicentesche mura alberate, oggi giardino pensile e vanto internazionale. La locazione era interessante, ma il vivere in quelle quattro stanze per me era soffocazione e prigionia, abituato fino ad allora a correre tra i campi scalzo anche d’inverno, essere fuori casa all’alba e rientrar al primo scurir del cielo, assaporar del fiume che scorreva vicino e viver dei lavori e delle usanze contadine fatte di semplicità terrene e di complicità nei gesti e nei pensieri. Qui tutto era calcolato, predisposto, ordinato, anche se non c’era la frenesia odierna, ma il vivere nella grande comunità comporta naturalmente delle discipline e delle regolarità. Tra le varie abitudini, o che si vogliano chiamare, costumi e doveri, ce n’era una che ne andavo pazzo e davvero mi divertiva e al tempo stesso mi gratificava alquanto. Era quasi obbligo, ma soprattutto per dovuto bisogno, prima che facesse notte, dover andare dal lattaio sotto casa, con una bottiglia di vetro in mano, a comperare il latte fresco, per la colazione del giorno appresso, al tempo non era confezionato, ma veniva fornito come a volte ora si fa con il vino….a mescita. E quello era il mio piccolo impegno serale.
Mia madre (non ho mai usato e pensato il dispregiativo “matrigna”) mi forniva quei piccoli spiccioli necessari per il fatidico litro di latte, se non li aveva precisi, al mio rientro il resto era d’obbligo e naturalmente preciso. Scendevo sereno le scale dell’abitato e talvolta, anzi spesso cantando, era un mio vanto e già allora uno scacciar pensieri, il canto mi dava l’illusione della perduta libertà, come un canarino dentro una gabbia, che canta al mondo quello che forse lui mai conoscerà, io purtroppo lo conoscevo ma lo avevo perso. Uscivo fuori, sulla piazza, le luci della città stavano per accendersi, ma era l’imbrunire, quel momento magico in cui il giorno sembra far le valige piano piano, guardarsi intorno come a veder se tutto è in ordine per poter poi partire tranquillo, e porre le chiavi di quello che lasciava alla nuova, che arrancava le scale faticando, notte. Pochi passi sotto muro, ma pericoli allora ce n’erano pochi, le strade nonostante tutto era trafficate ma di motori, bici e tanti tanti pedoni, auto certo se ne vedevano ma in misura molto minore, e il negozio era li vicino, una piccola stanza ben illuminata, dalle pareti tutte piastrellate bianche, e bianco era il banco dove posavano due grandi bidoni in alluminio con coperchio e altri secchi e due grossi fusti, sempre in alluminio, tenuti in celle per mantere fresco il latte. Una signora, mi pare al tempo già di età avanzata, ma a quella età tutti mi sembravano vecchi, molto materna nei suoi gentili gesti, o ero io che vedevo la mamma in ogni donna dolce che incontravo quasi a rimproveramene la mancanza, e sempre sorridente, prendeva un grosso ramaiolo e con un imbuto messo al limite della mia bottiglia, lo affondava in uno dei bidoni e riempiva con un bel latte bianco e al tempo pure profumato.
Rimanevo sempre entusiasta di quei gesti, il solo vederlo, il latte, mi ricordava quando invece che nei secchi io lo avevo visto uscir dalla natura, ovvero dalla mucca, in certe sere di mungitura nelle stalle.
Nel frattempo che lei adoperava queste gesta, in disparte in un grande frullatore, così lo denominai e d è rimasto nelle mie immagini di ricordo, si effettuava quel processo di montare il latte che poi diventava panna e sarà forse che il mio piccolo visino innocente non sapeva nascondere la voglia, la signora sempre mi avvicinava una cialda con sopra un poco di quella fragranza bianca. 
Nel passar dei giorni e anche de gli anni, l’abitudine della panna non è venuta meno, anzi imparai a raschiare sui resti e mentendo a mia madre mi compravo sempre una piccola coppetta di cialda ricolma di panna….e tutte le sere bene o male la mia porzione non mancava, e panna sempre più desideravo e amavo. Penso che la panna sia stata la mia prima trasgressione alla vita impostami, un gettarmi nel piacere per riscattare il negato, ingannare maliziosamente per goderne a loro (genitori) danno.
Il gusto e la gola della panna da allora non fu mai sedato, anzi tutt’ora che ne sto parlando mi sta venendo voglia……devo correre al supermercato e comprarmene per montarla.

Roberto Busembai (errebi)

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