In uno dei precedenti articoli ho esposto le mie impressioni su certi modi di scrivere poesie con versi sciatti, privi di ogni valore poetico, frutto di sfoghi personali (in prevalenza sospiri d’amore, di delusioni amorose o invettive contro la società e il modo di vivere odierno).

Ho inteso adesso esporre qualche riflessione su cosa significhi per il poeta scrivere poesie e sui meccanismi di comunicazione dell’arte poetica.

Ho riflettuto che leggendo una poesia,oppure guardando un quadro, o ascoltando musica, mai mi vien da chiedermi cosa sia l’arte poetica,quella pittorica o musicale.
Queste domande sorgono in me quando la poesia, un quadro o la musica sono espressione di un istinto individualista (o sfogo) che nulla comunica a me fruitore, quale appartenente al genere umano o, in senso spirituale, all’umanità.

Peraltro ho notato che queste domande sono poste prevalentemente da chi non ha nulla a che vedere con queste arti (o le analizza per motivi di mestiere).

Per essere più schietto e immediato (e magari un po’ ironico), mai mentre faccio all’amore, o sono innamorato, mi sono chiesto e mi chiederò cosa sia l’amore.
Ciascuno comprenderà quale effetto deleterio possa provocare nell’intimo di colui o colei che si pone la questione mentre fa all’amore. Certo, magari ce lo chiederemo dopo, o prima. Ma se ci poniamo la domanda, siamo davvero sicuri di amare, e in particolare colei o colui che ha suscitato in noi il bisogno di un chiarimento?

Leggere, ammirare, ascoltare fare all’amore significa spalancare, senza ombra di vanità, le porte della nostra anima.

Chiarito il rapporto strettamente spirituale che lega fra loro poesia, musica, pittura e amore, ed escludendo da queste righe (per ovvi motivi!) l’analisi dell’atto di fare all’amore, torno a riflettere sulla domanda iniziale, limitandomi alla poesia, per comprendere i meccanismi di comunicazione dell’arte poetica.

In generale si dice: «Scrivo versi perché mi sfogo, perché mi sento realizzato, perché dentro me urgono delle emozioni che mi costringono a metterle giù.»

Accettiamo per il momento queste motivazioni come valide per scrivere versi. Ma chiediamoci se sono anche sufficienti per creare valide poesie.

Poiché io mi ritengo una minima fievole esile voce del coro, vorrei spostare l’attenzione su coloro che sono universalmente riconosciuti poeti. In particolare su coloro che appaiono, sotto il profilo delle esigenze interiori, meglio rispondenti a quelle motivazioni appena citate.

Possiamo rivolgerci a Wislawa Szymborska (le cui poesie sono da me non molto apprezzate) che scrivendo i suoi versi, contraddistinti da grande semplicità, riflette adoperando elementi retorici quali l’ironia, la contraddizione (o antitesi) e il paradosso, sia per descrivere la condizione dell´essere umano, sia per celebrare le meraviglie del creato che osserva e descrive con immutato stupore.

Essa ha detto di sé stessa, rileggendo la sua biografia “strappatale” da due giornaliste: «Mi sono resa conto che tutta questa mia storia appare priva di drammaticità. Come la vita di una farfalla, come se dalla vita avessi ricevuto solo carezze». Non è stato così, non fosse altro che per essere stata costretta a studiare in clandestinità per conseguire il diploma e a rinunciare al conseguimento della laurea per motivi economici.

La Szymborska è una dei poeti che si è posta la domanda su cosa sia la poesia e, contrariamente a quanto da me sottolineato sopra, lo fa proprio scrivendo i versi finali di un suo componimento :

ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
Come alla salvezza di un corrimano.
[1]

A cosa si aggrappa la Szymborska per comporre poesia ?
Non alla poesia, ma al suo non sapere. Vi si aggrappa come a un corrimano, esattamente all’opposto di ciò che fanno coloro che scrivono per sfogo, che spesso compongono i loro versi dando l’impressione di sapere già tutto della vita.

Ma il vero poeta va alla ricerca degli infiniti percorsi che la sua continua e sofferta permanenza nell’impermanenza della realtà rende possibile tracciare.

Un’altra poetessa, Emily Dickinson, così esprime questa condizione:

Nella prosa mi chiudono
come quando, bambina,
mi chiudevano dentro lo stanzino,
perché volevano stessi “tranquilla”.
Tranquilla! Avessero potuto sbirciare,
vedere la mia mente che frullava,
tanto sarebbe valso rinchiudere un uccello,
per tradimento, dietro uno steccato
. [2]

Sono due poetesse che non si sono mai abbandonate tra le braccia della vanità, magari amanti della gloria, ma di quella gloria che è il contrario della vanità.

Sul versante opposto all’ironia, ma non alla vanità, e massimamente aspirante alla gloria, troviamo il Leopardi, che ci parla ancora oggi e sembra lamentarsi con, e contro, la natura per la propria condizione. Le sue poesie come i suoi scritti parlano dell’io in prima persona.

Ma chi penserebbe mai che quell’io sia semplicemente un io che si sfoga? E perché pensiamo alle poesie di Leopardi come espressione dell’umanità, anche di quella che non si sente soffocare dalle stesse pene?

Certamente perché Leopardi parla con toni e modi, con immagini e figure retoriche, esprimendo un pensiero, una concezione della vita che vengono largamente condivisi a livello estetico-armonioso e/o a livello sentimentale-razionale.

Forse il suo sfogo non è proprio uno sfogo, né le poesie sono state scritte con quelle intenzioni e meno che mai con quello scopo. Egli scrive di sé come paradigma dell’umanità. Ma per giungere a questo livello di comunicazione, egli ha speso le sue giornate, per anni, sulle “sudate carte” in cui altri autorevoli autori, dei secoli precedenti, hanno esposto le loro idee ora in forma filosofica ora in forma poetica, ricorrendo in quest’ultimo caso a canoni di armonia e di eleganza formale, e avendo come fine ultimo l’amore per la Bellezza.

Leopardi si è talmente lasciato sommergere dall’attualità di pensiero dei suoi predecessori, da sentire il bisogno d’infrangere quei canoni utilizzati da quegli autori per crearne di nuovi più rispondenti alle esigenze estetiche del suo concepire l’arte poetica, emergendo così da schemi ormai sorpassati (anche se ancora culturalmente validi per gli specialisti di quest’arte – storici e critici- e per gli eruditi amanti delle tradizioni).

Infine ci rivolgiamo a Raymond Carver, poeta disarmante per la sua paradossale capacità di consapevolezza e insieme d’innocenza.

L’autoironia lo riscatta continuamente, combinandosi allo stupore e alla curiosità per la complessità della vita umana e ai suoi legami con la vita animale. Il suo modo di fare poesia ci regala nuovi modi di pensare e di sentire in campi già battuti. [3]

Dunque una serie di fattori concorrono a trasformare un dattilografo dei versi (come definisce Carver certi versificatori ) in un vero poeta. [4]

Credo che ciascuno di noi può trarre le dovute riflessioni sulla complessità o meno del proprio mondo interiore ed esaminare criticamente il modo di esprimerla in versi.
Spontaneità, sentimentalismo (o in opposizione razionalismo), non fanno poesia. Come non fanno poesia l’uso di espressioni bizzarre (che i loro autori fregiano dell’appellativo di emetiche), spesso colte dai versi delle canzoni che più li hanno colpiti o commossi, e accostate tra loro per stupire sé stessi, credendo che possano stupire gli altri e soddisfare la propria vanità.

È fondamentale una solida cultura letteraria (e filosofica) che maturi in un senso di consapevolezza del vivere dell’uomo e della natura. Un uso corretto della lingua e delle figure retoriche (non le solite e stantie), un senso dell’armonia e soprattutto sensibilità alla sete di bellezza che ciascun uomo sente in sé.

Leggendo sui blog o su facebook o altri social penso infine, per dirla con Riccardo Bacchelli [5], a certi contemporanei portatori di speranze e di amore a buon mercato, o viceversa “a certi banditori e mimici eroi della disperazione, del pessimismo e dell’ironia” vuota di ogni pensiero, maturato, moralmente meditato e serio, e mi “par di assistere a un carnevale”.

Note

[1] Wislawa Szymborska, “Ad alcuni piace la poesia”, in “La fine e l’inizio”, traduzione e cura Pietro Marchesani, Edizioni Libri Scheiwiller, 2009.
[2] Emily Dickinson, Poesia num. 613 (c. 1862). in “Poesie”, traduzione di Margherita Guidacci, Edizioni BUR Rizzoli,2019.
[3] Tessa Callager, Introduzione a “Orientarsi con le stelle” di Raymond Carver , Edizioni minimum fax, 2016.
[4] Raymond Carver, Voi non sapete cos’è l’amore (una serata con Charles Bukowski), in “Orientarsi con le stelle”, Edizioni minimum fax, 2016.
[5] Riccardo Bacchelli , Discorso per il centenario di Leopardi, in” Leopardi, commenti letterari”, Edizioni Mondadori, 1962