Pensiero d’autunno

Fammi uguale, Signore, a quelle foglie
moribonde, che vedo oggi nel sole
tremar dell’olmo sul piú alto ramo.
Tremano, sí, ma non di pena: è tanto
limpido il sole, e dolce il distaccarsi
dal ramo, per congiungersi alla terra.
S’accendono alla luce ultima, cuori
pronti all’offerta; e l’agonia, per esse,
ha la clemenza d’un mite aurora.
Fa ch’io mi stacchi dal piú alto ramo
di mia vita, cosí, senza lamento,
penetrata di Te come del sole.

*

Il risveglio

Senza sonno la notte e senza pace
fu. Pulsava alle tempie, ai polsi il sangue
torbido, in colpi sordi; e mi parea
rispondesse al mugghiar cupo del mare.
E tra il mugghio del mare e il martellìo
del sangue il mio dolor con le memorie
più fonde in cuor si rinnovava, tutta
addentandomi dentro: ero soltanto
quel dolor, quel dolore; e il resto nulla.
Ma venne, a un tratto, verso l’alba, il sonno.
Breve esso fu, come una morte breve;
e mi svegliai che il sol, già alto, in fasci
di raggi entrava dal quadrato azzurro
della finestra. Vi balzai. M’immersi
nella luce, non più vita pensante,
ma solo vita: bevvi la freschezza
del mattino nel salso odor del mare,
mare e cielo divenni, e immenso riso
senza memoria.

*

Orgoglio

Soffri in silenzio. Non chiamar nessuno
a numerar le lacrime degli occhi
tuoi. Sia pur grave il colpo che ti tocchi,
chieder coraggio ad altri è inopportuno.

Conta nel tuo segreto ad uno ad uno,
se vuoi, curva e prostrata sui ginocchi,
i singhiozzi del cor—ma non trabocchi
la piena mai, per la pietà d’alcuno.

È un’orribile cosa esser compianti.
Conquista in te, con la tua forza sola
di volontà, l’oblio del tuo cordoglio.

T’insegnerò, per disseccare i pianti
fiacchi e cangiarli in riso entro la gola,
un peccato magnifico: l’Orgoglio.

*

La folla

Fluttuo con te, nel tuo sordo tumulto
perduta; e tu mi porti e tu mi spingi
e mi rigetti, e d’ignorarmi fingi,
ma ben m’abbranca il tuo potere occulto.

Sai di sudore umano, e di sporcizia
mascherata d’aromi, e del sentore
d’ogni travaglio: ogni odio ed ogni amore
per oscuro fermento in te s’inizia.

Mi piaci per l’enorme onda vitale
che tutta mi ravvoltola, muggente
e rischiumante, carne e cuore e mente
impregnando del tuo libero sale.

Ogni volto che a lampi appare e spare
forse è il mio: chè mio corpo non è questo
solo ch’io sento e curo e movo e vesto:
chi vi noma e vi scinde, onde del mare?…

D’essere innumerevole è mia gloria
e mia superbia; e multiforme, come
te, folla; e in preda a tutti i venti, come
te, che a folate scardini la storia;

e, se fremito passi di sommossa,
ingigantir con te, con te disvellere
i sassi e i cuori, ed oscurar le stelle
col divampar della mia furia rossa.

*

Mattinata invernale

Ricordo.—Era il Dicembre:
La campagna apparìa smorta di neve,
Irta di ghiacci.—L’alba tersa e lieve
Animava il silenzio.

A l’orïente gelido
Il sol rifulse: e allor, trasfigurata,
La neve palpitò come baciata,
E si fè tutta rosea:

Sovra le rame squallide,
Su l’erbe vive ancor, su le brughiere
Palpitò di dolcezza e di piacere
Nel mattino purissimo.

*

La ciocca bianca

De’ tuoi bianchi capelli, sì leggeri
alla carezza e pur sì folti, in uno
scrigno una ciocca serbo. Erano i miei
scuri come la notte, allor che al capo
tuo la recisi. Ed oggi, te cercando
in quella ciocca, sola cosa viva
che di te mi rimanga, io mi domando
se recisa non l’ho dalle mie tempie.
E se mi guardo entro lo specchio, e in esso
mi smarrisco, non me, ma te ravviso,
o Madre: tua questa marmorea fronte
piena di tempo, e immersa in una luce
ch’è già ormai d’altra terra e d’altro cielo.

*

Il recesso

So la bellezza d’un recesso verde
dove roseti carichi di thee
bisbigliano coi pioppi de le allee,
e in un col passo l’anima si perde.

Ogni cosa del mondo è sì lontana
di là, ch’io forse del mio lungo male
mi guarirei, con l’erba per guanciale,
vestendomi di salvia e maggiorana.

Forse….—ah, m’inganno.—Che un fischiar di serpi
m’accoglierà, sol che il cancello io schiuda:
per sùbita malia selvaggia e cruda
vedrò le rose tramutarsi in sterpi.

*

Le violette

Anche quest’anno andrai per vïolette
lungo le prode, nel febbraio acerbo.
Quelle pallide, sai: che han tanto freddo,
ma spuntano lo stesso, appena sciolte
l’ ultime nevi; e fra uno scroscio e un raggio
ti dicono: – Domani è Primavera.
Ogni anno tu confidi al tuo tremante
cuore: – È finita: – e pensi: – Non andrò
per vïolette: non andrò mai piú
per vïolette – ché passò il mio tempo –
lungo le prode, nel febbraio acerbo.
Invece (e donde ignori, e da qual bocca)
una voce ti chiama alla campagna:
e vai; e i piedi ti diventano ali,
sí alta è la promessa ch’è nell’aria.
E per ancor dell’esili corolle
quasi senza fragranza, ma beate
d’esser le prime, avidamente schiacci
con gli steli la zolla entro le dita.
O sempre nuova, o non guarita mai
dall’inquïeto mal di giovinezza,
a chi dunque darai le tue vïole?
A nessuno: a te stessa: o, forse, ad una
fanciulla che ti passi, agile, accanto,
e ti domandi dove tu l’hai colte:
sola n’è degna, ella che fresca ride
come il febbraio; e non si sa qual sia
piú felice, se ella, o Primavera.

*

Palpebre

Pàlpebre, dolci pàlpebre, che un velo
calate, quand’io voglia, fra i miei occhi
e i fantasmi del mondo: per la vostra
misericordia imprigionarmi posso
entro me stessa, e nulla più vedere
di quel che esiste, ma veder più in fondo
o più lontano. O pàlpebre, son belli
i volti amati, i fiori al sole, i campi
di spighe ondose; ma più bello il vostro
mistero. In esso abbandonatamente
io mi sommergo; e scendo (o salgo?) al punto
ove l’umano ha termine, e il divino
comincia; e scopro eterei paradisi
che il mondo ignora; e vi vorrei per sempre
suggellate su questi occhi di carne,
per restar col mio Dio libera e sola.

*

Ponte di Lodi

Ponte di Lodi, i tuoi plumbei pilastri
abbracciati dall’impeto del fiume
rivedo, e i freschi spruzzi delle schiume
candide a fior dei vortici verdastri.

Come una volta ancor vorrei poggiarmi
alle tue sbarre, e riaver quel vento
in faccia; e mirar nuvole d’argento
specchiate in acqua, e d’esse sazïarmi.

Ma esser quella d’allora, con quel volto
e quell’anima, scarna adolescente
livida di superbia, impazïente
di vivere, con sensi aspri in ascolto:

e tutto innanzi a me: lo spumeggiante
fiume e la vita!…—Ma su via trascorsa
non si ritorna. Il tempo spinge, in corsa:
altri fiumi, altri ponti, altri miraggi.

E vado e vado. Finchè, un giorno.—Addio—
dirà l’anima al corpo. E sarà il fiume
natal, che, in sogno, sotto il ponte, a lume
d’astri, mi condurrà verso l’oblio.

*

Ada Negri nacque a Lodi il 3 febbraio 1870. Di umile estrazione (il padre era vetturino, la madre tessitrice), Ada trascorse l’ infanzia nella portineria dove lavorava sua nonna. Qui, osservare il via vai delle carrozze e la vita del quartiere l’aiutava a riempire le lunghe ore di solitudine; nello stesso tempo, sviluppava la sua sensibilità e la sua vena descrittiva, doti che le furono preziose nella stesura delle future opere.

Con molti sacrifici, la madre riuscì a farla studiare alla Scuola Normale femminile di Lodi, dove ottenne il diploma di maestra elementare. Dopo un breve periodo al Collegio Femminile di Codogno, Ada passò alla scuola elementare di Motta Visconti (1888), in provincia di Milano. Qui, parallelamente all’impegno scolastico, cominciò a dedicarsi all’attività letteraria, collaborando con la rivista Fanfulla di Lodi. Negli stessi anni pubblicò la sua prima raccolta poetica Fatalità (1892), opera che ebbe un grandissimo successo e la pose all’attenzione del mondo culturale dell’epoca. L’apprezzamento riscosso dal libro le fruttò anche un prestigioso riconoscimento da parte delle autorità: le fu infatti conferito il titolo di “docente per chiara fama” presso l’Istituto Superiore milanese “Gaetana Agnesi”. Si trasferì quindi con la madre a Milano.

Qui, entrò in contatto con gli ambienti socialisti, ai quali la accomunava il suo interesse per il sociale. Conobbe personaggi in vista del panorama politico, come Ettore Patrizi, Filippo Turati, Benito Mussolini; determinante fu l’incontro con Anna Kuliscioff, con la quale stabilì un’intesa immediata e profonda, al punto da chiamarla “sorella ideale”.

Nel 1894 vinse il premio per la poesia “Giannina Milli”; nello stesso anno uscì la sua seconda silloge poetica, intitolata Tempeste. In questa fase, la sua opera si concentra soprattutto sulla questione sociale: per il tono di denuncia con cui affronta le tematiche legate alle sofferenze delle categorie più deboli (proletariato urbano, emigranti, donne) le viene attribuito l’appellativo di “poetessa del quarto stato”.

Dalla fine degli anni Novanta, alcune vicissitudini personali segnano profondamente la sua vita e la sua produzione letteraria. Un matrimonio fallito, la perdita della seconda figlia (morta ad appena un mese di vita), gli anni della guerra e la morte della madre: in seguito a questi avvenimenti, l’autrice si chiude sempre più in se stessa e, da sociale e di denuncia, le sua scrittura diventa autobiografica e intimista. Ne sono una conferma le sue successive pubblicazioni, sia poetiche (Maternità, Dal profondo, Esilio, Vespertina) che di narrativa (Le solitarie, Stella mattutina). Gli scritti di Ada concedono adesso largo spazio all’introspezione, agli affetti familiari, alla memoria e al sentimento religioso. Non manca il patriottismo, evidente nella raccolta di odi Orazioni (1918), che avvicina l’autrice alle posizioni di Mussolini.

Nonostante il suo sempre più marcato isolamento, la Negri non viene mai dimenticata: nel 1926 è candidata al Nobel per la letteratura; alcuni anni dopo riceve il “Premio Mussolini” (1931). Nel 1940 diventa membro dell’Accademia d’Italia. L’evento fa storia: la poetessa lodigiana, infatti, è la prima donna italiana ad esservi ammessa. Muore a Milano l’11 gennaio 1945.

Pur essendo figlie di un contesto storico ben definito, le opere di Ada Negri mostrano oggi una freschezza singolare. Ambienti, ritratti e stati d’animo vi appaiono fortemente marcati, e con un profondo senso dell’essenzialità che sfronda lo stile di fronzoli e di orpelli concentrandosi sulla capacità della parola di essere scarna, nuda, diretta. Così, il dolore si fa urlo; un urlo muto, che rimbomba dentro più assordante e lacerante che mai. Così si alternano passione, rabbia, disperazione, solitudine, abbandono: un universo emozionale dove niente è taciuto, e tutto viene messo, spesso impietosamente, in bella mostra, perché nessuna voce sia soffocata o ignorata.

Nelle ultime poesie, questa crudezza si addolcisce – senza peraltro dissolversi – stemperandosi in uno struggente anelito verso un nulla che è, finalmente, approdo alla luce e alla pace. L’impronta fortemente distintiva data dal suo peculiare modo di vivere e di sentire non prescinde, tuttavia, da alcune particolari influenze, sia scolastiche che personali. Nella scrittura della Negri, infatti, si possono ritrovare echi foscoliani e leopardiani, richiami alla poesia di Mario Rapisardi, Gabriele d’Annunzio, Arnaldo Fusinato e Walt Whitman; elementi della Scapigliatura e del teatro di Ibsen (soprattutto per ciò che concerne i modelli femminili); istanze del Verismo e del Naturalismo, per la loro efficacia nelle descrizioni del mondo degli umili e degli emarginati.

La fortuna di Ada Negri non si è limitata agli ambienti letterari: molti musicisti italiani, infatti, hanno tratto ispirazione dalle sue poesie, trasponendole in varie composizioni per voce e per pianoforte.

Donatella Pezzino

(Foto da: 150anni.it)

Fonti:
– Wikipedia
– Liber Liber
– Ada Negri, Dal profondo, Milano, F.lli Treves, 1910
– Ada Negri, Esilio, Milano, F.lli Treves, 1914
– Ada Negri, Tempeste, Milano, F.lli Treves, 1895
– Ada Negri, Fatalità, Milano, F.lli Treves,1892
– Ada Negri, Vespertina, Milano, Mondadori, 1930
– Ada Negri, Otto liriche (dalla “Nuova Antologia”, Febbraio 1942- XX)
– Ada Negri, Tre liriche (dalla “Nuova Antologia”, Dicembre 1940-XIX)