Il rastrellamento della Benedicta ovvero l’operazione militare condotta dai comandi militari germanici di Genova e Alessandria sotto la spinta delle forze della Repubblica di Salò durante i giorni di Pasqua dell’ aprile ’44 che comportò la dissoluzione delle compagini partigiane concentratesi nella zona del Monte Tobbio. Fu un evento inedito e traumatico che colpì in primo luogo il numeroso gruppo di giovani partigiani, travolti, e poi catturati o sterminati nel corso del duro rastrellamento, ma anche le persone che abitavano in quell’ area, così come le famiglie dei giovani caduti e le comunità dei loro luoghi di provenienza. I numeri parlano chiaro 157 fucilati e 187 deportati nel campo di concentamento di Mauthausen. L’immagine più impressionante e simbolica di quegli eventi è forse la deflagrazione e il collasso della grande cascina che dà il nome all’evento. Un luogo simbolo, ma minuto, del tutto comune, così come relativamente ristretto e marginale è il teatro dell’evento, rispetto agli ampi scenari della guerra europea: un fazzoletto di terra, per certi versi. Ma altri luoghi e altre immagini riconducono a quell’episodio, e portano a storie di donne e di uomini condotti in maniera diverse, e con storie diverse, verso destini molteplici: quella del plotone d’esecuzione alle pendici del Turchino, dove 17 partigiani arrestati durante il rastrellamento trovarono la morte insieme a altri 42 prigionieri politici per rappresaglia; o quella della stazione di Sesto San Giovanni, dove i ferrovieri riuscirono a far saltare i lucchetti dei portelloni e liberare i giovani catturati durante il rastrellamento no ancora il piccolo fotogramma relativo alla stazione di Brescia, dove uno dei deportati, Stefano Mazzarello, riesce a lanciare dal vagone del treno che lo conduce oltreconfine l’ultimo disperato messaggio indirizzato alla sua famiglia; fino a uno degli spazi simbolo della tragedia del Novecento, quello dei campi di concentramento, in questo caso quello di Mauthausen, fine corsa per centinaia di quelle giovani vite, e luogo di morte per migliaia di perseguitati europei. Centinai di ragazzi, antifascisti, renitenti alla leva, soldati allo sbando, prigionieri evasi dalle carceri dopo l’8 settembre 1943, partirono nell’inverno di quell’anno in direzione del Monte Tobbio. Provenivano per la grande maggioranza dalle città e dai paesi vicini: da Alessandria e Genova, dalla zona del Tortonese, da Arquata Scrivia e Serravalle, dal novese, dalla zona di Ovada, dalla valle Stura e dai quei comuni più prossimi a Marcarolo: Voltaggio, Bosio, Parodi Ligure, Campomorone, Ceranesi, Isoverde. Queste ultime comunità, in particolare, videro intere generazioni di figli scomparire nel rastrellamento. Furono i loro parenti, le madri in particolare, che all’indomani della strage – nonostante il divieto che impediva l’attraversamento della zona a causa delle operazioni militari in corso – intrapresero una prima volta quello stesso cammino, per svolgere il terribile compito del riconoscimento dei cadaveri, e per provare a dare loro, tra mille difficoltà, una prima, provvisoria sepoltura. Un itinerario che ripercorsero poi, una seconda volta, a guerra finita, per il recupero delle spoglie, in modo da poterle restituire ai loro paesi d’ origine per le esequie ufficiali, alle quali parteciparono in massa le popolazioni coinvolte. Una quantità di memorie sono nate e si sono consolidate nell’esperienza, nel lutto; ma anche nella consapevolezza del significato storico e più generale di quell’evento. Dà lì ancora ripartono, ognuna per un altrove: una nuova riformulazione del ricordo, un rinnovamento del sentimento di commozione, di pietà, di orgoglio per aver, tramite quei morti, partecipato ad un momento così tragico ma fondativo della coscienza italiana ed europea odierna. Alcuni di questi lacerti di memoria furono depositati – in forma di carte, di oggetti, di testimonianze – presso gli Istituti storici della Resistenza, altri in luoghi o depositi del tutto differenti. Ci sono stati ex partigiani che si sono fatti carico in prima persona di raccogliere e riconsegnare storie e testimonianze. Alcune memorie sono invece rimaste sempre in un ambito privato: nelle case dei loro proprietari, in cassetti pieni di ricordi, album fotografici, oggetti conservati fin dall’infanzia e perciò più difficili da recuperare. Ma insieme ai documenti e agli oggetti ci sono gli esercizi di memoria, o le vere e proprie inchieste condotte dalle persone comuni, spesso riconducibili all’attaccamento ad un luogo, e al modo in cui la storia ha incrociato la vita delle persone vicine. Ne è un esempio la puntuale ricerca fatta da Renzo Pastorino sui caduti di una piccola frazione appena fuori dall’abitato dell’importante comune di Ovada, il Gnocchetto, cha ha voluto riportare alla luce una piccola verità storica, attribuendo la reale provenienza e dunque l’identità ad uno dei molti caduti della Benedicta: Pietro Caneva. Si è trattato di un lavoro, che ancora oggi procede, di recupero di memorie diverse, eterogenee, e spesso disperse, non di rado anche potenzialmente in conflitto tra di loro. Memorie custodite gelosamente, rielaborate a seguito di atroci sofferenze, testimonianze di storie singole, familiari, corali, ma anche intimamente legate a coloro che le hanno costruite e difese, elemento fondante di identità più o meno ampie. Sono memorie che le persone hanno fin dagli anni immediatamente successivi alla liberazione riportato sempre lì dove tutto è cominciato, e che la commemorazione dell’eccidio che tutti gli anni si celebra intorno al 7 aprile, ancora oggi molto partecipata, contribuisce a conservare, ad alimentare.    

Oggi, 5 aprile, celebrato il 76° anniversario, online a causa dell’ emergenza Covid19.