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PREGHIERA, di Leonardo Migliore

UN MONDO STRAMPALATO… 

UN POEMA IN PROSA DEDICATO ALLA MEMORIA DELLA MIA CARA NONNA “ROSA” E A CHI CON PAZIENZA VORRÀ LEGGERLO. IL TESTO SEGUE IL RITMO E LE MELODIOSE SONORITÀ DELLA COMPOSIZIONE “MARIAGE D’AMOUR” DI FRÉDÉRIC CHOPIN.  

   PREGHIERA   

di Leonardo Migliore 

La limpida acqua delle colline innevate scorre rapida  discendendo i prischi canali di scolo ai margini delle strade. Il mio cuore balla, ascolta il suono dalla timbrica vivace prodotto dal liquido e che come l’amore non può ghiacciare in inverno. È acqua che riempie l’animo di poesia, è «la pólla viva della poesia», citando Benedetto Croce, è acqua che non possiamo arrestare, è un esempio tangibile del corso della vita che si spegne quando il suo fluire geme come un malato nel suo letto. È acqua che lava e purifica, è acqua che si rincorre sposando sempre se stessa, è acqua di cui voglio conoscere il miracolo. Gli alberi sfumano lasciando spazio ad arbusti non più grandi di giunchi, la strada diventa un sentiero, il cielo pigmentato di lapislazzuli si apre in un sortilegio di candide nuvole che baciano e agenzano le vette alpine, più sopra uno specchio lacustre e rada vegetazione  disseminata da stoppie biancastre. Sembra che tutto il paesaggio si possa contenere nel palmo di una mano.  

È un mondo di cristallo, una veste ialina di cime imbiancate che si riflettono nell’acqua, un silenzio polare interrotto dal mugghiare del vento. Avanzo galleggiando nell’aria per incontrare il mio angelo celeste, e non sono altro che una creatura dell’averno dantesco. Penso talvolta che inferno e paradiso siano speculari. La spada conficcata nella roccia si riverbera nell’acqua circostante come luce abbagliante di croce. Inizio a sentire profumo d’amore, chiudo gli occhi e immagino tutto, mi butto a capofitto nel vento, frugo fra nuvole labirintine, il mio animo si fa madido, e quanto in principio sembrava piccolo diventa indistinto crepuscolo serale. Respiro aria familiare, non perdo la speranza, divento combattivo come l’acqua fontanile nell’aggirare gli ostacoli  e penetro lo spazio in ogni direzione. Come gli angeli cantano «osanna» in sacrificio al Signore, mi spetta innaffiare con acqua perché la terra fiorisca, mi spetta piangere lacrime perché l’anima fiorisca. E così sulla cresta di una montagna,  dove rivi sorgivi freschi e snelli sciolgono i loro capelli in un piccolo balzo, la mia dolce nonnina mi attendeva con aspetto giocondo. I tasti di un pianoforte intonano le note rilassanti di “Mariage d’amour” di Frédéric Chopin e la soave melodia attraversa ritmicamente le mie dita come acqua di rocca, infuocando di passione le mie mani in procinto di aggrapparsi a nonna Rosa, temendo di perder quota e scivolare nel fuoco della Geenna or che sfioravo la mia speranza più azzardata. 

Nella mia mente si svolge il nastro di una pellicola e il nostro film vive di luce e sonorità. Mi ritrovo bambino accanto a te e nel bosco, all’ombra di un leccio, facciamo colazione su un verde prato, respirando l’odore intenso dei fiorellini gialli di una vicina gaggia. Mi hai preparato il latte con il pane sminuzzato, orzo e zucchero e l’antico sapore, similmente alle madeleine di Proust, mi inebria con l’incanto di un lontano passato. Prego ardentemente che la musica di Chopin non ci abbandoni. Finalmente mi sento a casa; suoni, spazio, fragranze, sapori e tempo prosperano solo per noi. 

I

 

E inizia la danza,  un saltello per rincorrere l’emozione di perderti nel vento e ritrovarti, per vivere un incantesimo, per raccontarti che di certo non ero nato per la vita che ho condotto e che ci fui trasportato dalla corrente degli eventi. La musica cambia ritmo, l’armonia ci regala ali per volare, e siamo farfalle a Villa d’Este in gioco tra gli spumeggianti zampilli del viale delle Cento Fontane. Suggiamo nettare dai fiori rigogliosi e, fermi sulla corolla di un delizioso elleboro, scopriamo che anche il gocciolìo dell’acqua ama quando rompe il silenzio e dona freschezza a visi avvizziti e animi distanti, placando la sete di un filo d’erba ingiallito. E riprende il sogno, musica celestiale ci congiunge in un vincolo inscindibile. Il mio spirito arde d’amore  e il mio fuoco può riscaldare il cuore dell’umanità intera, grazie alla scintilla con la quale mi hai restituito la gioia di vivere. 

Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti. Vorrei essere protagonista di un idillio bucolico, possedere uno zufolo per dedicarti un motivo della nostra terra, per disegnare nello spazio tutto il bene che ti voglio e non ho saputo esternare. Ancora oggi hai un posto privilegiato nei miei pensieri, appartieni alla parte più bella della mia vita: la gioventù. La musica cambia cadenza e ritmo, non dà spazio a rimpianti, pretende esclusivamente un’indicibile letizia. Il ritmo musicale accelera, il mio cuore cristallino palpita ed è tra le tue mani, i tuoi occhi annegano nell’integrità della sua luce e ne riemergono ravvivati come i colori dei fiori dopo la pioggia.  Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti per metabolizzare la grande felicità provata. Cambia ancora il ritmo ed è di nuovo godimento del sole, del fresco e della brezza marina. Cessa la musica e si spegne il tempo… 

II

 

E inizia la danza,  un saltello per rincorrere l’emozione di perderti nel vento e ritrovarti, la musica eleva il mio animo, mi inoltro tra la natura incontaminata, e carezzo prati fioriti di stelle. Lo sguardo si posa sul fiore più bello: è una rosa glauca. La musica cambia ritmo, l’armonia ci regala ali per volare, 

vago alla ricerca di una corrente ascensionale, arriva con piccole spinte e, gradino dopo gradino, mi sospinge verso i suoi petali. Sono un insetto impollinatore e cerco il nettare della mia “Rosa”, quella soluzione acquosa e zuccherina per la quale, come Otello, farei follie amorose. La parte interna del calice, ingombra di ruvidi peli, è tappezzata da un disco giallastro. È un cercine discoide più o meno sporgente e dal suo contorno nascono petali e stami. La mia rosellina ha cinque petali bilobati e una sorprendente colorazione. La sua corolla è bianca al centro e un misto di fucsia-ciclamino all’esterno. Gli stami costituiscono una fitta boscaglia: sono numerosissimi, liberi, inseriti in parecchie file. È fantastico ripararsi dal sole e dai predatori nel sottobosco, rovistando in ogni angolo, immerso tra file più basse di stami, alla ricerca di nutrimento. Scopro infatti che gli stami, nel loro apparente disordine, sono formati da gruppi rigidamente didinami. Le antere infine sono arrotondate e presentano delle tacche alle due estremità. Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti. Sono dentro di te, cara rosa, e mi assale lo scrupolo di approfittare del frutto prelibato delle tue ghiandole al pensiero che in vita nel bisogno ti negai anche la mia presenza. La musica cambia cadenza e ritmo, 

non dà spazio a rimpianti, pretende esclusivamente un’indicibile letizia. E allora le mie labbra già sanno di dolce e tu, oh nonnina, sei il mio ristoro. La mia anima trova pace nel tuo calice. Il ritmo musicale accelera, la pozione magica entra in circolo, soffia vento di gioia e anch’io sono vento che si disperde tra i colori del cielo, che lambisce i fiori trasportandone gli odori, che fa prillare come una trottola la giostra dei sogni di bambino. Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti. Vento dal vento rapito sono tra le braccia di nonna che mi adagiano sul cavallo prediletto. Infilati i piedi nelle staffe, mi sbizzarrisco a tirare le redini per superare gli altri cavalieri in girotondo.  Cambia ancora il ritmo, ed è come essere presente al concerto di Capodanno che ha luogo ogni anno a Vienna. Sulla giostra galoppo ascoltando il pubblico battere il tempo con le mani all’esecuzione della “Marcia di Radetzky” scritta da Johann Strauss. È il mio trionfo. Cessa la musica e si spegne il tempo… 

 

III

E inizia la danza,  un saltello per rincorrere l’emozione di perderti nel vento e ritrovarti, la nostra chiave fatata apre la porta della melodia, musica dolce ci allieta. Il mio cuore trasparente come il cristallo ti ho donato e batte forte nel tuo petto. La musica cambia ritmo, l’armonia ci regala ali per volare, siamo angeli, solo acqua, roccia e ghiaccio, e noi due a distrarci giocando ad acchiapparello. Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti. Rivango inutilmente il passato, tiro fuori vecchie storie che intorbidano la fantasia di un giorno in cui ci si pasce d’ambrosia. Impetro da Dio misericordia e sono friabile abbaso di fronte ai tumulti dei sensi e all’incapacità cronica. La musica cambia cadenza e ritmo, non dà spazio a rimpianti, pretende esclusivamente un’indicibile letizia. Note lievi si mescolano a sorrisi appena pronunciati,  tacite intese si creano lungo binari d’argento,  e una melodiosa complicità avvolge e combina insperate e mai sondate possibilità. Il ritmo musicale accelera. Squarci di luce, pioggia di gemme, prati di lavanda, giochi di luce e colori diventano suoni graditi,  le forme perdono di contenuto  e il pensiero innamorato si trastulla in uno spazio pieno di sola gioia.  È l’esplosione nell’aprirsi di un fiore,  è la riconoscenza divina che allevia la sofferenza,  rilasciando politezza e rotondità ove prima erano scabrosità e angolosità. Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti, ci avvinghiamo intorno alle pieghe dell’amore. Cambia ancora il ritmo, 

ed è straordinario pulsare di emozioni. Cessa la musica e si spegne il tempo… 

IV

 

E inizia la danza,  un saltello per rincorrere l’emozione di perderti nel vento e ritrovarti, cerco rime che non so comporre, il mio cuore ho già donato. Come posso farmi ascoltare? Una preghiera rivolgo con ciò che resta della mia verità. La musica cambia ritmo, l’armonia ci regala ali per volare, e, dall’alto, i miei occhi si commuovono a contemplare un torrente scrosciante che dilava rocce e i fianchi vallivi delimitati da lamelle di luce crepitanti di vita. Il torrente è la mia lingua, le rocce sono i miei denti, i fianchi vallivi la mia bocca, e parole sincere la serie armonica naturale, scrosciante dalla mia laringe,  che si snoda,  come un nastro,  lungo sentieri di nostalgia, descrivendo lamelle di luce crepitanti di vita. Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti.  Ritengo che esser schiavo sia meglio d’esser mediocri e ignavi. «Questo misero modo/ tengon l’anime triste di coloro/  che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo.» «Fama di loro il mondo esser non lassa;/ misericordia e giustizia li sdegna:/ non ragioniam di lor, ma guarda e passa.» Il vestibolo dantesco dell’inferno [Inferno III, 34-36, 49-51].  La musica cambia cadenza e ritmo, non dà spazio a rimpianti, pretende esclusivamente un’indicibile letizia, e non è il caso di rattristarsi, perché solo gioia s’accende. Il ritmo musicale accelera, e la mia preghiera odo cantar nella musica delle sfere celesti da angeli in coro. Suscita le mie idee la sensibilità medievale di Agostino d’Ippona, Doctor Gratiae della Chiesa cattolica, che, nel “De Musica” e nelle “Confessioni”, scorgeva nel suono  la felicità, specchiata in un giro d’orizzonte, della primitiva armonia dell’anima. Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti. Nel mistero dello spirito sento battere il mio cuor stretto in un abbraccio  al petto di nonna.  Cambia ancora il ritmo. Una rosa d’argento riposa nella conca delle mie mani. Voglio regalargliela, sentire ancora una volta il fremito dei nostri corpi uniti lì dove gli uccelli, nelle alte sfere del ciel, 

girano in larghe volute. Cieche per un attimo le orbite dei miei occhi allo schiudersi mi regalano il sogno, perché ho tanto creduto. Ti sto toccando, cara nonna, siamo di nuovo insieme, le mie emozioni non trovano voce, ho seguito il mio cuor e il tuo canto perseverante, inconfondibile diapason, mi ha guidato errante. Stringimi tra le tue ali e rendimi bambino avrei voluto dirle, ma i trilli eccitati di pennuti sfreccianti in acrobatiche evoluzioni sommersero quelle parole che mai avrebbero potuto raffigurare l’innocenza e la pace  dipinte sui nostri volti e l’intesa degli sguardi. Nonna Rosa ascoltò il mio cuore e lesse nei miei occhi. Or nel suo animo pietoso e caritatevole  una rosa d’argento riposa lievemente sotto il manto della benevolenza. Cessa la musica e si spegne il tempo…

V 

 

E inizia la danza,  un saltello per rincorrere l’emozione di perderti nel vento e ritrovarti, un istante d’amore per raccontarsi tutto. La musica cambia ritmo, l’armonia ci regala ali per volare, e sprofondo negli occhi celesti di nonna. Si accende la lampada del mio corpo, guardo tutt’intorno attraverso iridi di cielo, e il mondo che appare è più bello del mio. Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti. Ripenso ai miei occhi e vedo la generosa donna alla quale opposi un reciso diniego.  La musica cambia cadenza e ritmo, non dà spazio a rimpianti, pretende esclusivamente un’indicibile letizia. Adesso desidero solo ascoltare le dolci parole di nonna, sentire battere il nostro comune cuore di cristallo, vedere tramite i suoi occhi di cielo. Il ritmo musicale accelera. È il momento di memorizzare il tempo e il ritmo dei suoni ameni, di raccogliere le intense emozioni e di appartarsi in una spelonca che s’addentra nel fianco di un monte sottostante. Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti. Nel buio dell’ampia e profonda caverna è il momento di ricreare nella mente la magia della vita, a partire da grossi goccioloni che grondano sui capelli da alcune stalattiti. Cambia ancora il ritmo, acqua e luce tra i greti di un torrente, galleggio nell’aria inseguendo colori e note musicali, sono gaudente con la mia cara nonna, e sono insetto nella corolla di una rosa glauca, ascolto musica angelica, sento i palpiti del cuore trasparente che ti ho donato, e scruto il mio mondo interiore con i tuoi occhi celesti, ancora gocce d’acqua intridono la mia capigliatura di vita nella spelonca del ricordo. Cessa la musica e si spegne il tempo… 

VI

 

E inizia la danza,  un saltello per rincorrere l’emozione di perderti nel vento e ritrovarti. Ho sempre fatto lunghissime nuotate in acque libere e non di rado mi sono dilettato a osservare piccoli banchi di pesci guizzanti sotto la mia linea di galleggiamento. Spesso mi sono intenerito solo a guardarli  e i miei chilometri di severo impegno sportivo diventavano interminabili ore di libertà e di amore universale. Nell’acqua del mare mi sento veramente a casa e medito sull’evoluzione della vita nel nostro pianeta. Penso davvero che essa proviene dall’equoreo seno. Non mi basta più la compagnia dei pesci durante i miei spostamenti in acqua, non mi basta più che mi trasmettano un colorato senso di libertà, e, con ardore, desidero vivere per un po’ trasformandomi in un pesciolino. Dalla fisica ritengo delle nozioni importanti: nell’acqua il suono si propaga solo per mezzo  di onde di pressione longitudinali e inoltre,  a causa del bassissimo coefficiente di comprimibilità dei liquidi, si propaga più velocemente che nell’aria. È una considerazione non trascurabile, dal momento che io e la mia cara nonna  siamo accomunati da un ideale percorso musicale. A fortiori se con disinvoltura diventiamo personaggi immaginati di mondi immaginari. Adesso ci apprestiamo a essere pesci e ci interessa capire come fare a comunicare e come continuare a nutrirci di musica. Certamente l’espressione «muto come un pesce» è un modo di dire destinato a passare di moda. Oggi, è risaputo che i pesci comunicano tra loro usando svariati tipi di suoni a seconda della funzione alla quale sono destinati, intimidatoria nei confronti dei nemici o suadente per attrarre i partner. Si parla frequentemente di canto delle balene e di fischi e crepitii emessi dai delfini. Si discute anche su pesci particolarmente chiacchieroni: i pesci rospo e i pesci cadetto. Sono abitanti dei fondali oceanici che producono grugniti, versi sordi e gutturali simili a quelli dei rospi, per spaventare nemici o scacciare intrusi dal proprio territorio ed emettono ronzii bassi, continuati e vagamente ipnotici, simili al rumore di un frigorifero, per attirare le femmine nella propria tana. Prima di calarmi insieme a nonna in questa nuova avventura d’amore, desidero fare altre brevi puntualizzazioni. È evidente che i vocalizzi dei pesci non possono competere con le serenate di usignoli e cardellini, ma la loro «voce» racchiude un valore scientifico molto più rilevante. 

La similarità delle aree cerebrali deputate a produrre suoni nei pesci e in uccelli, anfibi e primati dimostra che gli esseri viventi hanno sviluppato la capacità di comunicare attraverso suoni in un periodo che precede l’allontanamento tra loro nella scala evolutiva. La comunicazione sonora primordiale è nata quindi molto prima che nell’aria risuonasse il cinguettio degli uccelli, il gracidare delle rane e che l’uomo iniziasse a parlare. Potrò scrivere centinaia di pagine, potrò indagare i comportamenti di tante specie di pesci appartenenti a famiglie differenti e mai potrò possedere l’animo di un vero pesce. Non voglio guardare i pesci con gli occhi di un uomo e non voglio razionalizzare in modo innaturale e semplicistico.  Rispetto tutte le specie viventi e confesso che m’incuriosisce coglierne tanti aspetti, perché amo la bellezza e di essa amo scrivere. Mi limito però ad approfondire le tesi strumentali alle mie intenzioni narrative. Ed esclusivamente di voce e suoni ho commentato, poiché costituiscono il trait d’union del legame che sto rivisitando tra me e nonna Rosa. La nostra vita da pesciolini sarà un viaggio di fantasia, sarà una favola che con il suo insegnamento ancora una volta mi farà volare. La musica cambia ritmo, l’armonia ci regala ali per volare. Io e nonna siamo due pesciolini rossi. Sediamo, non lontani dalla foce di un fiume,  su una roccia tra gli scogli del fondale marino. Sono un po’ distratto da ciò che mi circonda: ecco una medusa che sfavilla dei colori dell’arcobaleno; più in là un’aragosta che si muove come una ruspa arrugginita; e poi una foresta di alghe che amo pettinare cresce da caramelle variopinte; laggiù la caverna di un vecchio polipo che sparisce in una nuvola d’inchiostro; i cavallucci marini così misteriosi che mi sembrano tirati da fili invisibili; e ancora un’anguilla così lunga che a volte si dimentica la coda e anemoni di mare che ondeggiano come palme al vento. La mia immaginazione era continuamente stimolata dalle solide conoscenze che la cara nonnina inculcava nel suo allievo preferito. Era il momento propizio perché mi raccontasse  una grande storia di amore e speranza volta a rendere migliore il mondo. Cominciò a declamare la favola scritta da Samad Behrangi intitolata “Il pesciolino nero”. Avevo letto quel titolo e aprendo il libriccino, posto insieme ad altri testi sopra due lastre sottili, utilizzate a guisa di mensole, sporgenti in un avvallamento della nostra piccola tana, ero stato attratto dalle stupefacenti illustrazioni di Farshid Mesqali, non badando al suo contenuto. Ricordo che era stato tradotto da Mario Casari ed edito da Donzelli nel 2008. Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti. È vero che gli animali nelle favole sono antropomorfizzati, ma in questo caso non riesco in alcun modo a spiegarmi lo sfacciato scambio culturale occorso tra uomini e pesci. Adesso pendo letteralmente dalle labbra di nonna e nella recita ne seguo i movimenti, soprattutto nel pronunciare la «s» di «soave» o di «suo» che esalta un’articolazione fonetica definita «procheilia». Dopo i preamboli, nonna entra decisamente nel cuore della favola. Eccone una mia interpretazione. “Il pesciolino nero incarna lo spirito del temerario. È stufo ormai di nuotare avanti e indietro nella sua piccola e sicura pozza, si lascia alle spalle la sua casa e i suoi amici e parte alla ricerca di nuove verità, oltrepassando le sue Colonne d’Ercole. Si muove lungo il suo ruscello per scoprirne il percorso. Il suo cammino verso l’ignoto somiglia, per certi versi, alle fatiche di Ercole. Verrà a singolar tenzone con creature di diversa dimensione, conoscerà prede e cacciatori e si sottoporrà a prove sempre più difficoltose, simboleggiando la contrapposizione tra le prove ordaliche, connesse al sincretismo tra superstizioni pagane e credenze religiose,  e l’efficacia progressiva delle legislazioni civili. Il suo desiderio di libertà scatena un’energia irrefrenabile. Ne subiranno le conseguenze anche un granchio borioso e un temutissimo pellicano. Giunge finalmente in mare aperto dove avrà luogo il suo ultimo combattimento. Sacrifica la sua vita trionfando contro un insidioso airone. Samad Behrangi era giovane,  aveva un bel viso e grandi baffi, indossava la papakha e portava occhiali da vista. Dai suoi occhi traspariva uno sguardo fiero, tipico delle persone leali baciate dal lume dell’intelletto, che gli conferiva un’aura magnetica. Samad Behrangi è nel novero dei più significativi scrittori iraniani contemporanei. Militante socialista si dedicò, tra il 1957 e il 1968, all’insegnamento nelle scuole elementari dei villaggi azeri. Accanto alle favole per bambini, fu autore di molti saggi di pedagogia e di numerosi studi sul folklore. Pubblicò inoltre svariati testi desunti dalla tradizione orale iraniana, ispirati in particolare ai temi della povertà e dell’ingiustizia sociale. “Il pesciolino nero”, l’ultimo e più celebre suo libro per bambini, era appena andato in stampa quando Samad Behrangi, il 31 agosto 1968, a soli ventotto anni, trovò la morte in circostanze misteriose nelle acque del fiume Aras. A rifletterci, perì in acqua proprio come il protagonista della sua favola più famosa. Nel 1968 in Iran imperversava la polizia segreta dell’ultimo Scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, e nel mondo occidentale i movimenti studenteschi contestavano l’ordine costituito in nome di una trasformazione radicale della società. Oggi, non c’è bambino in Iran che non conosca la storia del “Pesciolino nero”.  Di questi tempi, è sicuramente una notizia confortante, dal momento che la ratio del componimento suona come un invito, neanche tanto velato, alla libertà di pensiero e di azione, al rifiuto del conformismo, ai gesti eroici. Sono indubbiamente argomenti ostici per qualsiasi regime, semi fecondi di rivoluzione. Il pesciolino nero di Behrangi ha le idee chiare: non nuoterà per sempre nelle acque chete della sua pozza avvinto dal frusciare,  tra i greti, delle foglioline di tamerici dai rosei fiori; non si allineerà ai pareri degli altri pesci restando perennemente nell’ignoranza. La sua inclinazione all’indipendenza scombussola il quieto vivere della sua comunità e il branco reagisce apostrofandolo con un vasto campionario di accuse. Nonostante tutto, il nostro piccolo eroe non desiste dal proposito di voler crescere; ciò lo indurrà a maturare nuove esperienze e a interrogarsi di continuo sul loro significato. È uno spirito libero che ripone fiducia soltanto nei suoi occhi e nel suo cuore. Lo si può definire un pesciolino «filosofo» ma non «autarchico» che concepisce nitidamente  la portata collettiva delle sue azioni  e il valore esemplare del sacrificio.” La musica cambia cadenza e ritmo, non dà spazio a rimpianti, pretende esclusivamente un’indicibile letizia. Adesso potrò nuotare libero come un pesciolino nero. Mi auguro di far parte di un numeroso banco di pesciolini rossi che nuotano tutti assieme a formare il più grande pesce del mare. Un pesciolino nero sarà il suo occhio. Nuoteremo sia nel freddo del mattino che nel sole del mezzogiorno e uniti riusciremo a mettere in fuga i grandi pesci predatori. Questa intuizione finale è un omaggio a “Guizzino”, una favola relativa all’omonimo pesce scritta da Leo Lionni nel 1992. Del resto, la biologia marina ci chiarisce che i pesci traggono molti benefici dalla vita in banco: riescono a difendersi più facilmente dai predatori; hanno maggiore successo nella ricerca del cibo; sono agevolati nella ricerca di un partner sessuale; godono di percettibili vantaggi nel nuoto, migliorando l’efficienza idrodinamica. Per la vita in banco è necessario che i pesci comunichino, al fine di sviluppare movimenti perfettamente coordinati. Il ritmo musicale accelera. Cari lettori, ciò che vi ho proposto nasce dal piacevole conversare di due pesciolini rossi comodamente adagiati su una roccia in fondo al mare. Sono rispettivamente nonna e nipote. Dal loro affetto scaturisce, in un sogno rivelatore,  l’esigenza di spostare le coordinate mentali, di comprendere come i pesci possano comunicare, sopravvivere ai predatori, nutrirsi e riprodursi. Rallenta il ritmo, e i suoni diventano meno acuti. Questo intento mi ha permesso di intercettare  due favole,  “Il pesciolino nero” e “Guizzino”,  e due autori  di grande dignità umana. Cambia ancora il ritmo. Con “Il pesciolino nero”  Samad Behrangi ha raccontato se stesso. La sua breve vita è stata un fulgido esempio di come infondere l’amore e la speranza negli uomini. La mia preghiera, ovvero il fervente desiderio di accrescere e fortificare il legame spirituale con la cara nonna Rosa, mi riempie l’anima di beni incalcolabili e mi dispone a cogliere i «frutti dello Spirito Santo», come San Paolo definisce le virtù nella teologia cattolica. Accade così che un profondo sentimento di trasporto affettivo, inteso come ricerca di un tesoro spirituale, apre il cuore di ogni uomo, a prescindere dal suo credo, a ricevere le grazie più nobili. Accade così che ogni uomo diventa nunzio d’amore e speranza. Cessa la musica e si spegne il tempo…

VII 

 

E inizia la danza,  un saltello per rincorrere l’emozione di perderti nel vento e ritrovarti. Siamo una donna e un bambino, percorriamo una strada non asfaltata, mi tieni per mano, alzo il capo, stirandolo all’indietro, e sono felice di osservare il cielo e di pregare. Rifletto su ciò che avrebbe potuto essere se fossi stato diverso. Ho ritrovato la mia casa di una volta, in essa proietto la mia gioia rinnovata, memore delle preoccupazioni che ho riversato nei suoi spazi. Cerco ancora di espiare le mie colpe e sento che sono stato perdonato. Adesso sono in pace e l’amore eterno di nonna porto dentro. Cara nonna, oggi ho visitato il tuo tempio, vi ho disposto una rosa e non ho avuto lacrime da versare. Sei stata tu a volere con cuore felice che riscoprissi la gioia di quando, ancor bambino, ripetevo il “Padre nostro”, disteso su una sedia a sdraio nell’angolo di un cortile, scrutando, nel tepore di fine maggio, tra le nuvole del cielo, nel buio della luce, nella speranza innocente di vedere apparire Dio. Il passato mi accoglie raggiante di gioia, le mie preghiere hanno raggiunto l’infinità del divino amore. È solo felicità, amore e soavità. Le mie colpe sono state redente  perché ho tanto amato, nonostante gli innumerevoli errori commessi. Nonna mi stringe tra le sue braccia e continua a trapelare verità dalle mie labbra.

Foto che nell’ordine ritraggono:

– Nonna Rosa a soli sei anni, nel 1920, fra il fratello Nino e la sorella Santa

– I miei nonni materni Rosa Augello e Agostino Moschitta nel 1936. La cara nonna Rosa era da pochi mesi in attesa della sua prima figlia, mia zia Accursia.