Giravano pollini col vento intorno all’edificio, con le porte interne in cerchio sul corridoio, un’orbita e un centro occupato dalla sala convegni. Fu in quello spazio poco illuminato e vuoto che s’incontrarono la prima volta, dopo che lui l’aveva attesa giorno dopo giorno. In un alterno sentore d’irrealtà si affievolivano certezze, così le identità. Mentre la speranza era agli sgoccioli, Ermanna arrivò, fulcro di svelamenti, dalla voce congedata in distanze incolmabili. La quarta dimensione. Prima di entrare guardò le rondini circoscrivere l’aria in un gioco di linee chiuse, senza poter andare né tornare. Non le apparivano disorientate in quel cielo tondo, erano prese piuttosto da un’euforia di forme e spostavano i tigli in un piano secondario. Qualche garrito acuiva il suo stato d’animo, vivido come più non lo era da anni. Una sorpresa imminente doveva essere l’epilogo dell’ultimo raggio.

Per un attimo le venne in mente il fiume color bordeaux che l’aveva tenuta in ostaggio, mentre scorreva placido intorno alla sua pelle inerme, al suo sguardo imbambolato e vitreo. L’acqua aveva la sua stessa temperatura e si percepiva stranamente densa. Forse non si trattava di acqua, ma di un solvente per il corpo, di quelli che infine liberano l’anima dal gravame e la fanno evaporare nelle parti alte dell’atmosfera, lontano a perdersi in uno sciame di moscerini brillanti, per rasentare il sole.

Sei mesi prima aveva contattato uno psicologo, le sembrò subito la persona giusta, quella che l’avrebbe liberata dal panico opprimente che puntuale l’attanagliava nei vasti spazi intorno. Fuggiva disorientata da ogni storia che la portava a uscire. Per compensare una perdita la trasformava in mito, ne carezzava strascichi, conservava di essa le tracce. La casa era un museo d’amori soffocati. Viveva, mangiava, lavorava, sognava, il più possibile dentro.
I colloqui con il suo nuovo amico avvenivano via mail. Provava un senso di affezione via via più profondo e insieme una dipendenza come di un bambino verso l’oggetto transizionale che rappresenta un seno.  Dopo i primi lunghi scambi centrati sul suo grave disagio, cominciò una favola di curiosità e confidenze, attrazione e attese. Non si erano mai visti, neppure in foto, ma correva tra loro un fluido trascinante oltre la realtà materiale, e senza distaccarsene. Era naturale come la goccia che cade dal bicchiere, incomprensibile come la scintilla che dà fuoco a quella goccia.

Avevano deciso di incontrarsi, Ermanna e Livio, dopo il levitare di ore di silenzi, dall’insostenibile vuoto che rimbombava nelle loro dimore di vento, inventate per dirsi vola fino a me, senti com’è facile alzarsi.
Lui si immaginava un angelo gentile materializzato finalmente in uno sguardo, un corpo, un profumo, un capitolo da scrivere dal vivo. Lei era piena della esuberante fantasia di lui e degli enigmatici aha, quelli che prolungano gli intervalli, le risposte.
Erano vicini, bastava mezz’ora di autostrada per raggiungersi. Scelsero che sì, nell’inverno avrebbero annullato il gelo intorno, sorriso nella pioggia. Avrebbero pranzato nel piccolo borgo, con vista sulla valle degli echi, gridato insieme Siamo vivi! e riascoltato il grido cento volte.

Era tardi ormai e di lei nella piazza nemmeno un accenno, fosse stato anche a distanza. Chiuso nella delusione, Livio, dopo aver immaginato infinite circostanze contrarie, concluse che alla dolce compagna di lettere era mancato il coraggio di una leggera follia. Ancora una volta rifuggiva una storia, e ancor prima che iniziasse. Le scrisse per giorni, non ebbe risposte.

Ermanna quel mattino indossò un vestito leggero e sobrio – non amava gli eccessi e tantomeno voleva apparire frivola – ma si concesse un vezzo: le scarpe rosse di vernice, mai calzate prima, che davano un tocco di vivacità femminile. Eccitata e ansiosa di partire, scivolò per la scala che portava al parcheggio. Scivolò in un vortice di stelle nere. Non vide più nulla, dopo il rosso scintillio che l’avvolse, dai piedi in su.

Seguirono giorni e notti di un colore omogeneo. Un letto di silenzio, fuori dal mondo. Mesi di cui non ebbe cognizione. Era sola e al sicuro, nell’oscurità. Finché un lento fruscio arrivò a muovere il sogno rappreso. Aria viva. Una voce femminile le fu vicina, “Ce l’ha fatta, bravissima!”
Dov’era stata, in quell’istmo di memoria? Lampi divennero chiari, poi un volto senza voce e un aha senza volto. Era stato da lei, a guardarla dormire, ne era certa. Si era impresso nella mente come un fittone.

Ermanna arrivò dove lui lavorava e l’aspettava, nonostante l’assenza che diventava pietra.
“Sono appena uscita dall’utero. Caro amore, portami a vivere”.


Pubblicato in Racconti campani 2020 vol.2, Historica Edizioni.
Foto dell’autrice (dipinto su ceramica).