GIAGGIOLI DIVELTI, di Leonardo Migliore
Nei campi color lillà
un manto di giaggioli.
Fra le mie mani due fiori
scelti con la cura
di fedi nuziali gemelle.
Con faccia semiseria fissai
la mia amica sdraiata sul prato.
Rigogliosa, mi restituì sguardi svenevoli.
Lanciai una iris pallida su di lei.
Il vento le impresse una curva singolare,
un arcobaleno capovolto
in contrasto con ogni legge di gravità.
La spinse, dentro la gonna svasata,
fra le sue gambe.
Diventò colorita di timidezza,
un sorriso rapido e fiorito le zampillò dal labbro.
Il bel profilo di una sua guancia,
i petali di un papavero acceso nel sereno viola,
mi molse i sensi.
Capii, per la prima volta,
che il mio amore a lungo soffocato
era corrisposto.
Fra fili d’erba
nell’aria leggera e profumata
con delizia
la baciai sul collo e attorno alle labbra,
negli occhi vampe di gioia.
I corpi, raccolti in una voce tremula,
s’accesero di voluttà.
L’altro fiore,
un bocciolo di lapislazzuli,
si schiuse,
fra due candide lenzuola,
nella prigione di una cassapanca.
La sua corolla di velluto avvizzito
emanava
lungo un ponte argenteo adornato a festa
un delicato olezzo
che, nel tempo dell’amore,
inebriava il mio cuore.
Serravo gli occhi,
e tu, dolce fragranza,
penetravi,
come per incantesimo,
soffio di piuma,
nei chiostri più profondi della mia anima.
Era notte,
sprofondavamo nel calore della passione.
Di giorno e di notte affollavi i miei pensieri
e, sovente, mentre ti pensavo,
mi chiedevo se anche tu mi stessi pensando.
Oggi non sei più mia,
ami un altro uomo,
maledetta donna
che, col sorriso della primavera,
ti sei impadronita di tutto il mio essere.
Il tuo effluvio non m’abbandona,
impregna il zefiro
che blando spira sulle fronde e sui flutti.
Impreco e ti detesto
perché il destino ti ha messa sulla mia strada.
Il mio amore per te inonda il mondo intero,
vorrei ancora una volta
invadere le tue galassie
e raggiungere le tue stelle preferite,
le Pleiadi:
giganti blu e bianche oltre le nebulose
e applicazioni in oro nel Disco di Nebra.
Penso che nessun altro
possa riscaldare quanto me
ogni giorno della tua vita.
Se ti accostassi ancora una volta
alla porta del mio cuore
ti scioglieresti nella brace del mio sole
che t’ama da miliardi d’anni,
scopriresti che non sono finito
e che il tuo alito e ogni tuo istante
su questa terra non sarebbero vani.
Non riesco a dimenticare la felicità che mi hai regalato.
A te, che sei stata la mia diletta sposa,
bramo recare il fiore raggrinzito che un giorno conservai meticolosamente in un vecchio mobile.
Trafitta da quest’esilio involontario,
non so fin quando durerà la mia vita.
Temo di essere agli sgoccioli.
Ogni notte,
nell’ombra delle rupi lunari,
cerco un volto,
la forza primitiva della forma e della mente.
Pazzo di te
siedo fra i comignoli su tetti d’embrici nerastri,
coacervo di idee confuse e contraddittorie,
residuo di erosioni emotive.
Il tuo ritratto scorgo ovunque.
Ha le caratteristiche della pittura rilassata
e dell’eleganza delle opere di Antoon van Dyck.
Forse durerà fin quando gli occhi devastati della mia anima vedranno spegnersi il tuo volto.
Nella nostra assenza tutto tornerà come prima!
Ladro di occasioni,
ho stordito il dolore
e per l’ultimo saluto
t’attendo.
Due corpi accasciati l’uno sull’altro in un abbraccio sanguinolento,
una vittima e un omicida-suicida.
In una pozza d’acceso papavero
un giaggiolo mesto affonda,
rilasciando il lezzo della sepoltura.
La polla d’acqua che discolpa le anime si tinge di quel sangue che ne è la vita.
_ Iris pallida, dipinto di Gelena Pavlenko.