Emanuele Drago

Appare subito evidente nella nuova silloge del poeta Antonino Schiera dal titolo Meditare e Sentire una dicotomia tra due diverse tendenze che caratterizzano il suo modo di poetare. Da un lato una dimensione se così si può dire “descrittiva”, che predilige l’esteriorità e l’osservazione della natura, mentre dall’altro un poetare più propriamente verticale che tende a dar voce al proprio stato d’animo e al proprio vissuto esistenziale. Ora è proprio questa seconda dimensione, che molto spesso viene solo allusa, sfiorata e mai portata alle estreme conseguenze che lascia intravedere nella sua poetica di Schiera un mondo non ancora pienamente espresso ed esplorato. Insomma, il lettore ha la sensazione di trovarsi davanti alla punta dell’iceberg di una interiorità che solo improvvisi guizzi e lampi lirici lasciano intravedere. Dunque, come già detto, da un lato la poesia di Schiera, che non segue una vera e propria metrica ma dei versi liberi che prediligono tuttavia le anafore o ossimorici nonsense, è descrittiva e pone al centro la natura e l’analisi delle cose (il crepuscolo, la risacca del mare, la descrizione del lago e del profumo della zagara) mentre dall’altro si contraddistingue talvolta per l’uso di immagini sovrapposte che solo apparentemente sembrano vivere una vita propria, ma che in realtà trovano la propria ragion d’essere nell’animo e nell’intenzionalità del poeta. Dunque, a mio avviso, non è tanto il meditare che rende interessante l’evoluzione della sua poesia, ma per il sentire che dal meditare si genera. Mi spiego meglio: è come la poesia di Schiera acquisisse potere e forza lirica proprio quando cerca di superare la mera osservazione della natura; insomma, quando trasforma la natura in pretesto, in specchio, in palinsesto della propria anima; o ancora meglio, quel palcoscenico che egli finisce per piegare e curvare a quelle che sono le intime esigenze della propria interiorità. Ed è qui, a mio avviso, che la poetica di Schiera cerca di andare oltre, rifuggendo dal rischio sempiterno della banalità descrittiva. Si tratta di movimento verticale, o fintamente orizzontale (come accade ad esempio nella lirica Pale di fico d’India) nel quale quell’interiorità molto spesso sottaciuta riesce a manifestarsi in una plastica immagine della natura. Allora, più che nelle riflessioni moralistiche o moraleggianti la poesia di Schiera svela il suo carattere nascosto allorquando cerca di “scorticare” un angolo della propria interiorità, sebbene ancora con quell’eccessivo contegno di una sofferenza sottaciuta, o nascosta spesso in una soggettività impersonale (Il buio). In tal senso interessanti sono alcune espressioni che rivelano questa sofferenza sottaciuta e solo lambita (“intanto il vento insidia il mio tepore già disperso” Volto di donna; “Meglio che sparisca nelle nebbie della desolazione” Desolazione; “una giovinezza evaporata nei primordi/salgo sull’altare di un monastero nefasto” Vista sul mare; “pensoso trasudo poesie” Vestigia; o in quel mirabile inizio di In Riva al Lago “nuvola mi sento o forse ancora nuvola sono, inseguo una nuova alba, un nuovo tramonto e poi un’alba ancora pallida e un tramonto rosso”; “inebriato dall’ebbrezza dei fumi del vino redento dai peccati / dono a te mio simile umanoide quanto ho da regalare perché totalmente mio” Identità). Ed è in queste espressioni, in queste impennate, in questa inaspettata verticalità terminologica che il poeta a mio avviso lascia intravedere ciò che potrebbe ricavare dal pozzo della propria angoscia. Perché è quando cerca di “complicarsi” in questa disperata lotta con la propria parte più intima che la poesia di Schiera rivela una espressività terminologica che appare potenzialmente ancora fruttuosa.

Emanuele Drago