Covid-19, si fa presto a dire vaccino (di G. Forni, A. Mantovani)

Essenziale sapere se i guariti siano protetti e per quanto tempo, da cosa dipenda la protezione. Serve tempo per garantire massima sicurezza. Ricordando che la storia contro i virus è fatta di grandi successi, ma anche di clamorose sconfitte.

ASSOCIATED PRESS

(A cura del prof. Guido Forni, socio linceo; e del prof. Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Istituto clinico Humanitas e professore emerito di Humanitas University, socio linceo)

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Il 14 maggio 1796 Edward Jenner ha vaccinato James Phipps, un bambino di otto anni, contro il virus del vaiolo. Il 17 marzo 2020 Michael Witteha somministrato ai volontari il primo vaccino contro il virus Sars-CoV-2 preparato da Moderna, una ditta di biotecnologie di Cambridge, Massachussetts. Considerando l’arco ideale costituito dai 224 anni che passano dal vaccino contro il vaiolo al vaccino a Rna contro la Covid-19, enorme e fantastico appare lo sforzo fatto dall’intelligenza umana per capire i complessi meccanismi delle reazioni immunitarie. Moltissimo, ma non tutto è stato chiarito.

Jenner era un acuto medico sperimentatore che, dopo essersi formato a Londra, lavorava nella campagna del Gloucestershire. Non poteva sapere nulla del sistema immunitario, ma aveva ragionato sul fatto, comunemente conosciuto nelle campagne inglesi, che durante le terribili e ricorrenti epidemie di vaiolo, le persone addette alla mungitura molto spesso non venivano colpite dal vaiolo. Le milkmaids (le mungitrici) erano ragazze celebrate per la loro bellezza, perché non avevano le sfiguranti cicatrici che lasciava il vaiolo. Spesso le mani e gli avambracci di chi mungeva presentavano le pustole del vaiolo bovino, malattia non grave che a quel tempo non raramente si manifestava sulle mammelle delle mucche. Le pustole guarivano spontaneamente e rendevano le persone immuni verso il vaiolo. Jenner scoprì che l’inoculo sulla pelle scarificata del contenuto delle pustole del vaiolo delle mucche proteggeva le persone contro il vaiolo.

Da questa osservazione empirica nasce la vaccinazione, una biotecnologia medica di basso costo e di straordinaria importanza. Insieme alle misure di risanamento ambientale, i vaccini sono l’intervento che risulta maggiormente efficace nel ridurre il carico di morte portato nel mondo dalle malattie infettive. L’enfasi e le speranze che i media e la gente comune stanno ponendo sull’avere al più presto un vaccino che protegga contro la Covid-19 nascono dai trionfi grandiosi che i vaccini hanno avuto e stanno avendo. Grazie al vaccino, il vaiolo non esiste più sulla faccia della terra. Grazie al vaccino, due dei tre tipi del virus della poliomielite sono stati eradicati. I vaccini contro il tetano, la difterite, la pertosse, il morbillo, l’epatite, lo pneumococco, il papilloma, la varicella ed i rotavirus… sono altri grandi, importanti trionfi. Questi vaccini non solo proteggono bene contro la malattia verso cui sono diretti, ma anche, evitando l’infiammazione connessa alla guarigione dalla malattia, portano ad una vecchiaia più sana. Il fatto che oggi un cucciolo di Homo Sapiens su cinque non possa avere accesso ai vaccini di cui ha bisogno è un’iniqua ingiustizia sociale.

Non sempre, però, i vaccini proteggono bene. Abbiamo ancora una lunga serie di gravi malattie infettive verso cui i vaccini sono solo parzialmente efficaci. La tubercolosi, che ancora adesso uccide nel mondo quattromila persone al giorno, ne è un primo clamoroso esempio. ll vaccino Bacillo di Calmette e Guérin (Bcg) non difende bene contro la tubercolosi polmonare. Nel mondo, la malaria uccide poco meno di tremila persone al giorno. Nonostante i numerosi studi e gli imponenti investimenti, attualmente contro la malaria abbiamo solo un vaccino parzialmente efficace. Anche contro l’influenza, malattia che ogni anno colpisce dai tre ai cinque milioni di persone, abbiamo ancora a disposizione soltanto vaccini che sono parzialmente efficaci e che devono essere messi a punto ogni anno. Abbiamo poi una serie di clamorose sconfitte: nonostante la grande quantità di denari destinati e i numerosi laboratori coinvolti – tra cui in prima fila quelli del nostro Istituto Superiore di Sanità – non abbiamo un vaccino contro l’Hiv, malattia che, nel mondo, continua ad uccidere oltre a quattromila persone ogni giorno. E non abbiamo neanche un vaccino contro il raffreddore, indisposizione che spesso, in inverno, è causata proprio da coronavirus. Per non parlare di molte malattie parassitarie che, in maniera disastrosa, affliggono i paesi più poveri.

Ogni malattia costituisce un problema immunologico a sé: anche oggi, con tutti i dati che abbiamo a disposizione, è difficile prevedere se e quale vaccino possa essere realmente efficace. Questa difficoltà si accentua nel caso della Covid-19, malattia ancora giovane sulla quale gli studi – attivati in laboratori di tutto il mondo – portano di giorno in giorno a conoscenze nuove e più precise. Per quanto riguarda la vaccinazione, è essenziale sapere se i pazienti che sono guariti sono protetti verso un secondo contagio e sapere per quanto tempo persiste questa protezione. Fondamentale, poi, è stabilire se la protezione immunitaria contro la Covid-19 dipende principalmente dagli anticorpi anti virus o dalla reazione dei linfociti T killer. Infatti, in gran parte, la protezione immunitaria verso le infezioni dei virus dipende dagli anticorpi in circolo nel sangue e nei fluidi biologici che si legano alle particelle virali e ne neutralizzano la capacità di penetrare dentro alle cellule. I linfociti T killer, invece, scovano e uccidono le cellule dell’organismo che, infettate dal virus, si stanno trasformando in fabbriche di milioni di nuove particelle virali. In molti casi la guarigione è il risultato dell’azione combinata degli anticorpi e dei linfociti killer. Ma non è sempre così. Esistono malattie virali la cui guarigione dipende principalmente, se non esclusivamente dalla risposta anticorpale ed altre in cui invece è fondamentale l’azione distruttiva del linfociti killer.

Qual è il caso della Covid-19? Riusciranno i nuovi vaccini ad indurre una protezione che sia in grado di controllare l’intrinseca capacità di mutare propria dei virus a Rna, quali sono i coronavirus?

Nel gennaio del 2017 durante il World Economy Forum a Davos è stata costituita la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi), un’organizzazione internazionale per favorire lo sviluppo e lo stoccaggio di vaccini contro quei microbi che potrebbero causare nuove spaventose epidemie: una quantità notevole di fondi è stata versata dalla Bill & Melinda Gates Foundation, dal Wellcome Trust e dai governi di numerosi Paesi. Le principali multinazionali del farmaco hanno annunciato la loro collaborazione. Ed è stata proprio la Cepi che, insieme a numerose altre iniziative private e pubbliche, già durante le primissime fasi dell’epidemia ha attivato e coordinato numerosi e diversi programmi per la preparazione di vaccini contro la Covid-19, seguendo concetti e strategie tecnologiche molto diverse. Questa diversificazione è apparsa essenziale proprio perché, per molte malattie, ma principalmente nel caso di una malattia così nuova come la Covid-19, è difficile prevedere quale tipo di risposta immunitaria e quindi di vaccino potrà essere più efficace.

I vaccini a Rna, come quello anti Covid-19 messo a punto dalla ditta Moderna negli Usa, sono stati sviluppati proprio per poter essere prodotti in brevissimo tempo. L’Rna è responsabile della produzione delle proteine. Facendo arrivare dentro alle cellule dell’organismo l’Rna specifico per una particolare proteina, veicolato da particelle simili a virus (i virosomi) o dentro piccole particelle lipidiche (i liposomi) o legato a nanoparticelle, si ottiene la rapida produzione della proteina verso cui si vuole vaccinare. Riusciranno i vaccini a Rna a indurre una risposta protettiva contro la Covid-19? Lo speriamo, lo speriamo davvero, ma nel frattempo altre ditte, tra cui in prima linea la Takis Biotech, di Castel Romano, stanno sperimentando, per ora ancora su modelli animali, vaccini a Dna, anche questi costruiti sulla base della sequenza dell’Rna del virus Sars-CoV-2 resa pubblica dai colleghi cinesi. Anche i vaccini a Dna si basano sulla possibilità di far produrre direttamente alle cellule dell’individuo da immunizzare le proteine contro i quali si vuol indurre una risposta immunitaria facendo arrivare dentro alle cellule l’anellino di Dna che codifica la proteina di interesse. Sappiamo che la vaccinazione a Dna induce la produzione di anticorpi, ma può favorire anche lo sviluppo dei linfociti T killer.

Oltre a questi vaccini innovativi di più rapida messa a punto, altri laboratori stanno preparando vaccini anti Covid-19, utilizzando la tecnica della “Reverse vaccinology” messa a punto da Rino Rappuoli, Gsk di Siena. Sempre partendo dalla sequenza dell’Rna vengono individuate le proteine della superficie del virus Sars-CoV-2 verso cui si vuole indurre la risposta immunitaria. Frammenti cruciali di queste proteine, prodotte in laboratorio con la tecnologia del Dna ricombinate, associate ai nuovi adiuvanti di origine sintetica potrebbero indurre risposte protettive particolarmente efficaci negli anziani, popolazione per cui la vaccinazione potrebbe essere più importante. Altri laboratori, invece, seguono strategie più tradizionali, che inesorabilmente richiedono molto più tempo per essere messe a punto.

La somministrazione del nuovo vaccino su un numero ristretto di volontari, come sta avvenendo col vaccino anti Covid-19 messo a punto da Moderna, permette di capire se il vaccino induce una buona risposta anticorpale e/o una risposta dei linfociti T killer e se la sua somministrazione sia associata a evidenti eventi contrari. Successivamente, la vera valutazione dell’efficacia del nuovo vaccino sarà basata su studi randomizzati controllati che confronteranno l’incidenza della Covid-19 in gruppi di persone vaccinate e non vaccinate. Solo l’estensione di questa valutazione a gruppi sempre più grandi e per tempi sempre più prolungati potrà indicare se uno, tutti o nessuno dei nuovi vaccini anti Covid-19 protegge efficacemente o solo marginalmente e se la sua somministrazione è associata o meno ad importanti eventi collaterali.

Queste valutazioni richiedono molto tempo (anni). E’ probabile che di fronte all’enorme pressione costituita dalla pandemia di Covid-19 si ricorra inizialmente all’uso di marcatori surrogati, quali ad esempio la valutazione della quantità di anticorpi o l’intensità della reazione dei linfociti T killer indotta dal vaccino sui volontari per decidere se, inizialmente, il nuovo vaccino possa ragionevolmente essere utilizzato per la vaccinazione. Comunque, la somministrazione del nuovo vaccino dovrà sempre essere attentamente associata allo studio della sua pericolosità. Trattandosi non di un farmaco per chi è ammalato e rischia di morire, ma di un trattamento somministrato a chi sta bene per prevenire il rischio di ammalarsi, la valutazione della non pericolosità del vaccino assume un’importanza particolare. La corsa verso un vaccino anti Covid-19 non solo è giustificata ma è assolutamente necessaria. Si deve però dedicare tutto il tempo necessario per un’attenta valutazione della pericolosità e dei rischi che possono nascere da un nuovo vaccino. Vi sono casi di vaccini preparati contro altri coronavirus, o contro altri virus, che hanno accentuato la pericolosità della malattia, rischio questo che, nonostante la fretta, deve venire ben valutato ed escluso prima che i nuovi vaccini anti Covid-19 vengano utilizzati per contrastare la pandemia o sue successive ricomparse.

I problemi successivi saranno legati alla produzione e distribuzione di milioni di dosi del nuovo vaccino, e sarà necessario affrontare complessi problemi tecnologici, organizzativi, regolatori ed economici. Da qui nascono le indicazioni che i vaccini anti Covid-19, se efficaci, molto difficilmente potranno essere comunemente disponibili prima di un anno, se non di più. Questo lungo intervallo suscita un altro problema di cruciale importanza: e se tra uno o due anni i nuovi vaccini anti Covid-19 non interessassero più o interessassero solo più una limitata popolazione in una particolare area del mondo? Oggi non si può prevedere quale sarà l’evoluzione della Covid-19, se la pandemia si esaurirà, se l’epidemia continuerà a colpire massicciamente, se serpeggerà soltanto in alcune aree del mondo o se, periodicamente, darà origine a nuove epidemie.

E’ interessante notare che un vecchio vaccino, il Bcg (Bacille Calmette Guerin), vaccino messo a punto più di cento anni fa, oltre a proteggere verso alcune forme di tubercolosi stimola genericamente la reattività immunitaria. Circolano dati, non ancora convalidati da serie valutazioni epidemiologiche, che vi sia una minor incidenza di casi di Covid-19 tra gli immigrati che arrivano da nazioni dove la vaccinazione anti tubercolare ed i suoi richiami sono obbligatori. In varie nazioni stanno partendo studi clinici controllati per valutare se davvero, in maniera non specifica, il vecchio vaccino Bcg possa aumentare la protezione iniziale verso il contagio della Covid-19.

L’insieme di queste considerazioni mette in evidenza che l’avventura intellettuale, tecnologia ed economica dello sviluppo di un nuovo vaccino è un’avventura legata a molte incertezze, come comunemente avviene nella ricerca scientifica. L’evidenza della necessità di conoscere di più e di avere tecnologie migliori si scontra con la superficiale arroganza che, spesso, fa presumere che la scienza conosca tutto e troppo. Qualunque sarà il futuro dei vaccini anti Covid-19, la lezione che i Paesi del mondo devono imparare è che la ricerca scientifica è un’attività complessa, preziosa e fragile, uno dei punti estremi del sapere umano che ogni Paese deve imparare a rispettare e proteggere.