Noi e il virus (racconto breve) Un covid che non passa mai di moda, di Margherita Bonfrate

Prima di parlare del virus crudele covid 19, assassino e dominatore, capace d’imporre  nuove regole di convivenza a noi abituati alla libertà, come l’imposizione a isolarsi, e a restare nelle proprie case, lontani dagli affetti di amici e parenti, che poco tempo fa caratterizzavano la nostra vita, mi viene spontaneo riflettere sui cicli storici e sul fatto che la natura ci presenta il conto: un modo per dire che forse abbiamo esagerato a pretendere dal nostro pianeta più di quello che ci spetta. Sono sola, e sento la necessità di descrivere la mia vita prima dell’epidemia quando si era felici nella quotidianità. Il tempo ha fatto nevicare sui miei capelli ormai bianchi e ha anche modificato la mia fisicità in modo direttamente proporzionale all’età. Tuttavia, non mi lamento, sono contenta di essere circondata dai miei nipoti: bambini sensibili alle mie parole, spesso improvvisate per catturare la loro attenzione; conseguenza inevitabile, dietro il loro desiderio di ascoltare le favole. Per Sabrina, una bimba silenziosa, attenta a non perdere nulla, la mia voce è sempre stata un invito al sonno; mentre Ale e Greta, a sentirmi parlare, si mostrano curiosi e mi fissano con la bocca aperta per poi richiuderla dopo il mio invito e, a poco a poco, dolcemente, si lasciano abbracciare dal sonno.  A guardarli, un’emozione mi assale, e resto inerme davanti a quell’immagine unica e irripetibile perché ogni attimo non è mai uguale al primo. Bellissime creature, fiere del loro gioco; sono capaci di farmi divertire; e mi piace soffermarmi a scoprire in ognuno di loro qualcosa di mio. In particolar modo, questo mi succede con Greta, la più piccola. Ammetto che con lei ritorno indietro negli anni, a quando correvo nei vicoli adiacenti alla mia casa… Al passaggio di una carrozza scattavo ansimante per raggiungerla e mettermi seduta dietro; mentre gli altri ragazzini dispettosi facevano la spia: a voce alta allertavano il cocchiere di portare un passeggero abusivo seduto dietro al carro.  Episodi di vita passata che ora non c’è più.    

   Attualmente, un nemico ci costringere a vivere un periodo oscuro, sconosciuto, pericoloso, invidioso della famiglia e di tutte le forme di associazione. Lui, il virus, è un solitario, ma pronto a colpire chi si distrae dai regolamenti di prevenzione. La sua passione è la distruzione, a causa del suo elevato contagio, delle persone colpite. Tutto il mondo, bastonato, cerca affannosamente rimedi e soluzioni a quest’epidemia che non ferma la sua evoluzione e non conosce confini. La conseguenza: chiusi centri estetici, sociali, culturali, sportivi, alcune industrie; sospesi voli e viaggi per ragioni di lavoro e quelli a scopo turistico, fabbriche di ogni genere, fatta eccezione solo per i negozi di alimentari; siamo stati allontanati da tutto e “invitati” a restare a casa. Noi, osservando i decreti e le disposizione del governo, obbediamo per il bene di tutti. Nondimeno, questa solitudine forzata ci porta a riflettere quanto l’affetto dei figli e dei nipoti e di tutto il mondo circostante, ora più che mai, sia a rischio. Le tecnologie e i collegamenti telematici sono balzati in prima linea. A causa della situazione grave: emergenza epidemia, ci “costringono” alle video chiamate. I bambini, continuano a non capire questa restrizione della libertà, questa necessità di stare a casa; increduli, si limitano al telefono: «Nonna, quel cretino del coronavirus non vuole andare via, Ale e Greta non possono venire a casa tua!» «Rispondo: «Quel virus prima o poi andrà via!» 

   Da quest’ultima affermazione è passato un mese e mezzo; i giorni sempre uguali ci portano a riflettere su cosa abbiamo sbagliato per arrivare a questo punto così tragico. Forse, il pianeta terra con la sua bellezza si è risentito del nostro poco rispetto verso l’ambiente? Un’offesa contro la madre terra che viene ora considerata “matrigna”. Un risultato finale inaspettato, pieno di insidie, ci obbliga a rispettare le misure di sicurezza, se non vogliamo, dicono, raggiungere chi non c’è più. L’ansia e la paura per questo virus sconosciuto, privo di scrupoli che può colpire le persone care non mi fa stare tranquilla, un disagio, un senso di sconforto in questo silenzio m’invita sovente a meditare quanto l’affetto sia importante per la sopravvivenza della nostra stessa vita. Come si fa a far finta di niente nel sentire notizie sul numero dei morti e di persone portate via agli stessi familiari, magari non avvisati tempestivamente della fine dei loro cari? Siamo in guerra, il nemico avanza in prima linea per colpire alla cieca chi colpa non ha. Il corona virus entra nelle case per essere vincitore, complice anche la paura che si è impadronita di noi. Sembra un incubo! Questa non è la vita di prima, quando, allegri si usciva per incontrarci al lavoro, nei viaggi, per ritrovarci a un matrimonio e perché no anche a un funerale. Invece, ora, al povero defunto tocca un funerale senza nessuno che lo accompagni per l’ultimo saluto su questa terra. 

   La sofferenza causata dall’essere limitati nei movimenti e dal divieto di incontrarsi fisicamente opprime lo stato d’animo affannato alla ricerca di segnali sospesi fra cielo e terra. All’orizzonte s’intravede un arcobaleno che fatica a delinearsi, cattivo presagio di cambiamento di relazioni e di nuove convivenze con un virus resistente che attacca le nostre difese immunitarie e continua a rendere la vita difficile, decisamente più di prima.

   In questi giorni di solitudine, la lontananza da tutti m’invita a ricordi cari, di quando fanciulla vissi un periodo simile a questo: un’urgenza, mi costrinse a distaccarmi da tutti gli affetti e a raggiungere un luogo di soggiorno per motivi di salute.  L’affiorare di immagini e di episodi relativi a quei momenti, mi porta a mettere in luce e a risentire dentro di me affetti mai sepolti. Sono passati tanti anni da quel ricordo mai davvero dimenticato.

   Una rimembranza, sbiadita come una foglia ingiallita, m’invita a mettere a fuoco, a rinverdire, le immagini di una bimba, conosciuta tanti anni fa… 

   Tutto iniziò una mattina di maggio degli anni 50, ero seduta sotto il porticato di una lunga veranda, preposto al relax, intenta a leggere un fotoromanzo, e la mia lettura fu interrotta dalla vocina di una bimba che rispondeva a una signora di umile aspetto. Mano nella mano in compagnia di una valigia di cartone pesante, la donna si affrettò a suonare il campanello. A cancello aperto, le due figure avanzarono con passo incerto verso l’accettazione della clinica. Strada facendo la bimba, triste, girò lo sguardo per fissarmi, e io la ricambiai con un sorriso. 

   Il mio ingresso in quella struttura accadde d’urgenza. Era una casa di cura climatica situata in altura con aria salutare considerata ossigeno necessario per le persone malate, infettivi polmonari, che col tempo si riprendevano; grazie a una specifica cura c’erano stati pochi decessi e tante guarigioni. Per questa ragione, fui costretta a lasciare mio marito e mia figlia per raggiungere quel luogo dove altra gente era nelle mie stesse condizioni. Uomini e donne di ogni età curati con la terapia della streptomicina. 

   Dal mio ingresso nella struttura al giorno in cui arrivò la bambina, erano già passati sei mesi durante i quali avevo dovuto mantenere le distanze dagli affetti e sofferto la solitudine. Tuttavia, quello stato d’animo cominciò pian piano ad alleggerirsi grazie alla presenza della piccola che mi invitava a osservarla. Lei se ne stava in disparte senza dare retta a nessuno, ma ugualmente mi suscitava tenerezza. Un pomeriggio presi il coraggio di avvicinarla: «Ciao, sono Lucia», le chiesi. «Tu come ti chiami?» «Camilla» rispose lei senza abbassare lo sguardo. Continuai: «Sei una bella piccina, bella come il tuo nome. Quanti anni hai?»  Lei mostrò la manina aperta esibendomi tutte le dita. Risposi: «Anch’io ho una figlia della tua stessa età; lei è a casa e sta bene.»  

   Più volte la invitai a fare amicizia con gli altri bambini ospiti, della casa di cura, ma senza risultato. I suoi occhi non finivano mai di cercarmi per chiedermi abbracci e coccole. Camilla con la sua presenza fu capace di farmi pensare meno a chi avevo lasciato, grazie alla sua energia mi tenne impegnata a sorvegliarla. Irrequieta, sfuggiva sempre da chi la chiamava. Le sue origini umili avevano marcato il suo carattere ribelle che si manifestava nel dire sempre no a tutti. Difficile dimenticare la prima volta che scappò dall’infermeria per venire a nascondersi nel porticato sotto una sedia a sdraio nelle mie vicinanze, mentre con l’indice sulla bocca m’invitava a stare zitta; rifiutava di farsi fare l’iniezione. La suora infermiera, dopo alcuni tentativi per ricondurla a lei chiamandola, si arrese e, facendomi segno con l’occhiolino, mi fece capire che dovevo portare la bimba nel suo ambulatorio. Rimaste sole, dissi a Camilla sottovoce che per il suo bene non poteva rifiutarsi di fare la puntura, anche perché dopo ogni iniezione la suora le avrebbe regalato una stecca piccola di cioccolato Zaini al latte. La bambina, a sentir parlare di cioccolata, si acquietò: «Voglio portarla a casa!» esclamò con aria di sicurezza. «Benissimo! Questo significa che ne potrai conservare tante perché dopo ogni puntura avrai una cioccolata» le risposi.

   Un cenno della testa per dirmi che accettava la puntura. Un consenso da parte sua, ma con la pretesa che io fossi lì presente, in sua compagnia, a ogni singola terapia. 

   Camilla aveva gli occhi bagnati di lacrime, e in quel momento la strinsi al cuore con infinito affetto. Una bimba testarda, orgogliosa, ma temeraria, che non aveva paura dell’ignoto; correva e saliva sugli alberi con disinvoltura, per sfuggire al suo compagno di giochi, invisibile. A volte, senza successo, la invitavo a scendere da quel tronco dicendole che poteva essere pericoloso. Naturalmente, a parte questi episodi di ribellione, la nostra relazione era basata sulla complicità e sull’attrazione reciproca: lei cercava in me sua madre, io in lei mia figlia. La lontananza da casa ci aveva unite per sopperire alla mancanza degli affetti lasciati fuori dalle nostre vite. Eravamo state strappate come un pianta dalle proprie radici, e senza ragionarci sopra Camilla e io costruimmo un nuovo legame, grazie all’affetto che giorno dopo giorno ci guidava alla convivenza sociale sebbene limitata per ragioni di salute. La bambina, dopo due anni di internato, si stabilì in salute perfettamente con adattamento positivo al sociale; la sua determinazione richiamava l’attenzione di altri bambini anch’essi ospiti della struttura. Il suo passatempo preferito era comandare sul resto del gruppo con successo, assegnando a ogni bimbo dei compiti da svolgere, lei giocava per il gruppo e nel gruppo, e nessuno o quasi contestava quello che lei diceva. Durante i due anni di isolamento sanitario, nessuno venne a trovare Camilla; di tanto in tanto arrivava uno scritto incomprensibile che la salutava; la suora mi consegnava la lettera invitandomi a leggerla e magari a inventarmi baci e abbracci. La piccola era sempre attenta durante la mia lettura della posta a lei indirizzata, tuttavia, con il passare del tempo, la disattenzione e l’indifferenza per le notizie provenienti dai suoi cari s’impadronì di lei; di conseguenza per me fu difficile riuscire a “catturarla”. Feci di tutto per farla stare bene e non farla sentire abbandonata, perché questo era quello che pensava: di essere stata abbandonata, Come Dio volle, un giorno la direzione ci comunicò di aver avvisato le rispettive famiglie delle nostre dimissioni. Eravamo guarite e pronte a ritornare alle nostre case. Contente ci abbracciammo strette fino a sentire il nostro cuore pulsare all’unisono. 

   Alcuni giorni prima della partenza la bambina si mostrò nuovamente triste e spesso mi ripeteva: «Lucia, io non voglio lasciarti!» La tenerezza e il pianto in gola mi impedivano di risponderle subito; prendevo tempo e coraggio per rassicurarla che mai nessuno ci avrebbe divise e che lei sarebbe stata sempre la mia bambina. Una mattina arrivò la sua mamma, in compagnia di un’altra bimba di circa quattro anni, per portarsi via Camilla da quel posto, da quelle mura che l’avevano sentita piangere e invocare sempre un nome: «Mamma!». Dopo una mezz’ora dal loro ingresso erano fuori, pronte a salutare per avviarsi all’uscita; Camilla presentava a tutti i presenti la sua mamma e la sorellina Laura; all’improvviso lasciò la mano dei suoi cari per venirmi a cercare in veranda; La sentivo gridare il mio nome e piangere come una disperata ripetendo ad alta voce che non voleva lasciarmi, e con un ultimo slancio, saltandomi addosso, mi abbracciò forte. La riportai, alla mamma che aveva seguito la scena commossa: «Grazie per tutto», mi disse.

   Da quel giorno non ho più rivisto la mia Camilla. Gli anni successivi sono stati pieni di eventi importanti per la mia famiglia che aumentò con l’arrivo di un figlio maschio. Una volta cresciuti, i figli mi hanno resa nonna di quattro nipoti: l’ultimo, con il nome di Samuele, è un bellissimo bambino biondo. 

   In questo periodo, tutti i ricordi affiorano per evidenziare una storia che si ripete; cambia il nome, ma è sempre un’epidemia. Fin dalle origini del mondo, antichissime malattie infettive come la lebbra e la peste nera dominarono la scena per secoli e secoli; nel Medioevo, i primi lazzaretti diedero asilo ai contagiati; la tisi risultò vittoriosa per tanto tempo, per tanti secoli; anche il colera si affacciò per affermarsi in tutte le sue sfumature… 

   Ora, abbiamo un virus sparso in tutto il mondo. Certo, fa paura a tutti, nessuno escluso. Mi fa pensare ad Attila re degli unni: al suo passaggio non cresceva neanche l’erba! Un virus capace di farci rimanere in qualche modo sospesi, beffandosi della nostra paura, della nostra incredulità verso il nuovo visitatore scortese e restio nell’andare via; perché lui si dichiara cittadino del mondo. Gli scienziati hanno affermato che la sua struttura ha un solo acido nucleico che possiede la capacità di moltiplicarsi a suo piacere nutrendosi della cellula umana. I cicli storici si ripetono come sosteneva G. Vico. Ora stiamo vivendo una vita che non ci appartiene. Tuttavia, non significa che in passato questo drammatico disagio non abbia portato, malattie, povertà, ignoranza, pestilenze, esattamente le stesse difficoltà che stiamo riscontrando ai nostri giorni. L’auspicio migliore è augurarci che questa quarantena ci serva di lezione, per alzare la testa e riprenderci la vita, la nostra vita che tanto ci è cara.

Note biografiche

Margherita Bonfrate è nata a Taranto nel 1950 e qui risiede

Ha svolto l’attività di dipendente del Ministero della Giustizia,

attualmente in pensione. Coniugata con due figli e nonna di quattro nipoti.

NEL FEBBRAIO 2019 PUBBLICAZIONE DEL SUO PRIMO ROMANZO “ E R M I “

EDITO ALBATROS

Scrive copioni teatrali con consensi.

Nel Gennaio 2020 Premio Letterario

“La ginestra di Firenze classificandosi al terzo posto. TESTO TEATRALE “ LA FINZIONE “

Premio letterario Casentino al secondo posto con il testo teatrale inedito “La Finzione”

Settembre 2020.

Selezionata per opera inedita al Concorso letterario “Europa in Versi” 2018

“Nei Sogni Azzurri “ libro di poesia editore Gabrieli 1975

Si trova nella Biblioteca Civica del Comune di Biella

RACCONTI BREV E POESIE I INSERITI IN ANTOLOGIE.

Secondo Romanzo narrativa colorata di giallo “ Le Donne del Prof “ edito da Helicon

Settembre 2020.