Federica Sanguigni: Comprendere si deve, giudicare no

Mia madre non riusciva proprio a capire perché avessi deciso così, all’improvviso, di non seguire più le lezioni di matematica del professore al terzo piano. Continuava a ripetermi che ci stava facendo un grande piacere, il professore, ovviamente, a darmi quelle lezioni senza pretendere nulla in cambio. 

“Senza pretendere nulla in cambio, lo capisci cosa vuol dire?” Io la guardavo e avrei voluto risponderle che… Ma non dicevo nulla. Abbassavo gli occhi continuando a insistere che dal professore al terzo piano non volevo più andarci. Che mi rimandassero a settembre, non mi importava. Lei scuoteva la testa e abbandonava la mia camera continuando a borbottare cose come “ingrata, stupida, testa dura”. Io rimanevo seduta sul letto, le braccia attorno alle ginocchia tirate fin sotto il mento.

Non avrei ceduto. Io, dal professore al terzo piano, non sarei più tornata.

Il giorno che vennero ad arrestarlo, il professore al terzo piano, ovviamente, io ero a scuola. Seguivo con il dito la linea sotto il mio nome sul foglio appeso in bacheca: rimandata in matematica. 

Quando ero rientrata, avevo trovato mia madre e la vicina di casa sedute al tavolo in cucina. Lei, mia madre, era scattata in piedi e mi era venuta incontro. Con poche parole scelte accuratamente, e che non comprendevano alcun termine derivante dalla parola tabù in casa mia (sesso, ovviamente), mi aveva raccontato quello che era successo al professore al terzo piano. “Una cosa inaudita, da pazzi, fuori da ogni ragione”. 

Continuava a sostenere che la teppistella del primo piano (avrebbe voluto dire la puttana del primo piano, ma a casa mia questa era un’altra parola tabù), aveva incastrato il rispettabilissimo professore. 

Io l’avevo guardata, avrei voluto dirle che… Ma non dissi nulla. Me ne andai in camera mia e mi sedetti sul letto, le braccia attorno alle ginocchia tirate fin sotto il mento.

I giorni seguenti, in casa mia, non si parlava d’altro. Della grande ingiustizia subìta dal professore del terzo piano, ovviamente. Incastrato dalla teppistella del primo piano, ovviamente. La puttana. Ma questa parola non si poteva dire. 

Quando suonarono alla porta, fui proprio io ad andare ad aprire. Due agenti di polizia, una donna e un uomo, volevano farmi qualche domanda. Mia madre si oppose e rispose al posto mio. Ero minorenne e non potevano interrogarmi. E poi io non avevo niente da dire riguardo al professore del terzo piano, una persona rispettabilissima. 

Io la guardai e avrei voluto dirle che… Ma non dissi nulla.

E non dissi nulla neanche i giorni seguenti, né le settimane successive, e i mesi dopo. Non dissi nulla neanche quando il rispettabilissimo professore, quello del terzo piano, ovviamente, fu condannato per violenza sessuale ai danni di una minorenne. La teppistella del primo piano, ovviamente. “Quella puttana è riuscito a incastrarlo” si lasciò sfuggire mia madre. Non dissi nulla neanche quando la vicina di casa, in assenza di mia madre, ovviamente, mi chiese se… per caso… il prof… con me… 

Non dissi nulla neanche dopo che furono passati tanti anni. Nessuno mi avrebbe più creduta e tutti avrebbero fatto quella domanda: “perché non hai parlato a suo tempo?”

Il problema, vedete, sta tutto qua. È che io non lo so perché non ho parlato. Forse perché mi vergognavo. Forse per non dare un dolore alla mia famiglia. Oppure perché mi sentivo in colpa. Se avessi detto quello che era successo, mia madre avrebbe pensato di me che ero una puttana? Forse non ho parlato per proteggermi. Per non dovermi sentire gli occhi addosso di tutti. A casa, a scuola, tra gli amici. Forse non ho detto nulla per dimenticare. Per rimuovere quell’orribile disgusto. O forse per non essere giudicata. Sapevo bene, e lo so ancora, che in situazioni del genere si fa presto a passare da vittima a colpevole. Mi sentivo sola e impaurita, e ho preferito tacere, anche quando, probabilmente, mi avrebbero creduta, dopo la sua condanna. Del professore, ovviamente.

Ma non dissi nulla.

Comprendere si deve, giudicare no

Dedicato a chi non ha, purtroppo, la forza di denunciare

Dedicato a chi, purtroppo, guarda ma non vede

(Federica Sanguigni)

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