Il vittimismo esprime un modo immaturo di vivere le relazioni e di affrontare la realtà. È un atteggiamento passivo, in cui chi si pone come vittima vive la propria condizione in funzione delle scelte altrui. Si scontra quotidianamente con il mondo che abita con la netta convinzione di non avere il potere di cambiare le cose.
Il vittimismo è un meccanismo che si innesca nelle persone che sentono di non poter sostenere un confronto con persone o eventi in modo equo e paritario. Etichettandosi come vittima, si garantisce ascolto, protezione, indulgenza e compassione. Tutti vantaggi per recuperare il controllo della situazione. Il vittimismo ha spesso implicito un intento manipolatorio. Mi pongo come vittima quando so di aver perso in partenza, così da poter giustificare la mia sconfitta. Quando si attua questo meccanismo in un confronto, la sua efficacia è assicurata dall’altro, da chi cioè abbandona il ruolo di competente (cioè che compete) per porsi con compassionevole ascolto. Il vittimismo si avvale del senso di colpa e dell’empatia del prossimo. Il vittimismo è un tiranno silenzioso, che parte da una apparente posizione di svantaggio per dominare le persone che si pongono in ascolto e cura.
Quali sono le caratteristiche del vittimista?
- Si lamenta in continuazione ed è inconsolabile: attraverso la lamentela attira l’attenzione su di sé. Esiste una lamentela laddove c’è qualcuno pronto ad ascoltarla. Esiste un vittimista laddove esiste una persona empatica che tenta di consolarla. Come è impossibile che esista una vittima senza carnefice, è altrettanto impossibile che esista un vittimista senza un carnefice (che spesso è immaginario o manipolato dalla percezione individuale). La lamentela è frutto di una insofferenza, ed è assolutamente legittima. Ma la lamentela del vittimista è perpetua, frequente, aggressiva, in costante ricerca di un colpevole da additare. La sua lamentela patologica è il sintomo di una incapacità di accettare i propri limiti, i propri difetti e i propri errori. “Non sono io che ho sbagliato, è il mondo che è ingiusto”. Ma perché è inconsolabile? Il vittimista cerca affetto e comprensione. Chi ascolta cerca di consolare, magari di dare una soluzione. Ma il vittimista, inconsciamente o meno, rifiuta in seconda battuta la comprensione e le soluzioni possibili. Perché? Perché se dovesse accogliere quelle soluzioni poi sarebbe costretto a prendere la decisione di riconoscere i propri errori e cambiare la propria condizione. Preferisce così crogiolarsi nelle proprie lamentele, cosicché ci sia sempre qualcuno a dare ascolto, affetto, tolleranza. Inoltre, chi non si pone con ascolto e comprensione nei suoi confronti, è automaticamente bollato come “nemico”. Fateci caso: chi non ascolta una vittima è insensibile, senza cuore, quello che si dice una cattiva persona. In realtà chi non ascolta un vittimista sta facendo la scelta giusta: si sta proteggendo da una persona tossica e, consapevolmente o no, manipolatrice.
- Colpevolizza gli altri. Il vittimista, che crede cioè di essere una vittima, non ha colpe. Colpevolizza gli altri. Nella mente del vittimista non esiste alcun concetto di autocritica. Non è in grado di analizzare con distacco le situazioni. Il vittimista è una persona che non vuole mettersi in discussione. Il suo punto di vista è inattaccabile e con una forma perfetta, incriticabile e insindacabile.
- Mette in mostra la sua negatività. Per qualcuno, esternare le proprie disgrazie non è concepibile. Alcuni vogliono apparire forti, sicuri, senza problemi. Il vittimista fa esattamente l’opposto. Più esibisce disgrazie tangibili più la sua condizione di vittima appare reale. Quando non ci sono più eventi in grado di sottolineare la sua condizione, il vittimista ne crea (letteralmente) di nuovi per poter confermare la sua condizione. Il vittimista non si confronta con le persone vicine alla sua sfera relazionale, ma cerca di dimostrare a chi ancora non conosce la sua situazione tragica. Più è ampia la sua cerchia di persone “in ascolto” più il suo status acquisirà concretezza. Non esiste una tragedia senza un pubblico che la commenti. Una vittima che si possa definire tale ha bisogno, e questo è un termine chiave, di un pubblico che la difenda in quanto tale.
- È sospettoso verso tutto e tutti e vede trame oscure là dove non ci sono. Ogni elemento esterno può essere utile a disegnare la sua sagoma sul pavimento.
- Svaluta il prossimo. La sua mancanza di autostima lo obbliga ad abbassare l’altro al suo livello. Di contro, se sta avendo a che fare con il diretto interessato, tende a esaltare ciò che lui ha e che non ha meritato. Il vittimista varia la sua strategia in base alle circostanze: quando mi serve, l’altro è migliore di me. Se è migliore, non è certo per demerito mio, ma per fortuna altrui. Non posso dichiarare con onestà che ciò che l’altro ha se l’è meritato, perché altrimenti dovrei applicare lo stesso ragionamento a me stesso.
- Vuole esercitare controllo. Non ottenendo risultati con le proprie capacità, con le proprie skills sociali, una soluzione è quella del ricatto emotivo. Bisogna fare leva sul senso di colpa altrui per recuperare il controllo della situazione. Se non mi ascolti, se non fai come dico io, sei una brutta persona. Il vittimista utilizza la manipolazione per avvalorare la sua tesi: pungola l’altro in modo tale da scatenare la sua aggressività. Se l’altro risponde a tono, cadendo quindi nella trappola, il vittimista avrà prova che aveva ragione. Tutti sono
- Resta immobile. Non può cambiare la sua posizione, giusto? Se dovesse cambiare non avrebbe più l’attenzione catalizzata su di sé. Riconoscere i propri errori significa ammettere di aver sbagliato. Ma la vittima non sbaglia mai, la vittima non ha responsabilità, non può essere giudicata negativamente. Chi non vorrebbe essere giudicato sempre in maniera positiva? Non riuscendo ad attingere le risorse emotive necessarie al cambiamento, preferisce succhiarle dagli altri per poi gettarle nella pattumiera. Nuovo giorno, nuovo parassitismo.
- Non ha fiducia. Il vittimista pensa che ci sia sempre qualcuno pronto a ingannarlo. È al limite dell’ossessivo, vigila su tutto e manipola parole, gesti, eventi per valorizzare la sua tesi.
- Pretende aiuto, ma non lo accetta. Il paradosso del vittimista è proprio questo: pretende che tutti lo aiutino a uscire dalla sua condizione, ma rifiuta ogni soluzione. Non ho bisogno di uno psicologo, non ho bisogno di parlare con nessuno. La sua bocca grida “voglio cambiare”, la sua staticità emotiva e la sua insicurezza gridano il contrario.
Un buon modo per non farsi risucchiare dalla spirale del vittimista? Per me è stato utile cercare di riconoscere i segnali. Una volta individuati, ho limitato il processo di immedesimazione. Ho creato prima un distacco emotivo, poi ho cercato di comunicare le mie impressioni in maniera onesta, sincera, benevola. Ho mantenuto un comportamento fermo, deciso, adulto, incorruttibile. Questo è stato l’unico modo per smuovere il vittimista dalla sua posizione. Sapete chi era questo vittimista? Ero proprio io.
Il vittimista vive un mondo ideologico, ideologizzato. Afferma: il mondo non va come dovrebbe andare. Il mondo è quello che non dovrebbe essere.
Ad alimentare questa carica ideologica, si infiltrano concetti altrettanto astratti. Il vittimista crede nella fortuna e nella sfortuna, crede nei concetti rigidi di bene e male, giusto e sbagliato, bianco e nero. Possiede una rigidità di pensiero inamovibile.
Quando il vittimista critica il prossimo, edifica più livelli di idealizzazione. Critica l’altro per abbassarlo al suo livello, mettendo in evidenza i suoi difetti. Peccato che l’altro non sia solo i suoi difetti. In questo processo il vittimista idealizza anche se stesso, etichettandosi con pochi aggettivi abilmente miscelati e filtrati. Il vittimista e il colpevole che addita sono osservati su un piano totalmente marginale, ristretto, offuscato.
Il vittimista si sente una marionetta nelle mani della sfortuna, del destino, di Dio. Non ha responsabilità, nessuna volontà di potenza, nessun potenziale sviluppabile. Sfortuna, destino, società, Dio, mondo, sono bersagli senza sagoma, senza angoli. Facili da incolpare, difficili da individuare e distinguere.
Ma da cosa nasce il vittimismo nel singolo individuo?
- Per imitazione di un genitore che si comporta in maniera analoga (rapporto giudicante).
- Aver subito violenza fisica e psicologica da piccoli.
- Essere stati trascurati dalla famiglia di origine.
Il vittimista non affronta costruttivamente il dialogo. Non si confronta mai davvero con il suo interlocutore, piuttosto insinua, spettegola, avanza accuse. La sua comunicazione non è univoca né assertiva. È ambigua.
Ha una morale spesso rigida ed è intollerante, poco lucidamente critico, quando si tratta di tradimento, esclusione, abbandono. Ha uno spiccato senso della giustizia, puramente personale e ideologica. Il vittimista concede di entrare nel suo mondo solo a chi lo accondiscende.
Mentre la vittima ha realmente subito un torto, un danno, e avrebbe tutti i motivi per provare una certa sofferenza, il vittimista crea la propria sofferenza, designa il proprio colpevole. A differenza della vittima, il vittimista ha bisogno di una platea a cui mostrare la propria sofferenza, un pubblico a cui dare il colpevole causa della sua condizione. Il vittimista ha bisogno di giudici. Più giudici concordano con la sua bilancia morale, più possibilità avranno di non essere confusi, associati al colpevole stesso.
Avendo una scarsa capacità introspettiva, una mancanza di onestà intellettuale, e una incapacità di entrare in contatto con le proprie emozioni, il vittimista proietta le proprie insicurezze sugli altri.
È qui che si comincia a confondere la vittima col vittimista:
Da Critica della vittima di Daniele Giglioli.
“La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subìto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto. […] minorità, passività, impotenza sono un bene, e tanto peggio per chi agisce. Se il criterio che discrimina il giusto dall’ingiusto è necessariamente ambiguo, chi sta con la vittima non sbaglia mai. In un tempo in cui tutte le identità sono in crisi, o manifestamente posticce, essere vittima dà un luogo e un supplemento di sé”.
“La vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi: il sogno di qualunque potere”.
Quando si prova a criticare la vittima:
Criticare implica una piccola, seppur garantita, percentuale di crudeltà. Non si può criticare senza rischiare di essere offensivi. È la legge del libero pensiero e dello spirito critico. Se non penso in modo critico, mi conformo. E sia ben chiaro, per criticare non si intende distruggere, demolire, ma osservare e analizzare oggetti, persone, fenomeni nella loro unicità prendendo in considerazioni più punti di vista per creare un quadro generale. Saper criticare significa saper distinguere, apporre dei filtri, individuare e separare.
Quando abbiamo a che fare con un caso in cui ci si presentano una vittima e un carnefice, il nostro spirito critico vacilla perché entra in campo il mondo emotivo. Proviamo empatia con la vittima e si scatena la nostra morale, il nostro senso di giustizia, e il nostro ego, che urlano all’unisono: lui è cattivo, io sono buono! Il carnefice non è un essere umano, è uno specchio su cui riflettiamo la nostra identità. La vittima invece trova la sua identità attraverso noi, attraverso il dramma che vive.
Quando si parla di una storia in cui sono protagonisti una vittima e un carnefice, siamo già calati all’interno di una storia, di una narrazione, e là dove c’è una narrazione ci sono dei personaggi (quindi dei ruoli), una caratterizzazione parziale di essi, una serie di eventi e, ovviamente, una morale. Nel raccontare l’evento, vengono giustamente tralasciati dei dettagli inutili ai fini della narrazione. Come come vengono filtrati gli elementi, vengono anche tralasciati dettagli utili a costruire la personalità dei protagonisti. Chi riveste il ruolo della vittima verrà inquadrata come vittima e non so come essere umano nella sua completa complessità. La stessa cosa vale per il carnefice. La vittima verrà raccontata con un insieme di aggettivi e dettagli volti a far empatizzare il pubblico, mentre il carnefice non avrà nessuna caratteristica umana (che potrebbe dunque spingere le persone a provare compassione), ma assumerà sembianze mostruose. Perché? Per il favore della morale.
L’inquadramento dei ruoli dipende dalla narrazione. Ci saranno storie per cui non sarà necessario inserire riferimenti culturali, dettagli del carattere o altro. Quando ascoltate una storia in cui vi stanno parlando di vittima e carnefice, non vi stanno raccontando un quadro completo. Vi stanno proponendo una storia sul bene e il male, e voi siete invitati a essere giudici con pochissime prove.
In questo contesto, le vittime sono ridotte a ciò che è stato fatto loro, hanno lacrime da mostrare e dolore da esprimere. Il carnefice è ingabbiato nella sua etichetta: razzista, omofobo, stalker, assassino, ecc. Più è efficace e veritiero il processo di definizione del carnefice, più la vittima acquisisce potere. Qual è il potere della vittima? L’immunità. Ed è per questa ragione che c’è una corsa sfrenata per chi vuole fare il portavoce, il difensore della vittima. Se la vittima è intoccabile, lo sarò anch’io. E come succede? Semplice, farò appello all’idealismo, alla divisione morale di bene e male. “Come fate a giudicare questo dolore?”, “Se non capite la sua sofferenza siete dei mostri”.
Senza contare il modus operandi. La vittima detta le regole della storia. Chi replica portando una contro-realtà o contro-verità, è paragonabile a un papabile carnefice, un complice del male di questo mondo. La vittima dice che la realtà non è come dicono gli altri, è come dice lei, perché sì e se dite il contrario ce l’avete con lei.
Se riflettiamo su questo nel contesto del dibattito pubblico, è vero che ci sono molte teste calde che a prescindere devono andare contro la vittima. Stiamo parlando di quei mentecatti che giudicano la donna vittima di stupro perché indossava la minigonna o perché era ubriaca, eccetera. Ma capita anche che ci siano persone con spirito critico a cui non interessa essere dalla parte del giusto, ma interessa stabilire quale sia la verità. Quindi cosa deve fare per individuarla? Tirarsi fuori dallo schieramento della vittima (e naturalmente del carnefice). Ma chi non si schiera dalla parte della vittima è complice del carnefice, ricordate?
Ebbene, quello è il momento in cui bisogna scegliere: criticare vuol dire non avere paura, vuol dire non essere conformista, vuol dire scegliere di avere un’identità unica e non uguale ad altre. E non lo si fa per un principio di egoismo, ma per osservare lucidamente la realtà circostante nella speranza che essa e noi stessi, capendo gli errori, possiamo migliorare.
Un altro dettaglio non trascurabile della vittima, è che essa detesta il potere perché non lo possiede. Lo detesta perché è stato proprio il potere, e il suo abuso, a metterla nella posizione di vittima. Fare la vittima (non ‘esserlo’ nel vero senso della parola) è un tentativo subdolo di riappropriazione.
La vittima promette identità. Se non sai chi sei e non vuoi fare nulla per cambiare, la vittima ti garantisce un’identità. Alla vittima le viene chiesto di non cambiare, di essere quello che è in quanto tale. Se non c’è più una vittima, non c’è più un riflettore puntato, non c’è più un argomento, non c’è un’attenzione pubblica. Una volta che la vittima sente di perdere il suo valore da vittima, deve fare di tutto per tornare nella condizione. Se non sono vista come “quella che ha subìto”, chi sarò? E quindi sarà costretta a tornare a cercare se stessa.
Il paradosso della vittima:
Abbiamo detto che il vittimista ricerca consenso, empatia, ascolto, per la sua condizione e la ottiene perché il mondo è pieno di persone sensibili o idealiste sul fronte giusto o sbagliato, buono o cattivo. Ciò che il vittimista non realizza è che questo consenso, questo ascolto, è un placebo che effetti poco durevoli. L’altro lato della medaglia implica che le persone ti vedano solo per quello che sei. Se dimostri di essere fragile, immobile, indifesa, bisognosa, le persone ti tratteranno come tale. Le persone, se si escludono le crocerossine, hanno una soglia della pazienza media. Possono ascoltare ed essere disponibili ad aiutarti per uscire dalla tua condizione. Ma appena annusano una tua reticenza, un tuo immobilismo, cominciano lentamente e gradualmente ad allontanarsi. E quella, checché se ne dica, è una decisione sacrosanta. C’è differenza tra un buon samaritano e un martire. Come c’è differenza tra un amico e uno psicologo. Le persone non vogliono circondarsi di depressi che non fanno altro che crogiolarsi nel proprio dolore, che non fanno altro che lamentarsi e autocommiserarsi. Vogliono persone positive accanto, perché la vita è una merda per tutti.
Se sei un vittimista, come smettere di esserlo?
- Affronta la tua insicurezza: porsi da vittima ti permette di ottenere dei benefici temporanei. È come fumare una sigaretta. Godi della sua efficacia finché non consumi l’ultimo tiro, poi sai che dovrai fumarne un’altra per poter godere di nuovo. La condizione di vittima non ti ha mai realmente reso felice, ha solo contribuito a renderti più fragile e insicuro.
- Cerca l’Adulto che è in te. Interpellalo, permettigli di prendere il controllo. Puoi tentare facendo degli esperimenti ogni volta che si attiva la voce del bambino che è in te, che vuole essere vittima. Lascia parlare l’Adulto. Fingiti sicuro di te, determinato, deciso. Prendi coscienza delle tue responsabilità e accoglile con la forza di volontà. Puoi pedalare con le rotelle finché vuoi, ma questo non potrà fare di te una persona che sa andare in bicicletta. Per andare in bicicletta serve equilibrio e determinazione. Potrai cadere infinite volte, ma se sei deciso a imparare prima o dopo saprai cosa fare per evitare di cadere.
Cerchi un nemico? Non resta che guardarti allo specchio. Ma non è un nemico con cui bisogna combattere. Bisogna ascoltarlo, farci la pace, e poi voltare pagina. Decidere di cambiare, di uscire dalla condizione di vittimista, significa trovare il coraggio di ascoltarsi, di guardare il proprio abisso, i propri errori, e solo dopo trovare la forza di cambiare. Si comincia con l’osservazione e l’ascolto, poi con un atto di fede. La volontà è una scelta, ma pensare che tutto andrà bene, che si può cambiare, è un atto di fede. Ed è solo dopo quest’atto di fede che comincerai ad avere stima di te. Comincerai a mettere ordine nella tua vita, a non dare contro agli altri per ogni singola sciocchezza che ti capita. Se non otterrai risultati, la colpa potrai solo darla a te stesso. Ma puoi accorgertene e porre rimedio. Per cambiare bisogna assumersi le proprie responsabilità, bisogna prendere in considerazione l’idea del fallimento. Bisogna mettere in conto che i fallimenti capitano e bisogna accettarli per poter andare avanti e migliorarsi. Parafrasando Jordan Peterson, se fossi padre o madre di te stesso e tu fossi un bambino, sapresti perfettamente che ricevere un dolce al giorno ti renderebbe felice, ma alla lunga ti verrebbero le carie, ingrasseresti. Un No netto ai tuoi istinti distruttivi ti può aiutare a uscire dalla tua condizione. Bisogna volersi bene per crescere. Devi motivarti, prenderti cura di te. Devi essere il primo a prenderti cura di te, se vuoi non essere più una vittima. Devi parlarti sinceramente, essere diretto, anche a costo di offendere te stesso, e devi ascoltarti. Solo se sei sincero con te stesso puoi cambiare. Se giochi a nascondino con la tua coscienza, nessuno perderà oltre te. Sei l’unico che può fare libera tutti per libera te stesso. Prova a uscirne passo dopo passo, con una mossa decisa. Se la mossa non ti fa ottenere risultati, provane un’altra. Quando riuscirai a ottenere risultati, vedrai che ti innamorerai ancora di più di loro e di te stesso. Le persone ti vedranno in maniera diversa, si affideranno a te, avranno voglia di condividere tempo, spazio, momenti, discussioni. La tua libertà sarà la loro gioia, oltre che la tua.
A cura di Simone Sciamè
Nota dell’autore:
Queste riflessioni sono frutto delle esperienze personali, delle osservazioni strettamente individuali di questi due fenomeni. Per accertarmi di non scrivere fesserie, non essendo io uno psicologo, ho preferito fare riferimento ai contenuti degli articolti e dei libri, alle fonti riportate qui in sotto.
Libri:
Critica della vittima – Daniele Giglioli
12 regole per la vita – Jordan Peterson
