Vi voglio raccontare una novella, diciamo una favola o se vogliamo anche una leggenda, che il grande Leonardo da Vinci scrisse tra le tante dedicandola a un suo conoscente, Benedetto Dei, un fantomatico personaggio alla corte di Lorenzo de Medici, che il genio incontrò quando risiedeva alla corte di Lodovico il Moro.

Questa che vi racconto è una mia libera interpretazione e soprattutto è presa come esempio e rappresentazione a un GIGANTE che noi da un anno e poco più purtroppo conosciamo e pare che sia stata scritta proprio pari pari ai fatti e agli avvenimenti che tutti ancora combattiamo.

IL GIGANTE

Nel mese di giugno ( io apporto la modifica personale e scrivo Marzo) apparve un gigante che veniva dalla Libia ( io penserei dai paesi dell’Est) e che pare avesse già combattuto con gli Arabi, i Persiani e altri popoli lontani, era un gigante che non si sa bene da dove fosse nato, che si nutriva di genti e di persone, la sua faccia era orribile e faceva paura a guardarla, gli occhi erano rossi infuocati che solo Lucifero potrebbe eguagliare, il naso arricciato e ogni suo passo fa tremar la terra, era mastodontico e enorme tanto che un uomo a cavallo a malapena gli arrivava al dorso del piede. Dunque in quel mese di marzo iniziò arrabbiato e furioso a farsi strada con i piedi, scaraventando a calci gli uomini per aria, i quali poverini, ricadevano violentemente a terra come chicchi di grandine e morivano. Altri magari morti dalla paura, ricadendo su alcuni rimasti vivi a loro volta arrecavano morte, e si alzò così un polverone enorme , tanto che fece smettere dell’agitare delle gambe al gigante.

Chi era rimasto vivo se la dette a gambe levate perchè ogni loro tentativo di abbattere quella furia, era inutile e assolutamente vana. Poveri uomini, le loro fortezze non servono più a nulla, le alte mura, le città, i palazzi e le case non erano più riparo, allora non restava che nascondersi nelle buche e nelle caverne sotterranee, perchè solo sotto terra vi poteva essere salvezza e scampo.

Quante morti, quanti padri e madri perduti e quanti figli, e quanti cari ognuno ebbe a lasciare, che da che mondo è mondo mai si era visto tanto lamento universale!

Ma il gigante all’improvviso sdrucciolò sulla terra ormai piena di sangue e cadde sconquassando la terra da crearne un terremoto e dalla grande botta che prese, rimase disteso e tramortito così che il popolo credendolo sconfitto, gli corse addosso in massa, proprio come fanno le formiche quando scorrono con furia su un rovere caduto, e nella corsa cercavano di ferire quelle forti membra.

Il gigante però riprese i sensi, forse stimolato anche da quelle insistenti “punture”, quindi appoggiandosi sulle mani, sollevò la testa e passando, poi, una mano, tra i capelli, la trovò piena di uomini appiccicati, proprio come i pidocchi, perciò scosse l’enorme testa e tanti furono scaraventati in aria e di nuovo tanti trovarono la morte e altri ancora che erano rimasti a terra, venivano da questi colpiti come proiettili e altri ancora venivano calpestati da chi tentava di scappare.

(La finale del racconto ve la riporto uguale a quella di Leonardo perchè non v’è altro modo che dirla come lui l’ha saputa dire.)

Ma tenendosi aggrappati ai capelli, e cercando di nascondersi, i superstiti facevano come i marinai nella tempesta, quando corrono su per le corde per abbassar la vela a poco vento.

Mio personale riadattamento alla Lettera a Benedetto Dei, Il Gigante, di Leonardo da Vinci.

Roberto Busembai (errebi)

Immagine web: Adriana Saviozzi Mazza