Un fumetto in biblioteca: La saga di Paperon De’ Paperoni di Keno Don Rosa.

Keno Don Rosa compone la biografia del papero più ricco del mondo, raccogliendo minuziosamente i riferimenti delle storie di Carl Barks e inserendoli in un preciso quadro storico. Il risultato è un affresco complesso, minuzioso, divertentissimo, tra storia, fantasia, letteratura e umorismo. Di Paolo Roggero – 16 Aprile 2017

Sono cresciuto come tanti, come tutti nel mio rione, leggendo Topolino. Negli anni sono rimasto affezionato a quel curioso mondo dolciastro, fatto di topi e paperi dotati di un’umanità posticcia, piegati ad ogni declinazione di genere, dalla commedia al noir, in cui il gioco della fantasia ha sempre cura di fermarsi sempre un passo prima di toccare le sfumature più crude della realtà. Un mondo in cui non ci sono padri e figli ma solo zii e nipoti, non esistono matrimoni ma solo eterni fidanzati, dediti a pudichi baci sulle gote ed a romantiche passeggiate mano nella mano. Nessuno invecchia, nessuno cresce, tutto è cristallizzato in un immutabile e rassicurante bolla, in cui il tempo sembra non scorrere e che, misteriosamente, negli anni si attualizza. Nelle vignette iniziano a comparire tablet e social network in mano agli stessi paperi che, nel loro eterno presente, qualche anno prima maneggiavano gettoni per telefonare nelle cabine.

È la logica del canovaccio, tipica della produzione fumettistica usa e getta, di pura evasione: nulla di nuovo sotto il sole. Da bambini non si colgono queste sfumature. Ho continuato a frequentare quelle storie con divertimento, svago e profitto anche crescendo (ho imparato più cose della scrittura e della lingua italiana leggendo le sceneggiature di Guido Martina che tanti libri per ragazzi), con un’inclinazione per le storie brevi, possibilmente divertenti, piuttosto che quelle lunghe, a puntate, dalle tematiche più serie e dunque più intrise di indigesta retorica. Anche per questo, quando in casa mi capitò il volume Paperdinastia (un regalo degli zii: che Dio li abbia in gloria), lo attaccai con ritardo e diffidenza. Il libro prometteva la storia della famiglia dei paperi e specialmente della fortuna di Paperone. All’epoca le storie interminabili e strappalacrime in cui il protagonista si trascina da un disagio all’altro fino all’inevitabile apoteosi finale mi erano particolarmente intollerabili. Di questo devo ringraziare qualche filmaccio hollywoodiano, certi anime giapponesi che tuttora popolano i miei incubi, e le terrificanti riduzioni per bambini dei classici della letteratura. Quando si è piccoli c’è questa curiosa idea per cui non si è in grado di leggere troppo, allora ti rifilano questi libracci in cui la storia è condensata in poche righe di prosa anonima, annullando completamente la verve e l’abilità narrativa dell’autore, che normalmente gioca un ruolo decisivo nel fascino del testo.

Questo interminabile cappello autoreferenziale ha uno scopo: cercare di far capire al lettore quale illuminazione sia stata, per un ragazzino tra le medie e le superiori, il cui mondo fumettistico iniziava dalle storie autoconclusive di Topolino e del Giornalino e finiva nei cartoni animati del pomeriggio, scoprire La saga di Paperon De’ Paperoni.

Mi unisco a un coro già abbastanza nutrito di appassionati ed esperti del settore nel dire che, indiscutibilmente, di tutta la produzione fumettistica Disney, Carl Barks e Keno Don Rosa sono stati le punte di diamante assolute, in termini di qualità e spessore della narrazione. Quello che hanno fatto con i personaggi di Paperino e Paperone ha del miracoloso. Prima che Barks prendesse in mano la matita Paperino era una specie di macchietta iraconda, maligna e sfigata, praticamente un personaggio slapstick, visto che le sue parole erano per lo più inintelligibili nei corti d’animazione .

Zio Paperone lo ha inventato e ne ha fatto un personaggio a metà tra l’Avaro di Molière e un serbatoio inesauribile di storie. Barks e i tantissimi maestri del fumetto venuti dopo di lui (tra cui gli italiani Scarpa, Carpi e Cavazzano, per citarne tre tra i più noti) hanno trasformato due personaggi secondari, due caratteristi, poco più di due comparse destinate unicamente a far da spalla al capocomico, in due personalità tanto complesse da superare e oscurare il personaggio principale stesso. Topolino, il principe di tutto l’universo Disney, in tanti anni è rimasto sostanzialmente un personaggio bidimensionale: l’arguto paladino del bene, lo Sherlock Holmes del politicamente corretto che vince sempre, o il vincente che viene messo in ridicolo. Un po’ come John Wayne, più che un attore l’incarnazione di un personaggio, il duro della frontiera, l’icona del pioniere americano. Nella seconda parte della sua carriera piegò questa maschera nell’interpretazione di commedie divertenti, in cui la forza comica scaturiva, per lo più, dall’accostamento del suo personaggio a situazioni inconsuete, scoprendone i punti deboli e mettendoli in ridicolo. L’immagine più rappresentativa di questa metamorfosi è forse la sua apparizione in un programma televisivo americano, indossando un colossale costume da coniglio.