Luoghi, personaggi, fatti, leggende 

La più antica, la più forte delle emozioni che l’uomo possa provare è la paura. Certo ne esistono vari tipi: quella infantile del buio, quella di stare in ambienti troppo angusti o all’aperto, meglio note come claustrofobia e agorafobia (di quest’ultima pare soffrisse Alessandro Manzoni), e via di questo passo; ma sicuramente quella più grande si scatena in noi quando ci sentiamo indifesi davanti a qualcuno che può mettere a repentaglio la nostra incolumità, e che potrebbe addirittura trasformarsi nel nostro assassino. E la paura è solitamente accompagnata da incredulità quando chi ci vuole fare del male è una persona che invece dovrebbe amarci e proteggerci, ovvero un familiare. 

Ovviamente l’assassinio primordiale che noi tutti conosciamo è stato quello di Caino ai danni del fratello Abele; e quell’atto è considerato così infame che a nessuno passa per l’anticamera del cervello di chiamare il proprio figlio Caino. Ma l’origine di Roma non poggia forse le sue fondamenta sull’uccisione di Remo? A mio parere, l’omicidio tra parenti rimane comunque quello più spregevole e nella storia, purtroppo, ce ne sono molti; tra i tanti casi mi viene in mente Livia Drusilla, la terza moglie di Ottaviano Augusto, che per favorire l’ascesa al trono del figlio Tiberio avuto dal primo marito, tramò nell’ombra per eliminare uno alla volta tutti coloro che avrebbero potuto divenire imperatori, ovvero Marco Claudio Marcello, nipote favorito di Augusto, e poi i tre figli maschi della figliastra Giulia maggiore, così come racconta lo storico Dione Cassio. E come scordare che Nerone fece pugnalare la madre Agrippina e che il suo maestro Seneca fu costretto a tagliarsi le vene perché sospettato, a quanto pare poi ingiustamente, di aver preso parte alla congiura dei Pisoni? Di omicidi tra congiunti ne parla anche l’Alighieri nel V canto del Purgatorio, dove incontra Pia de’ Tolomei, una gentildonna senese che gli racconta di essere stata ammazzata dal marito Nello d’Inghiramo dei Pannocchieschi per gelosia, o più probabilmente perché lui voleva sposare Margherita Aldobrandeschi dopo che l’amante era riuscita a sciogliere il matrimonio con Loffredo Caetani; ma Dante cita un altro caso nel più famoso V canto dell’Inferno, dove Francesca da’ Polenta, con voce lacrimosa gli narra la vicenda del suo amore col cognato Paolo Malatesta e la loro tragica morte causata da Gianciotto, fratello di lui e marito di lei che li trapassò con la spada mentre erano avvinghiati nell’atto d’amore. 

Come dimenticare poi la tragica storia di Beatrice Cenci, figlia del conte Francesco, uomo brutale e dissoluto, oberato dai debiti, processato e incarcerato più volte per reati infamanti e colpe nefandissime, come dicono le cronache dell’epoca, che maltrattava i figli, ma soprattutto la seconda moglie che aveva fatto loro da buona madre e la figliola Beatrice cui toccava subire gli stupri del genitore; insomma la situazione era così tremenda e disperata che i Cenci decisero per il parricidio, che venne materialmente attuato dal maniscalco Marzio da Fioran e dal signorotto Olimpio Calvetti, nel castello di Petrella Salto dove le due donne erano state rinchiuse dal conte Francesco sino al suo arrivo da Roma. La vicenda si concluse con le pene capitali per tutti i familiari, tranne che per Paolo, il più giovane dei figli, che venne però messo ai remi perpetui sulle galere pontificie, e ovviamente per gli esecutori materiali. Alle esecuzioni, davanti a Castel Sant’Angelo, quell’11 settembre del 1599 tra la folla che gremiva in modo inverosimile lo spazio antistante e che disapprovava vivamente quelle condanne perché tutti sapevano che razza d’uomo fosse il conte Francesco Cenci, erano presenti i pittori Orazio Gentileschi e sua figlia Artemisia e pure Caravaggio, che proprio da quella pietosa storia prese spunto per realizzare un dipinto dedicato a Giuditta e Oloferne

E a proposito di omicidi tra parenti, nelle vesti di scrittrice, pure io qualche anno fa mi sono occupata di un antico omicidio avvenuto nel 1380 e mai ufficialmente chiarito: quello di Azzone Visconti, figlio dodicenne nonché primogenito e quindi erede di Gian Galeazzo Visconti, primo duca di Milano e di cui, nel romanzo “A bon droit”, basandomi sulle pur scarse notizie che si hanno, racconto come possa essere stato orchestrato il delitto nei confronti di quel povero fanciullo e come avvenne la vendetta nei confronti del parente assassino che il Visconti, disperato per la perdita del figlio, sospettava come colpevole di quella crudeltà.

Insomma, anche se il tempo scorre come l’acqua sotto i ponti, certe tragiche vicende non vengono mai dimenticate, e anzi, ahimè, si perpetuano anche ai giorni nostri.

A bon droit. Il piacere della vendetta

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