Rosa Cozzi :

Buongiorno !
Vi chiedo gentilmente, se ne avete voglia, di leggere qualche capitolo della mia infan-zia !
Se il mio racconto avrà attirato la Vostra attenzione, vi chiedo gentilmente di comu-nicarmelo con un Vostro messaggio !
Saprò se continuare a scrivere la mia bio-grafia.
Un grande grazie anticipato !
Premessa !
Scrivere un libro ! … Era da tanto tempo che volevo farlo, ma il coraggio di mettermi in gioco mi mancava. Continuavo ad elaborare frasi su frasi, cercando di memorizzarle e di metterle sulla carta. Con la speranza di non scrivere frasi fatte, copiate o già scritte e riscritte.
Ero combattuta sul modus operandi: avrei dovuto raccontare fatti realmente accaduti nella mia vita o semplicemente lavorare di fantasia come avevo già fatto in altre occasioni ?
Ogni volta che mi apprestavo a scrivere una frase, rimanevo in qualche modo bloccata a metà, non riuscivo a continuare. Dovevo decidere se cercare di raggiungere quella perfezione che mi sono sempre imposta anche nella vita o scrivere così, tanto per scrivere?
Alla fine ho deciso di scrivere ciò che mi frulla nella testa al momento.
Farò come le farfalle, volerò da un pensiero a un ricordo, da un fatto reale a un episodio, tanto da farvi scompisciare dalle risate aggiungendo un pizzico di fantasia.
Cosa uscirà da questa mia fatica letteraria ?
Questa è un’incognita !
“Regola numero uno: entrare nel mondo senza fronzoli e senza fanfara ! ” .
Comincio col dirvi che venni al mondo con la camicia in un assolato e torrido giorno d’estate. Era un 20 luglio e l’orologio segnava le quindici pomeridiane. Secondo l’astrologia ero nella categoria dei cancretti con l’ascendente in scorpione, due segni d’acqua che mi avrebbero annegata, se non avessi imparato a nuotare presto, invece mi regalarono una grande capacità di decisione, una pronta analisi delle decisioni da prendere nelle situazioni impreviste, nonché un carattere dolce, affettuoso, docile e con tanta voglia di imparare. Fu così: nell’ora in cui tutti vanno a riposare, io mi svegliavo al mondo, già silenziosa e senza pretese.
Mia madre, allora quarantaduenne, ma ancora bella con la sua lunghissima treccia nera di cui andava fiera, era in camera, nel grande letto ricoperto da un coperta di raso, alto come il monte Bianco, da me definito così, perché negli anni seguenti ogni volta che cercavo di salirci scivolavo immancabilmente giù. Era assistita da una levatrice tedesca rimasta al paese dopo la guerra. Mia madre l’aveva aiutata a restare nascosta per tutto il tempo nel sottotetto di casa nostra, quando incominciarono ad evacuare le truppe tedesche dopo la sconfitta.
Era bella, alta e bionda come il grano maturo, e di nome si chiamava Rosa Frescka. Non ho mai saputo se mia madre mi dette il nome di Rosa, per ringraziarla di avermi aiutato a nascere, o se mi chiamò così in memoria di sua zia Mariarosa.
I miei tre fratelli, ormai quasi adulti, e le mie cinque sorelle (la più piccola aveva cinque anni) erano tutti nell’anticamera e aspettavano di sapere se ero nata.
Alcuni piangevano per quell’intrusa che era venuta a togliere di bocca quel poco di pane che avevano ogni giorno per sfamarsi, gli altri aspettavano di sapere se tutto era andato bene.
Finalmente la porta si aprì, e Rosa Frescka mi pose nelle braccia di mio fratello Domenico il maggiore che, a sentire i racconti degli altri, mi teneva con apprensione, e dopo avermi squadrata ben bene, che non mi mancassero occhi, orecchie, mani e piedi, mi diede un bacio in fronte e scoppiò a piangere, dicendo: “È bellissima!”.
Ero la sesta femmina, anche se, secondo le nascite e i decessi avvenuti prima di me, sarei dovuta essere la settima delle sorelle. Quest’ultime erano contrarie alla mia nascita, ma per forza di cose ormai c’ero e si dovettero adattare alla mia presenza.
Mio padre, bellissimo, alto 1,80 cm, occhi celesti, biondo e prestante, era in quel momento in viaggio di affari a comprare bestiame da macellare. Aveva una macelleria, ed era un maestro norcino. Lo scopo del viaggio era procurarsi bestiame di ottima qualità per i clienti, cui faceva sempre credito. Lo scriveva sui lunghi e larghi fogli gialli una lista lunghissima. Era evidente che la guerra aveva lasciato più indigenti di quanti ce ne fossero stati prima di essa.
Dunque, dalla mia venuta al mondo passarono almeno dieci giorni prima che mi vedesse e mi conoscesse.
Ovviamente io non ho nessun ricordo di quel momento, ma chi mi raccontò l’episodio della mia presentazione a chi mi aveva generato, o almeno aveva contribuito a fabbricarmi, mi raccontò della commovente delicatezza con cui m’accolse nelle sue braccia.
Da quel giorno per mio padre quando posò il suo sguardo su di me fu amore a prima vista.

“Gli anni innocenti”…

Tutte le comari del vicinato erano concordi nel dire che ero una bambina bella e brava. Facevano a gara a chi potesse tenermi in braccio per prima e stavo ore a dormire senza chiedere la poppata. Non so se è per questa ragione che amo le coccole. Quando vedo un bimbo in carrozzina sento il desiderio di prenderlo tra le mie braccia, e stringerlo amorevolmente. Mi beo nel vedere quell’esserino indifeso dormire ignaro e se è sveglio cerco di farlo ridere con vezzi strani. Divento di burro davanti a questi piccoli gioielli viventi.
Dunque riprendo il discorso.
Mia sorella Marianna, maggiore di noi fratelli, si era sposata cinque anni prima, rendendomi zia, ancor prima che gli spermatozoi di mio padre decidessero di incontrare gli ovuli di mia madre per generarmi.
Ed eccomi zia di Maria, una nipote più grande di tre anni. Con l’andare del tempo si scatenò una gara a chi sfornava più figli tra mia madre e la sua prima figlia. Difatti, appena nata, nel giro di sette mesi divenni di nuovo zia, di una splendida bimba di nome Ninetta. Appena due anni dopo, mia madre ri-amalgamò gli ingredienti necessari e, stavolta fu il turno di Gigino, il più piccolo dei fratelli e ultimo rampollo di casa.
Nel frattempo, mia sorella Marianna, per non farsi fregare il primato delle femmine, diede alla luce, a soli tre giorni di distanza dalla venuta al mondo dell’ultimo nascituro di casa, un’altra bella bambina di nome Adriana. Poi, visto l’andazzo, mia madre si diede una calmata. La progenie contava già dieci figli, quattro maschi e sei femmine.
Fu soltanto allora che mia madre, allora quarantacinquenne, smise si essere solo mamma e diventò nonna a tutti gli effetti!.
Ad accudirmi, quando mia madre doveva assentarsi, era mia sorella Carmela. Non so se l’avere accudito così tanti fratelli l’abbia sfinita a tal punto da non avere mai figli propri.
Io, intanto, crescevo ignara di un destino che mi avrebbe dato gioie e dolori.
Sin dal primo giorno divenni il giocattolo di mio padre. Mi portava con sé ovunque andasse e mi esibiva con fierezza.
Era oramai evidente che tutti i miei fratelli nutrissero gelosia nei miei confronti ma io, innocente creatura, non potevo accorgermene.

“Il tempo degli starnuti farciti, e del mio tentato suicidio”.

Fintantoché fu mia sorella Carmela che si occupò di accudirmi, fui una bambina felice, una di quelle che non piangeva mai.
Mangiavo proprio tutto ciò che mi veniva messo dentro il piatto, senza fare capricci.
Ma è risaputo che i bambini non mastichino molto per cui, se nessuno si ricordava di tagliarmi gli spaghetti prima di imboccarmi, finivo per avere la bocca piena, e bastava un semplice starnuto per far si che lo spaghetto di turno mi uscisse dal naso come un verme.
Ricordo bene come anche a casa nostra, come nel Sud di quegli anni, si facesse largo uso degli spaghettoni, per cui vi lascio immaginare che grossa impresa fosse quella di espellerli dal naso ad ogni starnuto
Tutto ciò succedeva immancabilmente quando mio padre era presente.
Avevo quasi tre anni quando rischiai involontariamente di soffocarmi con una patatina novella cotta al forno dalla mia “comare”.
Era il giorno di Pasqua ed eravamo stati invitati tutti a casa sua.
Ricordo perfettamente il momento in cui cominciai a soffocare.
Rantolavo stesa per terra, ma nessuno si accorgeva di ciò che stava avvenendo, almeno fin quando un giovanotto di nome “Pepetto” ; anche lui presente a quel pranzo, si avvide che non riuscivo più a respirare e, prendendomi per i piedi , mi capovolse a testa in giù, e incominciò a darmi dei colpetti alla schiena, finché la patatina non fu espulsa dalla mia bocca.
Intanto, tutti gli altri commensali erano rimasti così tanto attoniti per il fattaccio, che mi scrutavano come se avessero visto in me un fantasma.
Ci fu chi si mise a piangere, mentre qualcun altro esclamò: “Ora che arriva Biagio ci sfissa (ci picchia) a tutti quanti, Rosetta poteva morire!”.
Ho sempre desiderato ringraziare quel giovanotto, ma non ne ebbi mai più l’occasione.
Non ho ricordo di cosa accadde all’arrivo di mio padre . So solo che quando mi ripresi e mi fissai allo specchio, dopo che mi sciacquarono il viso per rianimarmi, mi accorsi che sembravo un pomodoro maturo pronto per il sugo e quel colorito persistette per giorni e giorni, prima di scomparire.
Fortunatamente, spiacevoli episodi come quello non ne capitarono più, perché da allora, chiunque mi imboccasse il cibo, faceva prima attenzione che tutto quanto fosse tagliato minuziosamente a pezzettini.
Crescevo e i giorni trascorrevano sereni, o quasi. C’erano infatti delle mattine in cui piangevo a dirotto e, la causa di quei pianti era sempre lei, mia sorella Ida, la quale, ogni qualvolta mi spazzolava i capelli, oramai lunghi fin quasi ai polpacci, lo faceva con così poca voglia e sbadataggine da tirarmene via sempre qualcuno.
Mia sorella non era affatto contenta di quell’ingrato compito mattutino e un giorno, brandì un paio di forbici e, zac zac, me li tagliò.
Mia madre passò tutto il tempo a urlarle contro fintantoché richiamato da quelle urla, non arrivò anche mio padre, il quale, alla vista di cotanto scempio perpetrato a danno dei miei capelli, s’infuriò talmente tanto da, menare mia sorella con un ceffone così tanto sonoro che quel suono, a distanza di anni, riecheggia ancora all’interno delle mie orecchie. Quell’episodio segnò definitivamente il destino di Ida che, riluttante da sempre a collaborare ai lavori domestici impartitigli da mamma, da lì a poco fu fatta partire verso il Nord, direzione Ventimiglia, dove avrebbe trovato ospitalità a casa di Domenico, fratello minore di mio padre, e della consorte Letizia. Ma non bastò raggiungere Ventimiglia per ammorbidire l’atteggiamento strafottente di Ida, era così e non aveva voglia neppure di sparecchiare tavola.

“Gli anni innocenti”…

Dei primi anni ho pochi ricordi personali, ero troppo piccola per ricordare tutto, posso solo raccontare episodi riportati da parenti e amici di famiglia.
Tutti raccontavano di quell’amore paterno quasi esagerato nei miei confronti, per mio padre ero una bambola da esibire come il bene più prezioso. E guai a chi osava farmi piangere! I miei fratelli e sorelle avevano tutti “assaggiato” la sua cintura sulle gambe, ma io ero esente da qualsiasi punizione, sicché il loro astio verso di me dilagava.
E il primo eclatante episodio di cui posso testimoniare personalmente (avevo forse cinque anni e non conoscevo ancora cosa fossero i soldi ed il loro valore) fu quando mio padre mi prese per mano per l’ennesima volta e, quasi piegato in due (era alto quasi un metro e ottanta), mi portò con sé da Vincenzino Versace, il salumiere che aveva la “putia” nel centro del paese, un negozio che aveva prosciutti, salumi, enormi mortadelle tutti appesi al soffitto, e disseminati per il negozio, spaghetti lunghissimi, sacchi di caffè in grani da tostare, fagioli, piselli, fave secche, scope di “saggina”, olio di oliva di propria produzione, zucchero, cioccolato; insomma era l’emporio dove potevi trovare tutto quello che serviva. E adiacente c’era l’unico bar del paese, frequentato da avventori senza lavoro che potevano passare qualche ora giocando a carte e bevendo vino. Per me era la caverna di Alì Babà.
Era un ricchissimo proprietario terriero, aveva fattorie di maiali che servivano per la produzione di salumi e prosciutti, di cui mio padre, mastro norcino, si sarebbe occupato al momento opportuno, solitamente a fine dicembre o ai primi giorni di gennaio, facendoli diventare delle saporite salsicce e pancette e deliziosi capocolli e prosciutti. Possedeva ancora grandi mandrie di “vacche” per la produzione di prodotti caseari.
Era sposato da tanti anni con Donna Caterina, ma sfortunatamente non avevano avuto figli. Era il più grande dispiacere per Vincenzino.
Mio padre, sempre tenendomi per mano, discuteva con questo grande signore che si ergeva da dietro al bancone sembrandomi enorme, e sovrastava tutto e tutti con la sua stazza.
Io, in silenzio, rapita da ciò che vedevo per la prima volta, stavo ad ascoltare la loro conversazione senza capir nulla di ciò che dicevano.
Ad un tratto questo omone esclamò : “Biagio, se mi dai a Rosetta figlia tua, ti dò un milione! E quando muoio le lascio tutti i miei beni!”.
Alzai gli occhi verso mio padre, che mi guardava con i suoi occhi blu, sorridendo.
Quasi svenivo, e la paura di ciò che mio padre poteva rispondere mi faceva battere forte il cuore.
E come se questo signore avesse proferito una scemenza, mettendomi le mani sui fianchi come facevano le “chanteuse” parigine mentre cantavano, con piglio deciso e battagliero risposi : “Essì, che tu credi che valgo solo un milione ! ? ” . Alla mia risposta tutti e due scoppiarono in una fragorosa risata, che fece accorrere tutti quelli che giocavano a carte nel bar adiacente, e commentarono dicendo a mio padre: “Biasì, hai una figlia che vale molto più di un milione!” . Difatti il ricco salumiere ne avrebbe dati 5 di milioni. Ma mio padre rispose che per lui valevo il mondo intero. Col senno di poi da adulta ringraziai mio padre per la risposta che dette a quel compratore di bambini, che finì per adottare una orfanella del vicino orfanotrofio, e le lascio un’ingente eredità alla sua morte. Inoltre appena seppi leggere e scrivere passando davanti alla “putia” riuscì finalmente a leggere l’insegna che sovrastava l’ingresso del negozio. Si leggeva a caratteri cubitali “MANGIATE CHE LA VITA E’ BREVE; MORIR DI DEVE”, il tutto accompagnato da un pasciuto maiale!
Però passai vicino alla ricchezza, che mi sfiorò, ma non mi prese per mano…
Prima che compissi sei anni, in primavera partì per Brindisi per fare il militare il mio adorato fratello Rocco; piansi disperata quando lo vidi andare via su quella carrozza di terza classe che sferragliava sui binari, verso ignota destinazione. Ricordo che eravamo noi tutte sorelle con mamma sul balcone di casa che sventolava il “maccaturo” in segno di addio. Avevo vissuto il mio prima trauma dell’addio.
Lo rivissi ancora un mese dopo per mio fratello Domenico, il più grande, quello che mi tenne tra le braccia appena nata definendomi, dopo avermi scrutata bene : “Bellissima”. Era partito anche lui in cerca di lavoro al Nord, però sempre in Liguria, sempre vicino agli zii. Se ne andò con un treno a carbone che mandava sbuffi di fumo dalla ciminiera e un grande prolungato fischio a mo’ di saluto.
Passò quasi un anno e, qualche giorno prima di Natale, tutta la famiglia aspettava di vederlo apparire dal vicolo, prestante, aitante e bello come soltanto i ragazzi cresciuti “a mazze e panelle” potevano essere negli anni ’50, ovvero almeno avere sue notizie, con mia madre che trepidava sperando che il postino la chiamasse dall’uscio di casa. Erano tempi duri per tutta la popolazione, dopo la guerra non c’era molto da mangiare o meglio, mancava il superfluo. Quel Natale si annunciava triste in famiglia per la lontananza di due persone care, che già mancavano da molti mesi. Io sapevo appena leggere e non ero al corrente di lettere scritte e d’invii speciali. Vivevo in un limbo beato d’innocenza.
Quel giorno di vigilia mia madre, che aveva avuto notizie da mio fratello emigrato al Nord del’ invio di un pacco, attese il postino, immobile con lo sguardo attento sussultando ad ogni trillo di campanello di bicicletta. Finalmente la voce del postino si fece sentire “Assuntina, c’é un pacco per te”. E tutti accorremmo curiosi per vedere con i nostri occhi quel famoso pacco tanto atteso.Era enorme, fu portato a quattro mani dalle mie sorelle e adagiato sul lungo tavolo della cucina. Tagliò lo spago mio padre, ma fu mia madre ad estrarre ogni singolo pezzo avvolto accuratamente in carta velina, con il nome del destinatario. Ognuno di noi ebbe un regalo: io ricevetti quaderni e matite colorate mai visti e un cappotto marrone a forma “redingote” con il collo e i polsini di velluto nero, una sciccheria. Era un regalo bellissimo, mi teneva caldo e l’indossai per mesi ogni giorno ; per farmelo togliere almeno la notte, ingaggiavo una battaglia continua con mia sorella. Ma il regalo più bello e goloso fu un enorme “panettone”, un dolce mai visto! Era con lo zucchero glassato, ricoperto di mandorle, e aveva un profumo appetitoso. Lo mangiammo il giorno di Natale e ne ebbi una fetta come tutti, essendo la famiglia numerosa. E dopo tantissimi anni sento ancora il profumo di quel dolce delizioso e speciale, che mi riporta alla mente tanti ricordi.
Dunque riprendo il discorso, e come tutti i discorsi bisogna riprendere il filo, che sia di cotone robusto e resistente, come il vestito bianco a righine blu, con le maniche a sbuffo, che indossavo quell’estate, che per la prima volta passò velocemente, e mi ritrovai in men che non si dica, con la cartella sulle spalle, carica di:
− quaderno;
− matita;
− penna;
− pennini;
− gomma,
e, accompagnata dalle mie sorelle, una mattina di ottobre, mi ritrovai davanti a un gran caseggiato, che loro chiamavano scuola. Capii che dovevo obbedire e stare zitta; io ero obbediente per natura e non parlavo mai, quindi non ci fu bisogno di raccomandazioni. Osservavo senza chiedere perché mi trovassi in quel luogo. Mi ritrovai nella prima elementare con tante altre bambine e me ne stetti tranquilla seduta al mio banco, non sapendo che cosa mi avrebbe riservato la vita da quel giorno in poi. Ci fu un particolare decisamente importante: fu quando la maestra col viso d’angelo, (un donnone di almeno un quintale) , mi si avvicinò, mi prese la matita dalla mano sinistra e me la strinse nella mano destra, dicendomi di fare le aste con quella mano perché la mano mancina non era fatta per scrivere. Obbedii e mi impegnai talmente tanto che divenni ambidestra in men che non si dica.
Passò il tempo e venne il freddo di dicembre, e benché il filo fosse di lana, calda e pungente come le calze sferruzzate da mia madre, che continuavano a farmi grattare per tutto il tempo che le indossavo, io non mi lamentavo mai. Ero sempre dietro a scrivere e disegnare, ligia ai doveri di scolara . Per il Santo Natale sapevo appena leggere e scrivere poche parole. Scrissi la mia prima letterina a Gesù Bambino, sotto dettatura della maestra, ma non chiesi molto; ricordo vagamente ciò che ricevetti quell’anno per la Befana (sì, perché al Sud è la Befana che porta dolci e regali). Ma ricordo benissimo mio padre, che era sempre in viaggio in quel periodo dell’anno, per lavoro, come maestro norcino, aveva l’obbligo di “scannare” i maiali che ogni persona benestante aveva allevato e nutrito con “l’acqua lorda”, sorta di risciacquo di piatti sporchi di sugo e qualsiasi genere di resti commestibili con crusca e pane secco, cibo consono per fare ingrassare la bestia che per quasi un anno ognuno aveva gelosamente accudito.

“Nuova maestra, nuova scuola, prima poesia ” …

Quando tornai a scuola dopo l’Epifania, ci fu la novità della nuova maestra, che si chiamava Michelina Lomonaco, una signorina magra e trasparente se messa a confronto con quella che avevo avuto per i primi mesi: lei fu la mia maestra per tutti i cinque anni delle elementari. Era brava e la ricordo con affetto. La prima cosa che decretò fu di esprimerci solamente in italiano, cosa che feci obbedendo sempre e comunque, ma col tempo me ne pentii amaramente, poiché divenni incapace di formulare una frase in dialetto.
Ma al rientro dalle vacanze avvenne anche il cambio di scuola, che non era più situata vicino casa, ma distava all’incirca un chilometro, e dovevo attraversare la strada principale per recarmici; venivo accompagnata da mia sorella Angiòla, più grande di me di cinque anni, (in realtà si chiama Angela, ma all’anagrafe la registrarono con quella variante!).
Era una bellissima ragazza con bellissimi capelli neri sempre ben pettinati in una lunga treccia; era l’artista di casa, aspirante ballerina e diva. Credo fosse realmente capace di ballare, ho un ricordo vago, ma ancora in mente, di lei che danzava e contorceva le mani come le flamengueras spagnole, accompagnandosi con il tipico suono del tamburello fatto con la bocca per mantenere il ritmo. Mi ha raccontato recentemente che un produttore cinematografico l’aveva contattata per farle fare un provino. Ma tutto passò sotto silenzio, mio padre e i miei fratelli l’avrebbero “ gonfiata” di botte se si fosse permessa di inseguire il suo sogno e fu così grande la delusione per aver riposto i sogni di notorietà nel cassetto che ebbe una crisi mistica e pensò di farsi suora e chiudersi in un convento, ma l’idea abortì ben presto: mio padre provvide a farglielo passare con qualche scapaccione. Crescendo, divenne una bella signorina, aveva una discreta predilezione per il vino, rimanendo però sempre sobria e ricordo che una notte d’estate al rientro a casa, mentre tutti incominciavamo a prepararci per la notte , si precipitò ad aprire la madia dove mia madre teneva tutte le vettovaglie e dove la mattina aveva pregato mia sorella di sistemare i fiaschi del vino zibibbo e dell’olio, che un fornitore ci portava da un paese vicino. Senza esitazione prese il primo fiasco che lei stessa aveva posizionato, ci si attaccò e incominciò a bere, tracannandone diversi sorsi; non si avvide che stava bevendo l’olio e fu così che passò le ventiquattr’ore successive a vomitare e a correre in bagno.
Nostra madre aveva riordinato la dispensa invertendo l’ordine dei fiaschi, pensando a preservare l’olio da cadute malauguranti secondo le credenze della tradizione popolare.
Fu Angiòla che pazientemente mi fece apprendere la mia prima poesia: la ricordo ancora perfettamente, benché siano passati più di sessant’anni da quel giorno.
“ La volpe e i tre pulcini “
Tre pulcini andando a spasso
incontrarono una volpe
che venendo passo passo
leggicchiava il suo giornale .
Buona sera miei pulcini
e di bello che si fa …
Giacché mamma
é andata fuori
siamo usciti dal pollaio
per andar di qua e di là.
Bravi bravi per davvero
voglio stringervi la mano,
e dicendo si appressò
e glú glú se li mangiò…
“Beati gli anni innocenti “
Il mio settimo compleanno fu spensierato, ricevetti in regalo degli zoccoli di legno pitturati di blu, decorati con un piccolo fiore di pannolenci: un regalo che mi fece molto felice. Passai le giornate a fare bagni al mare con una bella e prosperosa signorina di Molochio, Anita Cosentino, che mi faceva galleggiare portandomi al largo sulle sue gambe grosse e robuste; era venuta a passare le vacanze dal suo paese, alloggiando presso una sua amica, figlia dei signori Giugni; ne serbo un vago, ma piacevole ricordo.
E ci furono giornate passate in campagna con i miei genitori. Partivamo la mattina all’alba, con il calesse trainato da un bellissimo cavallo bianco; mio padre mi faceva sedere tra loro due e mi sosteneva per non farmi sballottare, mentre io tenevo tra le braccia il mio cane. Arrivati in campagna, a “ Castrocucco” (ignoro l’origine di quel nome), i miei incominciarono ad occuparsi ognuno delle proprie incombenze: mio padre, ancora forte e possente, zappava la terra, mia madre raccoglieva fagiolini, pomodori, insalate e tanta frutta matura e le depositava in grosse ceste, mentre io giocavo con il mio cane e correvo felice e spensierata. Non ricordo come fu, ma il cane si mangiò il fiore di un mio zoccolo, e io, presa dalla rabbia, lo usai per picchiarlo in testa. All’imbrunire cercai invano lo zoccolo, ma non lo trovai. Era il momento di ripartire, ma io piangevo perché non trovavo quel dono che mi era tanto piaciuto; mio padre mi chiese di raccontargli che cosa fosse accaduto nel lasso di tempo trascorso a giocare col cane. Gli spiegai che avevo picchiato in testa Lulù per ciò che aveva fatto. Allora mio padre incominciò pazientemente a rastrellare il terreno che aveva appena sarchiato e smosse tutta la terra, finché non trovò i miei adorati zoccoli e mi spiegò che, avendo picchiato il cane con quelli, la bestiola si era vendicata nascondendoli. Imparai che i cani hanno un’intelligenza molto sviluppata.
Passò la primavera e venne l’estate e compii il mio ottavo compleanno.
Arrivò il momento di tornare a scuola, entravo in terza elementare, e mi appassionavo per la geografia, la storia, e l’italiano, ormai scrivevo perfettamente e leggevo ogni cosa mi capitasse sotto gli occhi. Mi piaceva imparare ed ero curiosa di scoprire tante cose nuove. Eravamo già a Natale e scrissi una letterina a Gesù Bambino, promettendo di essere brava e buona e di non fare capricci.
Si sa che i doni per i bimbi arrivano il 6 gennaio con la Befana e con trepidazione appesi la calza ai piedi del letto. Speravo di ricevere un bambolotto per poterci giocare nei momenti tranquilli e solitari della giornata. Con le numerose pezze colorate che mia sorella Carmela aveva nel suo cestino da cucito pensavo di cucire i vestiti da fargli indossare.
Andai a dormire e non vidi né sentii nulla fino al mattino. Quando ormai faceva giorno e mi svegliai, guardai la calza, ma conteneva solo leccornie, torrone caramelle e cioccolatini; accanto trovai una pila di quaderni, matite colorate, penne, righello, squadra, compasso, gomme per cancellare e altri vari oggetti, che erano sì dei bei regali, ma non erano ciò che aspettavo. Stavo per piangere, avevo il broncio. Mi si avvicinò mia sorella Angiola e mi disse che non avrei dovuto piangere, che la Befana non esisteva e che erano mamma e papà a portare i regali ogni anno in quella notte. Sentendo quella notizia, dimenticai il mio disappunto per non aver ricevuto quello che desideravo. E incominciai a piangere disperata, volevo la Befana, volevo che
esistesse e ritornasse a trovarmi. Piansi a grosse lacrime per averla persa e singhiozzai per tutto il giorno, ma i bambini passano dal pianto alla gioia senza ricordarsene e senza portare rancore: quel 6 gennaio divenni orfana della Befana, ma non portai il lutto.
Al termine dell’anno scolastico tutte le maestre avevano organizzato un sorteggio per i bambini meritevoli, e con grande piacere ricevetti un piccolo bambolotto che chiudeva e apriva gli occhi come premio per la mia diligenza e bravura. Certamente non era quello che avevo chiesto alla Befana, ma ne fui felice e passai il tempo delle vacanze a cucire vestitini, fargli il bagno e preparare il suo battesimo come facevano gli adulti.
Quel mese di luglio compii 8 anni e, come tutte le estati si andava al mare, ci si cuoceva la pelle dei piedi a saltellare sulla rena fine bollente .
E sperimentai la cottura dell’uovo alla piastra !. La cottura consisteva nel cercare un ciottolo piatto e liscio grande come una mano, sciacquarlo nell’acqua del mare, metterlo al sole cocente e a mezzo dì, quando il sole rovente aveva ben scaldato la superficie, rompere sopra l’uovo e gustarlo col pane ! . Una vera genialità. Avevo inventato la piastra solare a 8 anni, ma siccome nessuno e, nemmeno io sapevamo che esisteva un modo per brevettarla, l’invenzione passò nel dimenticatoio.
Passai agosto spensierata e felice, arrivò settembre e mi ritrovai con una strana malattia, per la quale il dottor Lanza, visto che non mi lamentavo, cercava indicazioni battendo due dita sul pancino dolorante e mi chiedeva se avessi un fico d’india sul punto che toccava. Appurato che si trattava sicuramente di un’occlusione intestinale, fui costretta ad ingurgitare migliaia di cucchiaiate di olio di ricino ! A prescindere dall’esito, arrivò il 1 ottobre e mi ritrovai in terza elementare, con la maestra Michelina sempre più esile, con sempre più fili grigi nei capelli e sempre più illibata.
Quell’inverno fu particolarmente rigido, ci fu una grande moria di animali, vidi mio padre preparare bracieri improvvisati muniti di manici per appenderli al soffitto per scaldare la stalla. E io che seguivo alla lettera tutto ciò che faceva, pensai di fabbricarne uno. Ripetendo i suoi gesti, cercai prima un grosso barattolo di latta, trovai un grosso chiodo e con una pietra feci due buchi opposti, infilai del filo di ferro a mo’ di manico e, orgogliosa del mio operato, la mattina seguente, prima di andare a scuola, depositai tre tizzoni ardenti nel braciere improvvisato, li coprii con della cenere, come avevo visto fare tante volte a mia madre, e partii, arrivata a scuola depositai il mio scaldino sotto il banco. Il tepore che emanava era piacevole.
Quasi un’ora dopo un olezzo di pomodoro bruciato incominciò a spandersi nell’aula! Io, ignara che quell’odore provenisse dallo scaldino improvvisato, non ci detti importanza. Vidi la maestra Michelina alzarsi in piedi e come un razzo si fiondò vicino al mio banco, facendo un cenno verso il barattolo, mi interrogò chiedendo: Cosa sarebbe questo?”; Io ingenuamente le risposi: “Ho portato il caldo per tutte le mie amiche, fa così freddo!”; Apriti cielo! Con velocità supersonica mi confiscò il corpo del reato portandolo fuori in cortile, tornò indietro e, prendendomi per mano, mi portò per direttissima dal preside . Dopo aver confabulato tra loro, visto che incominciavo ad avere problemi di udito, non capii molto dei loro discorsi, ma seppi, dopo essere tornata in classe, che avrei dovuto scrivere per punizione cento volte “ Non si porta il fuoco in classe, é pericoloso per te e per gli altri “. Fine dell’avventura!
Durante l’inverno tutte in classe ebbero i geloni! Io no, ma un’ennesima otite mi fece soffrire tantissimo, passai quasi tutto l’inverno con un “ maccaturo” legato sopra la testa e mi faceva sembrare un uovo di Pasqua, partiva da sotto il mento e mi copriva le orecchie per proteggerle dal freddo .
Arrivò finalmente la primavera e a giugno fui promossa.
Finalmente iniziò l’estate, compii dieci anni e il sole splendette nel cielo senza nuvole.
Durante le vacanze, arrivò a casa nostra mio cugino Pino da Ventimiglia in compagnia di suo cugino Cino Tortorella detto Mago Zurlì, erano due bei ragazzoni pieni di salute, educati. Per ringraziare mia madre dell’ospitalità ricevuta il Mago Zurlì mi mise in mano una carta che non avevo mai visto, la mostrai a mia sorella Carmela che la ” stipò “ per me, seppi in seguito che erano “ cinquemila lire” ; . Con quei soldi pagò i biglietti del treno e mi portò da un dottore otorinolaringoiatra a Sapri cittadina di un’altra regione limitrofa. Diagnosi : inizio precoce della sordità e progressiva perdita dell’udito!. Non mi fu comunicato nulla di quella visita e continuai ad avere difficoltà nel sentire i suoni gravi. In quell’occasione comprò per me la stoffa per un vestito nuovo . Intanto il tempo scorreva veloce.
Arrivò anche il primo ottobre e ritornai a scuola, passarono i mesi e mi appassionai a “ Carlo V “e alle sue gesta, la maestra Michelina dette un compito sul mio eroe, mi scatenai, scrissi, cancellai, riscrissi e, feci talmente bene il compito che l’indomani quando consegnai il foglio con la dissertazione, la maestra esclamò : ”Non può essere tutta farina del tuo sacco “; al che, offesa, replicai che non ci avevo messo nessuna farina, solo la cenere per asciugare l’inchiostro!
Capì che ero sincera e mi dette 10 più come voto. Fui di nuovo promossa. Fu dopo questo episodio che iniziai ad appassionarmi alla scrittura.
L’estate la passai tutto il tempo a leggere Topolino, Paperino, Pedrito el drito, Nembo Kid, Tex e altri giornalini che ogni giorno si accumulavano.
Quell’anno passò in fretta e mi ritrovai in quinta elementare, mi piaceva andare a scuola, mi appassionai alla geografia e guardando una grande carta geografica appesa al muro della scuola avevo imparato che Venezia era a destra dello stivale e Torino a sinistra delle Alpi, e che il mio paese si trovava alla punta dello stivale.
Durante le vacanze giocavo con le amiche, quasi tutte più grandi di me. Abitavamo da sempre sotto il santuario della Madonna della Grotta, in fondo alla strada c’era il ponte di ferro dove passavano sferragliando i treni provenienti dal fondo dello stivale diretti al Nord e quelli provenienti dal nord per andare al Sud. Insomma un viavai di interminabili vagoni che turbavano la quiete e il sonno di chi abitava vicino alla ferrovia.
Tra due case c’era un tetto spiovente in cemento molto basso e liscio, tutti facevano a gara a chi riusciva a scivolare giù senza finire con il naso contro la fontana di ferro che colava giorno e notte, ubicata proprio sotto lo scivolo. Per non essere da meno degli altri bambini che coraggiosamente scivolavano giù come il vento, provai ad imitarli, fu un’emozione fortissima , ma traumatizzante per me, mi ritrovai con il naso spiaccicato che colava sangue come la fontana . Tornai correndo a casa, mia madre si mise le mani ai capelli urlando: “ Gesù, Gesù “ ; ma totalmente incapace di cercare di arginare quel fiume rosso. Fu “ Donna Ninetta “ la nostra vicina di casa che mi mise un panno bagnato con acqua fredda sul collo. Intanto avevo certamente perso qualche litro di sangue perché collassai e restai inerme per quasi mezz’ora. Da quel giorno, quasi ogni due settimane avevo di queste perdite abbondanti dal naso. A nulla valsero le visite del dottor Lanza dai capelli candidi come la neve. A proposito, grazie al dottor Lanza imparai che l’igiene e la pulizia erano importanti, lui che aveva l’abitudine di mandare alla fontana del paese per fare rifornimento d’acqua la sua cameriera con un cesto pieno di bottiglie di vetro munite di tappo per evitare che entrassero polvere o animaletti .
A fine giugno avevo terminato la scuola primaria, fui di nuovo promossa.
Il mio compleanno era alle porte e un giorno mio padre mi prese per mano e mi accompagnò in un’altra scuola, che non sapevo nemmeno esistesse. Era l’istituto tecnico professionale, mi iscrisse al primo anno . Passò l’estate e, il primo giorno di scuola, mi ritrovai con una cartella piena all’inverosimile di libri, quaderni e altro materiale didattico . Non c’era più la solita maestra, ma tanti professori per altrettante materie. Prediligevo ed ero brava a disegnare nature morte. C’era poi il professore di “ lingua francese “ di cui ero affascinata. Non so se sia stata una coincidenza, ma quegli anni passati a studiare quella lingua, alla fine mi tornarono utili in seguito.
Imparai a ricamare, fare la maglia, l’uncinetto, cucire, pitturare. Mi appassionai alla biologia.
C’era anche l’educazione fisica; e dietro richiesta della professoressa, avrei dovuto comprare un paio di scarpe da ginnastica. Andai con mia sorella nel negozio di Nicodemo, venditore di scarpe in via Luigi Giugni, mi fece provare molte scarpe, ma a me piacevano dei sandali bianchi con le stringhe a mo’ di calzare romano, insomma dopo aver provato e riprovato scarpe che non mi andavano o non mi piacevano, riuscii a farmi comprarne un paio che nulla aveva a che fare con calzature da ginnastica.
Difatti alla prima lezione di sport e precisamente di salto in alto, quando fu il mio turno, fiera di esibire quei sandali meravigliosi, mi lanciai prendendo la rincorsa, ma restai appesa con la punta del sandalo infilata alla sbarra e con una stringa irrimediabilmente rotta.
Fine dell’epoca romantica dei miei sogni.
“ Bene o male “
Bene, perché ero volenterosa di apprendere, male, perché seguivo con difficoltà i vari professori , perché non sentivo molto bene le loro spiegazioni. Quello che mi salvò dalla bocciatura fu la mia facoltà di memoria ottica e seguendo con attenzione il labiale riuscivo ad ovviare alla lacuna acustica.
Ed ecco ottobre alle porte, avevo undici anni e incominciai il secondo anno di avviamento professionale, ormai avevo escogitato un metodo di apprendimento degno di un premio Nobel, arricchivo con la lettura la carenza dell’udito, leggevo e rileggevo le pagine per capire e dare una spiegazione valida, se fossi stata interrogata.
Passarono i mesi, eravamo quasi sotto le vacanze di Pasqua.
Durante l’intervallo della mattina, due compagne di classe più grandi di me, Marisa Gatto e Elisabetta Zelfino, mi invitarono ad accompagnarle nei bagni per fare da palo! Quando quelle uscirono e venne il mio turno, ora che scrivo non ricordo più chi me lo chiese, una delle due mi domandò : “ Ma tu ce l’hai le tue cose ? “, spiazzata da quella domanda alla quale non sapevo dare una risposta , replicai: “ Le ho lasciate a casa “; non sapendo minimamente a che cosa si riferissero… le loro risatine di scherno mi perseguitarono per tanto, tanto tempo !!!.
Durante le vacanze di Pasqua, successe un fatto strano che mi lasciò alquanto stupita e disorientata; un pomeriggio ero con alcune amiche di scuola a casa nella mia camera, ad un tratto una di loro, che non mi ispirava molta simpatia, ma che tolleravo, s’impadronì di un oggetto che mi apparteneva; io, avendola vista nasconderselo in tasca, mi avventai su di lei, ci azzuffammo e, infuriata l’accoppai, ci ritrovammo stese per terra mentre io insistevo che mi ridesse ciò che m’apparteneva. Dimenandomi sopra di lei per vincere e farmi restituire il maltolto, sentii un rimescolio tra le gambe, una sensazione strana e inattesa, qualcosa di ancora sconosciuto per me. Mi rialzai scarmigliata e stupita di questo fatto, ma, non capendo quello che mi era successo, restai in silenzio e quasi vergognosa di essermi lasciata andare. Dimenticai l’episodio per molto tempo, ma seppi anni dopo, ormai sposata, di aver avuto il mio primo orgasmo.
Il tempo passava lento, ero sempre con un libro in mano, che fossero giornalini o libri di scuola, fui di nuovo promossa, in breve tempo fui pronta per i miei 12 anni..
Però mi ripresi dalla mia ignoranza in materia di quella frase “ Ma tu c’é l’hai le tue cose ?” , quell’anno stesso ad agosto.
Quella splendida mattina era il 10 agosto, giorno di San Lorenzo, mi alzai, andai in bagno e vedendo le mie mutandine macchiate andai di corsa da mia madre dicendole che mi ero sporcata. Mia madre con la sua flemma mi disse solo: “Ora sei diventata signorina e non ti devi far toccare dai ragazzi!”
A parte il fatto che io dai ragazzi non accettavo neanche che mi toccassero la mano, nei giorni seguenti rimembrai quelle parole con un punto interrogativo “Perché?“. Ne sapevo ancora meno di prima, ma presi con filosofia il fatto strano di quelle perdite, che prima mi uscivano dal naso e ora avevano trovato un altro pertugio!…
Avevo dodici anni, ero diventata signorina, il mio corpo era cambiato.
Crebbi poco di altezza, ma crebbero smisuratamente le tette e mia madre provvide a comprare un ”reggipetto“ per me. Era di colore celeste e mi obbligava a indossarlo, per me era un’agonia sentirmi legata come un salsicciotto. Come svoltavo l’angolo mi infilavo in un portone per togliere quella tortura finché non tornavo a casa.
Avevo capelli biondo-castani pettinati in due lunghe trecce, non ero cosciente che il mio corpo attirava gli sguardi dei ragazzi, per me non esistevano, la mia vita era sempre la stessa. Un pomeriggio di fine settembre stavo giocando alla corda per strada, quando sentii un trillo di campanello e subito dopo mi sentii tirata per i capelli. Era Giovanni, un ragazzo più grande di me di qualche anno, che, passando in bicicletta, mi aveva strattonata per i capelli facendomi anche male. Io gli urlai dietro che gliel’avrei fatta pagare; abitava con i genitori e la sorella proprio vicino a casa mia. Aspettavo che tornasse indietro! Volevo farlo cadere dalla bicicletta per vendicarmi, ma cambiai idea di vendetta. Mi chinai e raccolsi un sasso piatto e rotondo come quelli che rimbalzano sull’acqua, lo tenni tra le mani e aspettai, sperando che mi venisse a tiro. Finalmente lo vidi tornare indietro, pedalava verso di me fischiettando allegramente e non si avvide che avevo tirato con forza il sasso verso di lui, con l’intenzione di colpirlo. Neanche se avessi preso la mira sarei riuscita a fare l’exploit di centrarlo in un occhio come capitò ! Ebbe un occhio pesto e nero per più di un mese. Da quel giorno mi evitò come la peste ! E fui felice di non vederlo più. Emigrò dopo qualche mese con tutta la famiglia a Milano.
“LA DONNA IN NERO E LA SPIA VENUTA D’OLTREOCEANO”
Dunque , come detto, quando venni al mondo, piccolo batuffolo roseo di quasi quattro chili, i miei genitori per mia fortuna scelsero come madrina di battesimo la soprannominata “Dama in nero” ,e come padrino il di lei consorte, due persone squisite e gravide di fortuna.
Difatti il giorno del mio battesimo mi misero nelle mani un libretto della ” CASSA DI RISPARMIO” a nome mio, conteneva un deposito di ben ” 350 lire ” cifra astronomica per quei tempi !!.
Il mio padrino, un siciliano alto e distinto signore ,originario di Carini, portava sempre un impermeabile impeccabile e un Borsalino grigio aveva un nome altisonante , Sebastiano De Lisi, con la sigaretta perennemente accesa a pendere dal labbro, somigliava straordinariamente a Humphrey Bogart: amava raccontare con dovizia di particolari la sua avventura americana come autista personale di Rodolfo Valentino, o Rudolph Valentino o semplicemente Rudy , nome d’arte di * * Rodolfo Alfonso Raffaello Pierre Filibert Guglielmi di Valentina D’Antonguella (Castellaneta, 6 maggio 1895 – New York, 23 agosto 1926) , fu un attore e ballerino italiano naturalizzato statunitense.
Terzo di quattro figli (Beatrice, Alberto e Maria erano i suoi fratelli), era nato a Castellaneta, in provincia di Taranto, da padre italiano, Giovanni Guglielmi di Valentina D’Antonguella, un veterinario ex Capitano di Cavalleria originario di Martina Franca appassionato d’araldica (i suoi studi lo convinsero d’essere imparentato a certi nobili papalini e decise, di conseguenza, di aggiungere al proprio cognome il titolo “di Valentina D’Antonguella”), e di madre francese, Marie Gabrielle Bardin, dama di compagnia della marchesa del posto.
Fu uno dei più grandi divi del cinema muto della sua epoca, noto anche per esser stato il sex symbol di quegli anni.
Il mio padrino invece di raccontarmi le favole, mi riempiva la testa delle strabilianti gesta di Rudy, come lo chiamava lui. E mi descriveva la favolosa casa comprata un anno prima della morte di Rodolfo Valentino, una sfarzosa villa sulla collina di Beverly Hills, battezzata “Nido del falco”. Secondo le poche fotografie scattate, essa era arredata sfarzosamente con lampadari di cristallo e tappeti di valore. La villa era circondata da un parco di circa sei ettari dove Valentino andava a cavallo, coltivando la sua passione nelle sue tenute. Ci visse solo un anno, fino alla sua morte * (biografia su Wikipedia).
Donna Emilia Pretto, la mia madrina, donna dal fascino innato, straboccante di signorilità e originaria di Vicenza, amava raccontare la sua vita americana, mi confidava e mi descriveva la sua storia con Rudy, storia vissuta clandestinamente senza mai essere stati scoperti .
Ogni giorno rievocava i ricordi cantando ” Non ti fidar di un bacio a mezzanotte”. Ascoltandola ogni giorno parlare di Rudy, non mi chiedevo mai il perché il mio padrino di origine siciliana non nutrisse gelosia per quel ballerino che aveva sedotto la moglie. Era una cosa naturale per loro, e io non mi posi mai domande al riguardo.
Quando usciva a passeggio, si pettinava i lunghi capelli color “Veronese ” in un complicato chignon tanto da parere una regina, e si vestiva accuratamente con abiti di seta; sopra indossava il ” paletot ” di panno morbido verde bottiglia, guarnito al collo di una pelliccia di volpe rossa, che la rendeva oltremodo affascinante. Aveva un solo difetto, e non se ne vergognava minimamente : sovente scoreggiava senza ritegno, lasciando dietro di sé un olezzo di cavolo, ortaggio di cui facevano largo consumo settimanale. Non se ne asteneva neanche davanti al Maresciallo dei Carabinieri che ossequioso le porgeva i suoi omaggi, però chiedeva scusa regalmente !
Versava sempre una lacrimuccia all’evocazione della morte di Rudy ,dicendo che era troppo giovane quando passò a miglior vita: si spense infatti all’età di trentuno anni al Polyclinic Hospital di New York, dov’era stato ricoverato per un malore dovuto ad un’ulcera gastrica, di cui soffriva da tempo e ad un’infiammazione dell’appendice. Colpito da un attacco di peritonite e sottoposto ad intervento chirurgico, tutto si rivelò inutile ed alle 12:10 del 23 agosto Valentino morì.
Negli anni a seguire, una misteriosa donna, velata di nero, continuò a portare dei fiori sulla sua tomba il giorno dell’anniversario della morte dell’attore.
Nonostante in molte si siano professate come la “donna in nero”, nessuna ha poi saputo comprovare la veridicità delle proprie parole e questa figura è tuttora avvolta nel mistero. Mistero che ha lanciato una sorta di tradizione, ancora viva adesso, che vede parecchie figure femminili ugualmente avvolte in veli scuri portare fiori sulla tomba di Valentino. La mia madrina mi mostrava sempre la veletta nera che indossava quando andava al cimitero sulla tomba di Rudy.
Dopo qualche anno dal decesso di Rudy, loro datore di lavoro, avendo fatto fortuna, erano tornati dall’America. E, arrivati al mio paesello, avevano aperto una fabbrica di “tagliamano” materiale di crine vegetale che serviva a fare corde per bastimenti e barche.
Erano reputati da tutti in paese persone benestanti.
Io ero fermamente convinta che il mio padrino fosse una spia, difatti ascoltava e seguiva attentamente, da uno strano aggeggio con scritto “onde medie” e ” onde lunghe ” che fischiava ad ogni giro di manopola, tutti i fatti che si svolgevano in Medioriente. L’epoca di cui descrivo i fatti era nel momento dei famosi “sette giorni” in Israele; dopo ogni comunicazione spariva per una settimana, e tornava con delle belle salsicce col finocchio, mozzarelle di Battipaglia, e deliziose sfogliatelle. Non ho mai capito perché mio padre non facesse come lui.
Per farla breve, comunicava con qualcuno in una lingua all’epoca per me sconosciuta, ma che risultò essere inglese, quando iniziai a studiare.
Vissero ancora per molti anni: lui passò a miglior vita a novant’anni, lei lo raggiunse a 107 anni…
Pace all’anima loro.
Una bella avventura !…
Ero diventata signorina da un anno, il mio corpo era cambiato, mia madre, felice di riciclare vestiti e scarpe delle mie sorelle, incominciò a trasformarmi, avevo tredici anni ma sembravo una ragazza più grande della mia età. Una domenica mi costrinse ad indossare un abito bianco a pois con una cintura stretta sui fianchi che faceva risaltare il mio seno come quello della Lollobrigida, in “Pane amore e fantasia “; mi disse di calzare le scarpe bianche riciclate di mia sorella, ed eccomi pronta per andare a Messa con lei. Mi sentivo un burattino, ero a disagio. Arrivate davanti alla chiesa, mi bloccai, volevo tornare a casa e cambiarmi d’abito e scarpe, ma lei dall’interno continuava a voltarsi per invogliarmi ad entrare. Il prete intanto aveva iniziato l’omelia. Alla fine mi feci coraggio e mi diressi verso il banco dove mia madre era seduta, il prete si zittì e tutti sentirono distintamente quando mi lanciai a passo marziale facendo rimbombare il ticchettio dei miei passi sul pavimento della chiesa. Non volevo farmi notare dagli altri fedeli, invece rimbalzai alla luce della ribalta attirando tutti gli sguardi verso di me…
Passò la vergogna di quell’episodio e dopo qualche mese tornai a scuola.
Quell’anno, come ricordavo da sempre, per il 15 agosto ci fu la processione della Madonna e tanti pellegrini arrivarono da paesi lontani per portare l’ex voto per grazia ricevuta con strani marchingegni chiamati “Cinte“, strutture fatte di candele, nastri colorati e fiori, che i miracolati portavano sulla testa. Da anni in quel periodo per tradizione mio padre preparava cibo cotto per i forestieri e per riceverli fabbricava un capanno fatto di canne, era un’oasi di frescura, dove era piacevole sostare e dove venivano serviti trippa e fagioli con il peperoncino, spezzatino d’agnello con patate e altre leccornie, il soffritto profumato d’agnello e del buon vino. Visto che gli affari andavano bene, mio padre ebbe la brillante idea di affittare un grande locale, per l’apertura della trattoria “AURORA“, cucina famigliare.
Un’attività molto redditizia perché si fermavano a mangiare tutti i camionisti che trasportavano merce come frutta e verdura verso il nord. Il pasto completo con pane, vino e servizio compreso costava 600 lire. Chi lavorava in cucina erano le mie sorelle, ognuno contribuiva a servire, si andava avanti bene.
Nella trattoria AURORA quell’anno fu installato il telefono a muro! Una novità tecnologica avanzata, era il terzo che veniva montato in paese e ogni vicino, curioso di questa invenzione, veniva da noi per cercare di capire come funzionasse. Come vicine avevamo due sorelle di mezza età molto simpatiche che vendevano stoffe, pizzi e merletti, un pomeriggio sul tardi venne una delle due a chiedere di telefonare al fratello che aveva una autorimessa. Io che arrivavo a malapena all’altezza per prendere la cornetta, salii su una sedia, feci il numero e scesi, lasciando la cornetta alla signorina e restai davanti alla porta ad aspettare che terminasse la conversazione.
Sentivo che parlava in modo concitato, ripeteva : “ Pronto, pronto, non ti capisco!“, più volte; allora mi voltai verso di lei, la scena che mi si presentò davanti agli occhi fu davvero comica, mi trattenni dal ridere per non offenderla e farmi considerare maleducata, perché trovare appollaiata sulla sedia una signora di mezza età, con la cornetta dove si parlava rovesciata sull’orecchio e quella per l’ascolto sulla bocca fu davvero esilarante! Le mostrai come posizionare il telefono, finalmente parlò concitata con il fratello, mi ringraziò gentilmente e, come se avesse compiuto una grande impresa, se ne andò a raccontare il riassunto della conversazione appena terminata alla sorella che pazientemente aspettava sulla soglia del negozio …
Una parte del locale servì a ricavare la macelleria di mio padre.
Lui, buon’anima, faceva credito a tutti e trascriveva su grandi fogli gialli nome e cognome e l’importo per ogni cliente; la lista era lunga, anche perché al primo “Biasì, metti in conto che poi passo!“ seguivano altre richieste di dilazione con quella frase che ricordo nitidamente. Questi micro-crediti contribuirono al suo fallimento e alla sua chiusura definitiva. Dopo questo fatto grave la pace in famiglia incominciò a scricchiolare .
Intanto in casa era un continuo bisticcio tra mio padre e mia madre, non capivo questo loro costante azzuffarsi. E una triste mattina di febbraio, come se fosse passato un uragano e avesse svuotato la casa, tutto era silenzioso quando scesi in cucina per il mio caffellatte, mia madre non aveva neanche preparato il suo caffè, non c’era nulla di pronto, ma soprattutto notai la sua assenza!! Mio padre non c’era, era partito per il Nord improvvisamente. Soffrii moltissimo per la sua partenza, ma ancora di più perché era partito senza salutarmi, senza abbracciarmi. Fui orfana di mio padre …
Sfortunatamente dopo la partenza di mio padre gli affari della trattoria andavano male e mia madre decise di chiudere l’esercizio. Nei mesi successivi restammo senza introiti quasi ridotti alla fame.
Passava il tempo bussando alla porta di tutti i debitori con quei fogli gialli per recuperare almeno qualche spicciolo.
Fu per me un periodo molto lungo e triste .
Terminai anche il terzo anno, fui di nuovo promossa, ma non sapevo minimamente cosa avrei fatto in seguito. Il mio punto di riferimento era mio padre, la sua partenza mi aveva disorientata, ero ancora troppo ingenua e ignoravo come prendere qualsiasi iniziativa per il mio futuro.
Passai l’estate a fare da baby-sitter a Cinzia, una bimba di due anni, figlia di una signora veneta sempre vestita di rosso che pedalava sulla sua bicicletta come un razzo e insegnava il rammendo nella fabbrica di tessuti RIVETTI, appena insediata in paese. Non avevo nessuna nozione di come trattare i bambini, ma fortunatamente riuscii a non farle accadere nulla.
Ad ottobre non ripresi gli studi, avrei dovuto recarmi tutti i giorni a Sapri e visto che non c’erano disponibilità finanziarie vi rinunciai. Mi mancava mio padre, ogni mio punto di riferimento era legato a lui. Ero persa senza i suoi consigli.
Mia madre per Natale mi fece scrivere ai miei fratelli che in epoche differenti erano tutti partiti per Ventimiglia, implorandoli di inviare dei quattrini per poter comprare il necessario alla nostra sussistenza. E un giorno di marzo arrivò mio fratello Rocco, il mio preferito. L’accogliemmo come fosse il messia, per qualche giorno avemmo di che sfamarci a sazietà.
D’accordo con mia madre decisero di far partire me e mio fratello più piccolo con lui per il Nord, mia madre sarebbe rimasta ancora al paese con la promessa che, appena celebrate le nozze di mia sorella Enza programmate per il 23 marzo, sarebbe partita anche lei per raggiungerci e riunirsi alla famiglia. Ed eccoci due giorni dopo sul treno che ci portava lontano da tutto quello che fino a quel giorno era stato il mio paese, la mia casa, le mie amiche, tutto ciò che conoscevo. Era il dieci marzo del 1960, avevo poco più di 14 anni. Il viaggio fu intrapreso la sera alle 21.15, salimmo dopo aver salutato mia madre e mia sorella Enza su quel treno che ci allontanava da ciò che conoscevamo e amavamo.

Di Rosa Cozzi
Da ” I miei primi vent’anni “
Diritti Riservati
Testimoni: D. Cordioli, M.Grossi e S. Candido