Produttività totale dei fattori a prezzi nazionali costanti per Italia (blu), Germania (rosso) e Francia (verde)

Se vuoi ridistribuire ricchezza devi produrla

Nei giorni scorsi un tweet pubblicato dall’economista italiano Fabio Ghironi dell’Università di Washington ha suscitato un certo dibattito. La discussione prendeva le mosse dal grafico sopra dal quale si dovrebbe evincere che la produttività di questo Paese nel 2019 (dunque prima del covid) è al livello di mezzo secolo prima, cioè del 1969. Basta guardare la linea blu. Siamo noi. Le altre due le ho messe io, giusto per provare ad aggiungere qualcosa, e rappresentano la Germania, linea rossa, e la Francia, linea verde. Che invece continuano a crescere anche dopo tale anno, come si osserva facilmente.

Cosa si intende per produttività? Ciò che spiega l’aumento di produzione non determinato dall’incremento dai fattori lavoro o capitale. Un altro modo di definirla è il rapporto tra output prodotto ed input utilizzato. Essa può essere calcolata a livello di impresa, di settore e di Paese e costituisce una misura della loro efficienza. Per esempio in termini di PIL/ore lavorate, ma esistono anche altri metodi.

Proviamo a spiegare meglio, semplificando un pochino.

Supponiamo che in tutta Italia esista una sola azienda la quale, a fronte di un certo impiego di lavoro e capitale (risorse naturali e finanziarie, macchinari, impianti, etc.) realizzi un certo numero di beni o servizi. Mettiamo, per esempio, che l’azienda impieghi 4 lavoratori e un macchinario per produrre 100 scarpe. In sintesi (non è una definizione tecnicamente precisa, ma serve a spiegare il concetto) potremmo dire che la produttività è pari a 25 scarpe per ogni lavoratore.

Poniamo ora che la stessa azienda assuma altri 4 operai e acquisti un ulteriore macchinario, uguale in tutto a quello precedente. Abbiamo così moltiplicato per 2 i fattori produttivi. Se adesso la nostra azienda invece di 100 scarpe ne fabbrica 200, la produzione risulterà duplicata. Ma la produttività media sarà sempre pari a 25 scarpe per ciascun operaio. Infatti dividere 100 per 4, o 200 per 8 dà lo stesso risultato. Ripetiamo: la produzione è il doppio di prima, ma la produttività non è cambiata.

Ora modifichiamo l’ipotesi. Mettiamo di sostituire i macchinari con altri più avanzati grazie al quale ogni singolo dipendente, a parità di tutto il resto, invece di realizzare 25 scarpe, nel medesimo tempo ne fabbrica 30. In questo secondo caso, non sarebbe solo la produzione complessiva ad aumentare, ma anche la produttività che crescerebbe di 5 scarpe a testa.

Facciamo un esempio diverso. Supponiamo che invece di ottenere più scarpe, se ne costruiscano sempre 25 per ciascuno ma migliori o più belle, più ricercate. Che si venderanno a un prezzo maggiore. Avremo comunque aumentato la produttività, in questo caso migliorando non la quantità ma la qualità.

Spero di essere chiaro. Perché la produttività è così importante? Perché nel lungo periodo è un elemento che influenza parecchio il livello di ricchezza e dunque il benessere di un Paese. E consente di creare le risorse economiche da ridistribuire e/o investire.

Quali elementi influenzano la produttività?

Primo. Nell’esempio ne abbiamo citato uno molto importante: la tecnologia. Il miglioramento della tecnologia (ovvero delle tecniche, dei procedimenti impiegati e delle conoscenze tecnico-scientifiche) accresce la produttività. È abbastanza intuitivo.

Secondo, il capitale fisico. L’insieme di tutte le risorse “non umane” come denaro, macchinari e immobili utilizzati per la produzione. Maggiore è la quantità di capitale fisico per ciascun lavoratore, più aumenta la sua produttività.

Terzo, il capitale umano. L’Enciclopedia Treccani lo definisce come l’insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità professionali e relazionali possedute in genere dall’individuo. Possono essere acquisite mediante l’istruzione scolastica, la formazione e attraverso l’apprendimento sul posto di lavoro. La qualità del capitale umano è fondamentale per il rendimento della prestazione erogata, dal manager all’operaio.

Quarto e ultimo, il capitale sociale qui inteso come il contesto che fa da sfondo all’attività economica: efficienza della burocrazia, del sistema legale e più in generale di tutto ciò che non è legato a lavoro e capitale. In pratica la condizione del “sistema-Paese”.

Tra i quattro elencati c’è un fattore più importante? A mio avviso sì ed è l’ultimo perché in pratica determina tutti gli altri.

Nel mezzo secolo alle nostre spalle Stati come Germania o Francia hanno continuato a migliorare la propria performance a differenza dell’Italia che è rimasta al palo. Dove sta l’origine della nostra anomalia? Quali cause hanno depresso una produttività bilanciando in negativo la crescita tendenziale dovuta al dirompente miglioramento tecnologico (dalle macchine per scrivere siamo passati ad internet, dall’operaio in tuta blu all’industria 4.0)? Qualcosa deve essere accaduto.

Invece di aggiustare il “sistema-Paese” abbiamo difeso le rendite di posizione di gruppi specifici e corporazioni varie a scapito del bene comune. Salvo rari tentativi di interrompere il processo di ossificazione complessiva, spesso sotto la pressione di shock o vincoli esterni. Ma si tratta di eccezioni. Positive, ma pur sempre eccezioni. Momenti isolati nei quali in Italia si è realizzato un vero patto sociale inclusivo.

Qualcuno il prezzo lo paga. Soprattutto i gruppi meno capaci di farsi rappresentare, come ben descritto da Luca Ricolfi nel saggio del 2019 “La società signorile di massa”. A cominciare dai giovani, che sono sempre meno e quando possono se ne vanno. Chissà come mai…

Il motivo per il quale ci siamo ridotti così non dipende né dal livello di protezione sociale, che risulta sufficientemente robusto anche nelle due nazioni citate, né dall’appartenenza all’UE o dall’adesione all’euro, dato che altre 18 nazioni lo utilizzano come valuta corrente senza lamentarsi troppo.

A condurci verso il declino è stata la fuga dalla responsabilità compiuta nel corso di cinque decenni, sotto l’egida di governi assai diversi per composizione, orientamento e presidenza, a partire da Mariano Rumor per finire a Giuseppe Conte. Vedremo cosa succederà con il super-tecnico Mario Draghi e l’eterogenea maggioranza parlamentare che lo sostiene. Per ora.

Nel primo dopoguerra gli italiani usciti a pezzi dal conflitto seppero ricostituirsi e in poco tempo realizzarono un miracolo ottenuto con serietà, sudore e grazie ad una crescita senza precedenti dell’industria. Malgrado il contesto politico risultasse pervaso da divisioni profonde, lo sforzo collettivo consentì di raggiungere traguardi significativi nell’ambito di un contesto ordinato. Proviamo a guardare nuovamente il grafico in cima e vedremo che sul finire degli anni ’60 andavamo ancora molto bene. Anzi, potevamo passare in testa di lì a poco.

Ma dopo il 1968 qualcosa si rompe. Accanto ad alcune indiscutibili conquiste sociali, abbiamo preso a realizzare in misura crescente anche politiche di corto respiro, demagogiche, mascherate da logiche redistributive, non di rado giustificate da interpretazioni assai eccentriche delle teorie economiche keynesiane. Si avvia un processo involutivo basato più sulle furbizie e meno sui comportamenti virtuosi del periodo precedente. La solidarietà tra le diverse componenti della società inizia a indebolirsi in favore degli interessi organizzati.

Il tutto condito da abbondante vittimismo nei confronti del mondo esterno, che si manifesta in modo via via più insistente dall’inizio del secolo attuale, ovviamente senza tenere in alcun conto il fatto che ormai da anni esportiamo più di quanto importiamo. Malgrado l’euro, la globalizzazione e l’immancabile neoliberismo. In realtà pochi dei nostri problemi vengono da fuori, anche se crederlo ci fa comodo per non dover cambiare nulla.

Luigi Marattin, presidente della Commissione Finanze della Camera e docente di economia politica a Bologna, riprendendo il tweet del professor Ghironi, ha messo in luce i trucchi adottati in questa lunga e declinante transizione per sfuggire ai conti con la realtà: inflazione e svalutazione negli anni ’70, aumento del debito pubblico negli anni ’80, sperpero dell’abbattimento dei tassi sul debito pubblico ottenuto grazie all’adesione all’euro negli anni ’90.

Concludo. Oggi abbiamo la grande opportunità costituita dal recovery plan, il fondo europeo per la ripresa, e dal sostegno che la BCE continua a fornirci acquistando i titoli di Stato italiani a prezzi politici grazie al quantitative easing. Si tratta di risorse più che abbondanti, mai viste in tale misura nemmeno in occasione del Piano Marshall. Che ne direste di sprecarle? Vi piace l’idea?

Se non vi piace, allora dobbiamo evitare come si trattasse di una brutta malattia l’errore di ritenere che questa imponente mole di denaro, in larga parte da restituire, possa essere impiegata senza mutare nulla del quadro attuale. I soldi andranno investiti, soprattutto in educazione, sanità, trasporti. Ma servono anche le riforme per spezzare le rendite a vantaggio della crescita complessiva dell’Italia e, all’interno di essa, delle fasce realmente più svantaggiate. Di ciò si tende a dibattere meno e mal volentieri.

A parole affermiamo di voler garantire la sostenibilità sociale e ormai anche quella ecologica, oggi particolarmente avvertita. Che però assorbono capitali difficili da trovare se non si aggiunge contestualmente anche la sostenibilità economica, la terza indispensabile gamba del nostro traballante tavolino chiamato Italia. Per tali ragioni lo Stato va ammodernato, in modo che ritorni ad avere una produttività crescente, in linea con gli altri Paesi evoluti.

Se vuoi ridistribuire ricchezza, e non miseria, prima o poi dovrai anche generarla.