Mi chiamo Mario. Ho 44 anni. Sono laureato in scienze politiche. Faccio l’operaio da anni nella stessa azienda. Tutte le mattine vado al lavoro a piedi che ci sia il sole o che piova. Tutte le mattine e i pomeriggi allo stesso posto nello stesso capannone della stessa zona industriale. Una vita monotona. Sempre assorto nei miei pensieri. Sono una biglia finita fuori pista. La ditta dista un chilometro da casa. Ho occhi a mandorla marroni ed inespressivi, sopracciglia folte e non curate; sono calvo, ho qualche brufolo, la barba sempre incolta,  mi mancano sei denti; gli altri sono gialli a causa dei troppi caffè e sono in sovrappeso di dieci kg.

 Nel tempo libero adoro camminare e andare in bicicletta. Mi piace camminare su strade accidentate. Se fosse per me si farebbe tutti come in Olanda: tutti con le biciclette, anche se lì hanno avuto qualche decennio fa contestatori giovanili come i Provos, che hanno influito sulla politica delle città, sul traffico, sulle abitudini di vita. Trovo che il mio lavoro sia alienante ma non perché non prendo parte a tutto il ciclo di produzione come intendeva Marx. Lo trovo alienante perché è ripetitivo e devo fare sempre gli stessi gesti. Anche se fossi un artigiano che crea totalmente un utensile mi sentirei alienato. Trovo che il lavoro manuale sia alienante. Mi piacerebbe creare con la mia mente. Inventarmi storie oppure disegnare. Allora mi sentirei veramente autorealizzato. Sul lavoro inoltre ho un pessimo rapporto con il mio capoofficina. Mi fa delle sfuriate. Mi umilia di fronte ai colleghi. Non lo sopporto. Il mio capoofficina si chiama Elio. Ha 53 anni, una moglie, due figli che studiano ingegneria. Mi tratta come uno schiavo. Devo sempre fare finta di pendere dalle sue labbra. È insopportabile. È intrattabile. È il classico individuo caratteriale. Talmente metodico e preciso da rasentare la patologia. Sento il suo fiato sul collo ogni giorno ossessivamente. È il classico cattolico praticante. Tutto casa e chiesa. Sono costretto a tenere tutto dentro. Tutto avviene senza una tregua. È il mio aguzzino, che mi sottopone a vessazioni ed angherie. Tutto questo senza alcun motivo apparente. Forse mi invidia perché non ho famiglia e sono libero. Forse gli sto antipatico per non so quale ragione. Futili motivi insomma. Non ha comunque diritto a delle attenuanti generiche. Aggredirmi senza una ragione plausibile è una aggravante. Sono succube, soggiogato. Mi salvano gli antidepressivi e gli ansiolitici. Mi salva la famiglia. Non trovo un senso a questa persecuzione. La mia vita è andata a male. Io mi sento inutile come un agrume già spremuto. Mi sento fuori luogo, sempre sfasato. Ma ora una breve considerazione sulla fede del mio capoofficina. I bigotti e le bigotte pensano solo alla loro salvezza, alla loro sorte ultraterrena. Chi è vero credente invece dovrebbe pensare non solo a se stesso ma anche ai grandi peccatori, a coloro che rubato o uccidono. Come faceva Santa Caterina da Siena ad esempio.  Se ciò non avviene si tratta solo di egoismo e basta. Le preghiere dovrebbero essere disinteressate. In fondo la Madonna nelle sue apparizioni non dice sempre ai veggenti di pregare per l’umanità e il mondo intero? Chi crede davvero ama disinteressatamente l’umanità e dovrebbe cercare di vedere in ognuno non dico Cristo (perché sarebbe troppo) ma dovrebbe vedere in ognuno il suo lato umano. Se la fede non fa riscoprire l’umanità degli altri allora forse è meglio non credere. Per quel che mi riguarda non sono credente per ora. Domani si vedrà: per molti questa frase è un semplice modo di dire, per me invece è una filosofia di vita.

Mi chiamo Elio. Ho 53 anni. Sono un capoofficina di una ditta. Sono divorziato. Ho due figli che studiano ingegneria. Soffro di attacchi di panico. Ogni volta il cuore mi batteva all’impazzata, pensavo ad un attacco di cuore e chiamavo subito l’ambulanza. Mi facevano l’elettrocardiogramma ma mi dicevano che non era niente. Questo accadde molte volte. Poi una volta il mio cuore iniziò a battere forte e pensai che era un attacco di panico. Invece era un infarto. Per fortuna mi salvai in extremis. Un poeta sconosciuto sosteneva che l’infarto è la morte degli eroi. La morale risaputa è che in un modo o nell’altro il nostro corpo si guasta e non c’è via di scampo. La verità è che si può solo rimandare l’irreparabile. Sono una particella nel pulviscolo: niente di più. Sono una nebulosa informe di sensazioni. Dopo l’infarto il padrone dell’azienda mi ha proposto di lavorare come impiegato, visto che sono ragioniere. Però si tratterebbe di lavorare gomito a gomito con la sua amante, di cui sono stato segretamente innamorato. Sarebbe una sofferenza interiore atroce. Non voglio riaprire una ferita ormai risarcita. Sarebbe troppo il dolore. La mia è una “vita agra”come quella di Bianciardi. Forse peggio perché lui faceva il traduttore, che era fatica ma anche intervallata da sprazzi di autentica gioia. Poi lui viveva a Milano ed io in provincia.  Sono anticomunista. Una cellula di aspiranti brigatisti mi odia a morte. Mi sono accorto di essere attenzionato. Sono dei giovinastri estremisti e violenti. Sono loro gli esagitati. Mi seguono, mi pedinano. Studiano le mie abitudini di vita. Tutto questo perché esprimo le mie idee politiche nel paese e fino a poco tempo fa collaboravo gratuitamente con un sindacato, in cui sostenevo tesi controcorrente. Il capo di questi facinorosi è un mio operaio, che si chiama Mario ed ha 44 anni. È laureato in scienze politiche e gioca a fare il rivoluzionario sulla mia pelle. Non ne sono certo ma quasi. Lui non mi ha mai pedinato perché ha i suoi scagnozzi. Sto male per questo. Malissimo. È una picchiettatura continua nell’animo. Sul lavoro non transigo. Mario dovrà sopportare i miei rimproveri, anche se ho paura di lui. Vorrei raccontarvi una storia strampalata con una trama avvincente. Invece c’è poco di originale nella mia vita: sempre le solite cose. Faccio i salti mortali per tirare a campare. Nessun trucco, nessuna meraviglia, nessuna finzione. Il mio lavoro è stress e fonte di sostentamento: croce e delizia. Volevo cambiare lavoro ma non ci riesco. Avevo pianificato di cambiare città ma non ci riesco. Trovo impossibile andarmene. Ho paura. A volte è inutile pianificare, rischiare, azzardare. Tutto spesso avviene inconsapevolmente. La mia vita è una truffa. È da tempo immemorabile che aspetto un colpo di scena, che non arriverà mai. Se la mia vita è un film…è un film male interpretato da tutti. Riuscirò a superare tutte le avversità e le contrarietà? Al momento non so rispondere a questo interrogativo. Per fortuna che c’è il mio materasso pieno di acari. È la solita routine. Alla mattina presto solito cappuccino al solito bar perché lo fanno con il latte fresco intero, a differenza di certi locali che lo fanno con latte parzialmente scremato a lunga conservazione. Bevo il solito bicchiere di vino rosso la sera. Un poco di musica jazz in sottofondo a basso volume mi concilia il sonno. Mi corico per affrontare domani un nuovo giorno. Non mi interessa immaginarmi uno scenario apocalittico. Mi basta già il mio inferno terreno. A volte penso che vivo senza esistere e invidio le cose che esistono senza vivere: la sofferenza è solo umana. A volte penso questo. Forse è ingiusto ad esempio nei confronti degli animali che provano dolore fisico anche loro. Il mio però è l’abbruttimento dell’animo costante, è il tormento interiore. 


Conclusione:

Per ora abbiamo letto le loro versioni contrastanti. Di ognuno abbiamo saputo il vissuto, la sua verità. Non sono verità complementari, che si integrano. Sono verità che si smentiscono, si sbugiardano, si annullano vicendevolmente. Probabilmente è stato un susseguirsi di azioni e reazioni e noi non sapremo mai chi ha iniziato. Vanno ascoltate entrambe le versioni senza giudicare in modo superficiale ed affrettato. Ma forse sono solo due facce della stessa medaglia. Forse uno dei due ha dichiarato delle falsità. Forse entrambi sono in cattiva fede. Forse tutto dipende da un segreto impronunciabile o da un equivoco irrimediabile. Non lo sapremo mai. Chi siamo noi per saperlo? Possiamo fare solo delle supposizioni. Farci ingannare da uno dei due o addirittura da entrambi. Chi siamo noi per soppesare torti e ragioni? Chi siamo noi per prendere le parti dell’uno o dell’altro, magari facendo i faziosi? Chi siamo noi per pensarci invece equanimi? Nessuno dei due capisce i motivi dell’altro. Nessuno dei due capisce l’altro. Nessuno capisce il guazzabuglio dell’esistenza. Forse è questa la causa scatenante del male che gli esseri umani si fanno tra di loro. In fondo alla fine tutte le storie si assomigliano perché siamo tutti collegati. Il celebre aforista Morandotti ha scritto: “Se fosse vero che le sofferenze rendono migliori, l’umanità avrebbe raggiunto la perfezione”. Ma un  giorno ad ogni modo tutto questo finirà e forse i nostri eroi saranno ricompensati. Per ora sono accusatori ed accusati al contempo. Tutto viene complicato dal fatto che ogni uomo è un paradosso senza soluzione. Sono pressoché infinite le sfumature dell’animo e i giochetti della mente che non si può pretendere di ragionare a rigor di logica riguardo alle vite umane. Il mondo è un immenso contenitore di sofferenze umane.  Una domanda sorge spontanea: che ne fa mai l’umanità di tutta questa sofferenza?