A proposito di no-vax e no-greenpass…

Condividiamo su Alessandria today un post della pagina Facebook di Silvia Longo

Non sono tuttologa, né pretendo di detenere verità assolute. Pertanto non mi sono mai pronunciata su questioni scientifiche e mediche, né sono intervenuta sotto i vari post di contatti no-vax e no-greenpass (complottisti e negazionisti sono un discorso a parte). Non ho le competenze per parlare di eventuali effetti a breve e lungo termine dei vaccini, né so di noi cosa sarà, rolls royce rolls royce. Tralasciando il discorso piazza, disobbedienza civile e opportunità di utilizzarle ora e in questo modo, dell’efficacia dei protocolli approntati da chi di dovere, una cosa devo a coloro che si autoproclamano vittime di discriminazione a causa del decreto Green Pass.

Premessa: dalla scorsa primavera, il Green Pass è obbligatorio per accedere come visitatori a strutture residenziali e riabilitative di sorta, tra cui RSA, case di riposo e accoglienza, comunità terapeutiche. 

Chi ci lavora sa quanto è stato difficile proteggere i propri ospiti dal Covid. Un focolaio significa trovarsi a gestire criticità tali da inibire la qualità del servizio, da rendere complicata la minima azione quotidiana. E soprattutto un focolaio spesso significa morti. Chi l’ha saputo solo dai notiziari, può dirsi fortunato. Un computo di morti dice pochissimo, dice nulla rispetto al lutto, alla perdita. I morti non sono un numero. Sono tante vite una per una, vite di persone “fragili”. Anziani, disabili, minori, ammalati, detenuti. 

Persone morte senza aver accanto un parente e senza i riti della compassione, o che per mesi non hanno potuto uscire dalle strutture se non per comprovate necessità (e poi sottoporsi a tampone e isolamento cautelativo), che non hanno ricevuto visita dai loro cari. Persone che non hanno potuto afferire a ambulatori, centri riabilitativi diurni, o ricevere servizi domiciliari. Persone senzatetto e migranti (compresi i lavoratori stagionali) che spesso non hanno avuto riparo.

Chi opera in strutture come quella in cui anch’io lavoro, sa che per chi vi è accolto, sono casa. Che il nostro impegno è volto a far sentire ciascuno, per l’appunto, a casa. Nonostante le restrizioni all’interno della casa stessa. Il dover rinunciare a un abbraccio che significa “io ci sono, sono qui”, il dover imporre il distanziamento anche tra loro, che condividono tetto, pasti e terapie.

In tutto questo, ciascuno ha messo qualcosa di suo, secondo coscienza oltre che per deontologia professionale. Per mantenere alta la qualità dei servizi, perché non venisse meno l’umanità, soffocata dall’ansia continua. Nella qualità della relazione, seppur a distanza, con ospiti e colleghi. Quel qualcosa che costituisse il tuo apporto personale, il valore aggiunto, che fungesse da ammortizzatore, che attutisse l’impatto di quella strana solitudine che, seppur condivisa da milioni di individui, restava pur sempre solitudine. 

Abbiamo stretto un patto di fiducia all’interno delle equipe, impegnandoci per esempio a non frequentare nessuno, fuori dall’ambito lavorativo. Durante i lockdown, noi non abbiamo smesso di lavorare, anzi, abbiamo lavorato il doppio. Ma ci siamo limitati a fare casa-lavoro per mesi. E spesso, abbiamo ridotto all’osso anche la relazione con gli altri membri della famiglia. E so che è stato lo stesso per medici, infermieri, oss, insegnanti, e altre categorie.

A gennaio abbiamo ricevuto la prima dose di vaccino, a febbraio la seconda. Chi pensa che non avessimo paura, sbaglia di grosso. Siamo stati tra i primi, non c’era ancora modo di confrontarci con altri, si sapeva ancor meno di adesso sulle eventuali reazioni avverse. Ma era nostro dovere. Proteggerci e proteggere. Sebbene in quella sala di attesa, e poi nell’ambulatorio, con l’ago che entrava nel braccio, io mi sia sentita piccola piccola. 

L’ordinanza del Ministero della Sanità dello scorso maggio, che rappresenta il tentativo di conciliare le necessità emotive delle persone ospiti e l’urgenza di contenere la pandemia, recita così:

 “Tenuto conto che il perdurare delle condizioni di isolamento sociale e di solitudine rappresenta motivo di crescente sofferenza e fattore di rischio per il benessere degli ospiti, è necessario assicurare un regime di contatti e/o di visite agli ospiti e le persone a loro care, occasioni di uscite fuori dalla residenza, nel rispetto delle misure di sicurezza tenuto conto del contesto epidemiologico dell’area  geografìca di riferimento” (questo per ogni categoria di ospiti di strutture residenziali e/o riabilitative).

Nel dettaglio, per le persone anziane: “l’isolamento sociale e la solitudine rappresentano motivo di sofferenza e importanti fattori di rischio nella popolazione anziana per la sopravvivenza, lo stato di salute fìsica e mentale, in particolare per depressione, ansia e decadimento cognitivo/demenza”. 

Quanta sofferenza. Quanta.

Quando leggo o vedo immagini dei manifestanti no-greenpass, penso che forse a loro manca l’esperienza di essere stati ospiti di una struttura residenziale/riabilitativa/detentiva (o parenti di un ospite) o di un ospedale durante le diverse fasi di questa pandemia. Penso che, per loro fortuna, non hanno una madre, un padre, un fratello in una RSA o in una comunità o in carcere, e che probabilmente non sono malati cronici o portatori di disabilità, e non necessitano di afferire a diversi ambulatori e servizi con una certa frequenza.

Diversamente saprebbero cosa significa. E comprenderebbero il senso del Green Pass, ora esteso all’intera cittadinanza. L’essere trattati tutti con lo stesso metro di valutazione. Tutti a rischio, tutti meritevoli di tutela, tutti responsabili gli uni degli altri. Specie dei più fragili. Altro che mancanza di rispetto e attenzione, altro che “cittadino di serie B” perché non puoi fare come credi, e andare venire entrare dove ti pare, spostarti come preferisci. Le persone discriminate sono quelle di cui ho parlato sopra, non sei tu. Vorrei dirti “fai come ti pare”, ma riesco solo a suggerirti: se scendi in piazza, urla per chi davvero è discriminato. 

N.B. Non risponderò a provocazioni e/o offese.