2.

Tutti i miei libri, di Valeria Bianchi Mian. Scrivi a dott.ssavaleriabianchimian@gmail.com – LETTERE ALLA PSICOLOGA su Alessandria today.

Perché, perché?
Perché diavolo ho scritto un libro sulla maternità surrogata, sull’isteria collettiva, sulle biotecnologie del concepimento, sulla libertà di scelta in sostegno delle donne che non desiderano un figlio, sul desiderio vivo e non necessariamente realizzato e sulle dee dell’antica Grecia?
Te lo spiego.
Chissà cosa direbbe Simonetta Putti a vedersi taggata oggi. Forse, lassù da qualche parte nell’universo, sotto forma di atomi di carbonio intelligenti e ironici, angelo che fluttua tra le nubi ridendo di noi, mi sta leggendo adesso e si sente partecipe.
Chissà.
Raccontare “Utero in anima” non è semplice, oggi che Simonetta non è più tra noi. Dire la complicità che ha intrecciato le idee di tre donne molto diverse ma unite nel filo rosso della creazione di un testo.
L’idea è partita da me.
Ero stanca di tutte quelle lotte fatte di insulti rivolti da un estremo all’altro del pensiero collettivo. Non era possibile discutere a livello psicologico, analizzare le ricerche, comprendere le motivazioni, osservare il simbolo sotteso all’azione, criticare il business, accogliere le differenze, addentrarsi nelle interviste, chiedersi il senso delle cose sociali?
No.
C’era solo guerra, una battaglia contro la mia intelligenza, violenza che castrava la riflessione sul nascere.
Al diavolo, ho detto. Scriviamo un libro? Ho coinvolto Silvana Graziella Ceresa e, insieme, abbiamo cominciato a lavorare sul tema. Siamo andate a Roma, al Congresso Internazionale degli analisti junghiani della IAAP, con una relazione dal titolo “Eve and her womb” – Eva e il suo utero. È stato divertente, stimolante, arricchente dal punto di vista animico. Abbiamo potuto constatare che il tema era toccante un po’ per tutti. Momenti indimenticabili, quelli con Simonetta, con Davide Favero e Stefano Candellieri (memorabile quel viaggio di ritorno senza pause tra le parole e i lampi di genio corali).
Probabilmente, in quei giorni così creativi, Silvana Simonetta ed io ci siamo “fecondate” a vicenda, perché dalle nostre menti è germogliato il progetto, è cresciuto il filo rosso del librino che vedete qui nella foto – accanto all’uroboro sulla mia pancia uovo che fa da sfondo.

Di che parla il libro? Vi riporto le parole di Nerina Garofalo (dal suo sito omonimo).
*
Uno dei libri che ho letto con maggior piacere in questi mesi, per la delicatezza, puntualità e profondità del domandare, prima ancora del dire, è il saggio breve che Simonetta Putti , Valeria Bianchi Mian e Silvana Graziella Ceresa hanno pubblicato non da moltissimo a latere di una ponderata ed equilibrata riflessione esistenziale e politica (in ottica analitica) a partire dal tema della gravidanza per altri (Utero in anima, Lithos, 2016).
Premettendo che anch’io ho una difficoltà a denominare qualcosa che non è ancor compiutamente delineato nella mia percezione etica (poiché è vero che il nome è il luogo dell’accoglienza e del riconoscimento di ogni cosa o persona nella nostra realtà sia soggettiva che sociale), scelgo questo fra quelli possibili perché contiene il vero nucleo dello spostamento di senso che questa pratica medica ed economica introduce nel flusso di generazione, accompagnamento alla nascita, percezione di sé nel femminile e maschile e, infine, nella vita intra ed extrautero della persona che sarà “poi” nata.
Accompagnate nella loro restituzione pubblica di un pensare collettivo dalla bella prefazione di Francesco Montecchi e dalla ricca Appendice di Erika Czako, le tre analiste di area junghiana pongono con grande coraggio, fuori dal pericolo della classificazione sterile e delle facili etichette, la questione di una vitalità e mortalità personali, assolutamente umane, in qualche modo forzate dalla tecnica e dalla esasperazione dei desideri di salute, longevità, benessere e fertilità come luoghi di una scommessa onnipotente.
Scommessa capace di ridefinire il sentimento della persona, nel suo femminile e parimenti nel maschile, nel proprio andare ad abitare mondi, ed ancor più questo specifico mondo nel quale, storicizzati, ci troviamo residenti.
Quale che sia la ragione intima del nostro pensare, credo davvero valga la pena arricchirsi nell’ascolto di una così accogliente culla di riflessione, un luogo madre capace di ospitare i pensieri più scomodi, prima di arrivare a comprendere se e come, su questioni così controverse e delicate, si possa arrivare a un pensiero operante e definitivo.
Per quel che mi riguarda, una scelta su questi temi, in nome di una ragione, non è facile fare. Credo di essere destinata ad abitare, in questo senso, un continuo e inesausto domandare a me stessa e fuori.
Come madre adottiva, come donna che ha desiderato l’accoglienza di una maternità non biologica come maternità privilegiata nella mia storia personale (scelta, desiderata e vissuta, con un profondissimo sentimento del vero), mi interrogo sul tema del dare la vita, della procreazione, della genitorialità, del corpo, della maternità, del senso e dell’istinto pressoché di continuo.
Ma sempre, nonostante le asperità di una rivisitazione dei concetti di presente, passato, memoria, tempo, istinto e cura, con una felicità immensa. Come portatrice di un dono che mi viene da un’altra vita, ma anche, e purtroppo, da molto dolore. Una vicinanza e una felicità che nascono da una separazione e da una perdita. Da uno strappo.
Ci confrontiamo, noi tre, con una precisa consistenza familiare, col dover spesso fare i conti con lo sguardo “altro” su tutto questo. E lo sguardo è in qualche modo uno sguardo giudicante. Benevolo, assertivo, complimentoso, ma quasi mai naturale, immediato, senza domande e neutro. Mentre noi, continuamente vorremmo (credo), ospitare la naturalezza di una sfera che è solo nostra, e chiede e dice il diritto ad esser visti e riconosciuti per ciò che siamo ogni giorni: un padre, una madre, un bambino che è ora un meraviglioso ragazzo, che è nostro figlio. Non nato da noi, ma che ci ha fato nascere (a prezzo di molto dolore suo, in una una inversione nella narrazione del parto) come genitori adottivi ed accolti. Riconosciuti. Nessuno, più di nostro figlio, opera questo riconoscimento, prezioso e dolcissimo, ogni giorno.
Ora, perché pongo questo accanto alla ricchezza ospitante del pensiero di Simonetta Putti e delle sue colleghe e colleghi.
La gravidanza per altri, a differenza della procreazione eterologa, introduce un tema di non semplice risoluzione. E il tema, mi sembra esser quello dello strappo. Per quanto consensuale nella madre ospitante, pur sempre esistente, con ricadute inconscie non prevedibili, e per certo non consensuale nel feto che diviene bambino per nascere, infine in una trinità sin troppo umana. Sterilizzata, deprivata del concetto di perdita dolente, ed economicamente gestita.
La trinità che vede in gioco una donatrice di ovulo, che può essere in alcuni casi la madre terminale nel processo di procreazione, una seconda madre che alimenta, e vive, la gravidanza (con il suo indotto di linguaggi ed esperienze corporee ed interiori), e a suo dire dona, restituisce, consegna (a un padre, due padri, due madri, un padre e una madre) ritrovati o incontrati al momento della nascita. (per leggere il finale: https://www.google.com/amp/s/nerinagarofalo.com/2017/04/13/utero-in-anima-la-riconquista-del-limite-come-orizzonte/amp/).

Il libro è ancora in commercio e lo trovi in tutti gli store online. Lithos Edizioni, 2017.