Racconti: “Un’amicizia lontana”, di Bruno Mattu

Mi permetto di pubblicare un breve racconto che scrissi nel 2011 per un concorso avente come tema il Mare 

“Un’amicizia lontana”

Era incapace di stare fermo, strepitava e si volgeva continuamente avanti e indietro, quasi indeciso se andare o ritornare sui suoi passi. Ero di nuovo davanti il suo incedere, quasi nel limite in cui giungevano le sue umide parole. Lambiva con i discorsi le punte delle mie scarpe. Avrei voluto rispondere con il calore delle dita, ritraendole al contatto con la sua freschezza, ma troppa era la fretta che pervadeva il mio tempo. Per lui quasi non aveva senso il trascorrere dei giorni, delle stagioni o degli anni, se non nella differenza tra l’essere solo o circondato da bagnanti che gli andavano incontro. 

Ero stato anche io immerso nelle sue acque, a lungo nelle giornate dominate da un sole caldo e intenso, affascinato dalla frescura e dalla immensità che pervadeva da ogni punto ove lanciavo il mio sguardo ed in cui, regolarmente, lo ritraevo a stento, smarrito. 

Ne avevo solcato la superficie, per un mese intero, in ogni giorno dall’alba al tramonto, con un canotto che tutte le mattine gonfiavo, senza sentire la fatica e che la sera, a malincuore, riponevo nella sacca. Venivo rapito dall’odore di salsedine che mi penetrava dalle narici, che inebriava i miei sensi fino all’entusiasmo e non c’era nulla che mi potesse trattenere dall’ebbrezza di infrangere la schiuma delle onde con la sola forza delle braccia, applicata con prometeica determinazione ai lunghi remi di legno. Quanto giovanile sprezzo del pericolo doveva agitare tutti i sobbalzi che faceva quell’esile scialuppa e quante volte la forza di quei cavalloni mi aveva respinto nelle giornate di burrasca, impedendomi l’ingresso e facendomi miseramente naufragare sulla battigia. 

Tanto avevo dovuto imparare e in fretta sugli umori dei suoi venti repentini e sulle correnti che trascinavano quella modesta imbarcazione ed il suo fragile contenuto lontano dai miei intenti. 

Nei giorni di bonaccia, era meraviglioso solcarne le acque, il rumore dei remi che fendevano la superficie, ne accompagnavano il placido movimento verso l’orizzonte e non era raro il ritrovarmi sperduto sopra acque profonde mentre la spiaggia con i radi ombrelloni si nascondeva alla vista. 

Giornate intere vi avevo trascorso, cullato dal suo dondolio, desiderando che il sole rallentasse il lento declinare per farmi assaporare il più a lungo possibile l’intensità di quegli attimi di spensieratezza. Ne sentivo il soffio, disteso sul fondo di quella imbarcazione, mentre tenevo appena i due remi con i polpastrelli raggrinziti, nello sciabordio delle sue acque. 

Quanto sudore e quanta salsedine aveva indurito la mia pelle sempre più scura, man mano che trascorrevano le settimane. Le grida dei gabbiani accompagnavano le mie lunghe remate oltre la linea delle barche dei pescatori e respiravo intensamente quella sconfinata distesa azzurra, quasi trattenendola tra gli alveoli. 

Il momento più difficile era il rientro, un po’ perché mi dispiaceva scendere da quel mondo sospeso, un po’ perché le onde, che a largo si intravvedevano appena scivolare lievi sotto la chiglia, facendola leggermente sussultare, nei pressi della spiaggia, si infrangevano con spettacolari riavvolgimenti di flutti colmi di schiuma e di schizzi, trascinando in questo gioco tutto quello che si trovavano sopra e davanti. La riva era anche il luogo più affollato di gente, dove quasi tutti si fermavano ad incontrarlo ed era problematico trovare un varco per l’approdo senza rischiare di urtare, o peggio investire qualcuno, mentre era meno governabile l’imbarcazione. 

Avevo dovuto imparare a rientrare. 

Era stato un maestro nel farmi capire dove mi dovevo indirizzare. Quelle volte che non gli avevo dato ascolto, era stato anche capace di farmelo notare, sempre con la sola forza delle sue parole fatte di ondosità e, nonostante la testardaggine della mia ostinazione, avevo dovuto ubbidire. 

Ora lo guardavo come si guarda un vecchio amico, dopo tanto tempo che non lo si vede. In silenzio, gli occhi spinti nel più profondo dei suoi orizzonti a cogliere in un attimo tutta la sostanza di un vissuto. Con le orecchie spalancate a quel leggero vento, ne percepivo i sussurri e con il naso e la bocca aperta ne inspiravo in pieno il senso, inebriando ancora una volta il mio animo, che sussultava nuovamente, nonostante il torpore di una vita relegata tra gli spazi angusti di una metropoli. 

Il canotto giallo non c’era più, forato e riparato più volte con amorevole pazienza, era infine rimasto per anni in soffitta, dove il tempo ed i topi ne avevano facilmente dilaniato la pur robusta gomma. Quando finalmente lo avevo ricercato e tirato fuori dalla sacca, srotolandolo in tutta la sua lunghezza, avevo capito, con profondo dispiacere, che quella meravigliosa esperienza non si poteva più ripetere. 

Ne avevo anche comprato un altro e avevo provato a solcare le acque, ma non era la stessa cosa: non solo il colore o la conformazione erano diversi, tutta l’aerodinamica mutava e con essa la forza necessaria per imprimere il movimento. L’eleganza dell’altro era ormai persa: questo sembrava una gigantesca ciambella, gonfia fino all’inverosimile e con la prua eccessivamente ricurva, adatta più ad infrangere l’impeto delle ondate in riva, che a navigare placidamente sopra una distesa tranquilla. 

Era ancora giovane questo giorno, la spiaggia sgombra di tutti i bagnanti che l’avrebbero affollata. Lui placido rifletteva ciò che vi si specchiava: il cielo, il sole, alcuni voli d’uccelli. In mano non avevo che pochi granelli di sabbia e li liberavo, facendoli cadere verso l’acqua, quasi un saluto ad un’amicizia profonda, ma così lontana. 

Camminando incontro alla strada guardavo i sorrisi di coloro che arrivavano, tutti rivolti a lui, alla sua immensità, che tanto ritemprava. La macchina mi aveva nuovamente imprigionato e mi conduceva verso quei piccoli spazi ristretti in cui avevo riposto il seguito della mia vita.