Aveva 17 anni. Era un ragazzo. Un ragazzo insicuro e smarrito. Viveva in una cittadina. Ma più che cittadina sarebbe stato meglio definirlo un paesone, un paesone dove tutti grosso modo si conoscevano di vista. Diciamo che tutti più che conoscersi pensavano di conoscersi. Quella cittadina non era un piccolo paesino in cui tutti si conoscevano bene e in qualche modo si volevano bene, né una grande città in cui hai tutte le libertà, giri l’angolo e nessuno sa niente di te. La mentalità comune era retrograda, antiquata, chiusa. Erano gli anni ottanta. Come diceva Faletti al Drive in “il paese è piccolo e la gente mormora”. Qualche altro sosteneva che la calunnia fosse un venticello. Qualche altro ancora saggiamente ricordava che a forza di malignare qualcosa restava. Era un piccolo mondo concentrazionario. Una volta il ragazzo aveva testato quanto bastava poco per diffondere una voce di qualsiasi natura. Aveva sparso una voce innocente e cioè che un suo amico, Dario, stava insieme ad una certa Tania. Ebbene nel giro di una settimana lo sapevano tutti, anche se nessuno sapeva chi fossero Tania e Dario. Poi tutto era stato messo a tacere. A lui avevano sparso la voce che era gay. Era imbranato, goffo con le ragazze. Non godeva di una grande reputazione. Avevano iniziato in quattro ragazzi e la voce era cresciuta in modo esponenziale. Molto probabilmente era stata una questione di antipatia o addirittura per un odio mai sopito nei suoi confronti per delle ragazzate. Per molti era un divertimento molto spassoso sparlare di tizio, caio o sempronio. Non venivano di certo valutate le conseguenze sociali, psicologiche, sentimentali. Quella voce era arrivata addirittura anche agli orecchi dei suoi insegnanti di liceo, che sembravano divertiti e prestavano attenzione a tali dicerie. Gli autori di questa voce giravano e spergiuravano che lui fosse gay, che tutto fosse vero, che loro erano testimoni. Passavano i giorni e la voce era sulla bocca di tutti. Oramai tutta la cittadina lo sapeva. Inizialmente lui era quello che dicevano che fosse gay, ma per un ovvio automatismo era diventato quello gay sicuramente. Ma il ragazzo non era gay. Era solo inesperto con le ragazze. Non ne aveva avuta ancora una. Ero sviluppato tardi, per anni era stato il più piccolo della classe fisicamente. Quella era stata la sua fregatura. Direte voi che in fondo che qualche ragazza avrebbe potuto abbassare le sue difese perché lo considerava gay e lui avrebbe potuto approfittarsene, ma questo nel 99% dei casi accade solo di fronte a uomini molto effeminati e/o a gay dichiarati: lui non apparteneva a nessuna delle due categorie. Oramai la sua reputazione era stata rovinata per sempre. Sarebbe rimasto addosso con quella voce, con quella diceria. Erano gli anni ottanta. Pochi gay si dichiaravano, soprattutto nei piccoli paesi. C’era un alto tasso di suicidi tra i gay. Una diceria come quella che lo vedeva coinvolto era una cosa molto antipatica. I pochi amici erano diffidenti nei suoi confronti ed avevano paura a loro volta di essere oggetto di pettegolezzo. Avevano paura di frequentarlo. Ogni suo gesto era sospetto. Oggi col senno del poi e con la conquista di diritti civili inalienabili una voce come quella potremmo definirla legittimamente un pettegolezzo, una diceria, ma a quei tempi per le sue conseguenze sociali veniva considerata da alcuni una calunnia aggravata, una diffamazione. Non c’era nessuna colpa o peccato nell’essere gay, eppure questa conquista sarebbe avvenuta anni più tardi. Allora avere un figlio gay o essere gay era una macchia indelebile. La popolazione si sentiva legittimata a sparlare, additare, giudicare. Bisognava mettere in conto la noia e l’ignoranza della provincia. Per molti il pettegolezzo era un vero controllo sociale, un modo che hanno di sopraffare il prossimo le persone meschine e mediocri. Tutti erano colpevoli e nessuno era colpevole. Nessuno poi era perseguibile legalmente. Ma poi quale era il problema? Anche se fosse stato gay la gente aveva il dovere di farsi i fatti propri. Non ci sarebbe stato niente di male.  Il proprio orientamento sessuale è come la propria corporatura: la corporatura non la decidiamo noi e non c’è niente di cui scandalizzarsi. La questione però è che quella voce era falsa, che lui non era gay e la qualità della sua vita era danneggiata. Lui comunque era il presunto gay. Se avesse avuto la maturità di un uomo navigato se ne sarebbe infischiato di tutto ciò, avrebbe saputo che se si viene sputtanati in un posto ci sono ancora altri mille posti in cui vivere. Ma lui era solo un ragazzo.  Mentre stavano per diffondere la voce per sfortuna gli era stata soffiata una certa Eleonora, che era una bella ragazza e a detta di molti già emancipata. Un suo amico aveva saputo per vie traverse che Eleonora era cotta di lui, ma il ragazzo non aveva agito in modo tempestivo. Aveva aspettato qualche giorno di troppo e Eleonora si era messa con un altro. Ad onor del vero aveva avuto un’altra occasione con una certa Serena, che si era dichiarata a lui alla festa dell’Unità, ma lui aveva deciso che non era proprio il caso, che non gli piaceva per niente. Forse aveva sbagliato perché anche alcuni suoi amici avevano sospettato ancora di più sul suo orientamento sessuale. Se si fosse messo con lei la voce sarebbe finita. Tutto sarebbe finito. Ma non si possono fare le cose controvoglia. E se poi lei fosse rimasta incinta? Sarebbe diventato padre suo malgrado e avrebbe dovuto stare con una ragazza che non solo non amava ma che non gli piaceva nel modo più assoluto. Aveva avuto anche un’altra opportunità, ma questa volta non l’aveva sprecata; era stato solo sfortunato. Aveva conosciuto una certa Ilaria, che però gli era stata soffiata da un bullo belloccio e questo lo stesso giorno che aveva saputo di essere stato promosso a giugno: croce e delizia del destino. Insomma era fuori gioco. Era fuori dal giro. Il ragazzo pensava a tutte queste cose, mentre si recava in una città più grande, poco distante. Aveva preso il treno e durante il viaggio aveva guardato fisso fuori dal finestrino e aveva continuato a pensare. Quindi aveva preso un taxi. Era arrivato a destinazione. Lo aspettava una certa Susy. Era la sua prima volta. Ci aveva parlato per telefono. Aveva preso il suo numero da un quotidiano. Si sarebbe immaginato una prima volta più romantica con una sua coetanea. Invece gli toccava una quarantenne. Per giunta gli toccava anche pagare. Ma non era il momento di fare lo schizzinoso. La verginità era qualcosa da togliersi di dosso quanto prima. Non aveva alcun valore per un uomo. Non era come per la donna. Questo concetto lo ripeteva mentalmente in modo ossessivo. Non sapeva quali erano le sue fattezze. Avrebbe voluto farlo con una ragazza di cui era innamorato, ma non poteva più perdere tempo, non poteva attendere. Suonò il campanello. Aprì la porta. Era al terzo piano. Salì. Le scale di corsa con il cuore in gola. Era ansioso ed emozionato. Gli tremavano le gambe. Lo attendeva una donna bionda di media statura, né bella né brutta: una donna qualsiasi con l’aria molto vissuta. Era truccata in modo vistoso. Lui si mise sotto. Lei comandava il gioco. Mentre faceva sesso a tratti guardava il soffitto, a tratti si guardava riflesso in uno specchio dell’anta dell’armadio e gridava ossessivamente: “non sono gay. Non sono gay. Ve lo faccio vedere io. Bastardi!”