PUDORE

Se qualcuna delle mie povere parole
ti piace
e tu me lo dici,
sia pur solo con gli occhi,
io mi spalanco
in un riso beato,
ma tremo
come una mamma piccola giovane
che perfino arrossisce
se un passante le dice
che il suo bambino è bello.

ANTONIA POZZI, 1 febbraio 1933

L’immediatezza con cui esprime i propri sentimenti non è frutto di un’ispirazione improvvisa: a tale risultato si arriva con un sapiente e meditato lavoro di lima. Mi limito a evidenziare la suprema e inarrivabile delicatezza, di un’intensa e affascinante femminilità, che vapora dall’intera lirica.

Memorabile l’immagine (paragone + relativa + condizionale + di nuovo relativa) in chiusura: un lampo fissato sulla carta per l’eternità. Il pudore dei sentimenti, la ritrosia di chi non vuole far sapere all’altro cosa prova.

All’inizio dell’innamoramento non si tratta solo di riservatezza, c’è anche la paura di essere respinti, oppure che la condivisione da parte dell’altro sia inferiore alle attese. Antonia infatti scrive “povere” parole, non perché non sappia esprimerle, bensì perché le riduce all’essenziale.
Nel finale si paragona a una giovanissima mamma, la quale si vergogna, o meglio si imbarazza, sentendo lodare il proprio bambino, di cui peraltro è orgogliosa. La Pozzi si innamorò tre volte, solo la prima ricambiata, ma sfumata per la feroce opposizione del padre, e in tante poesie manifesta il suo desiderio di maternità, mai realizzato.
Antonia si rivolge all’uomo di cui è innamorata, vanamente. Manca la punteggiatura, come nel primo Ungaretti, ma, a differenza di lui, che lasciava le parole “a tremare negli spazi bianchi”, qui sono le singole proposizioni che vengono scandita e separate dagli accapo.