«Donne rurali da cantare», di Mimmo Mòllica
Ho scritto «Quand’ero in campagna» qualche anno addietro, affascinato dalle impareggiabili atmosfere di Georges Brassens nelle sue canzoni, ma pure dalle relative reinterpretazioni in milanese di Nanni Svampa. Nei versi di Auprès de mon arbre sentivo la dolorosità del transfuga, dolorosità tutto sommato indiretta, essendo io ‘inurbato di seconda generazione’. Ma avvertivo le parole di Brassens nella carne, come una spina nel cuore.
“Sentivo la mia terra vibrare di suoni, era il mio cuore”, come il suonatore Jones di E.L. Masters, cantato da Fabrizio De Andrè.
Quelle vibrazioni mi hanno sempre accompagnato nella vita. Sapevo che ad un chilometro da me c’era la ‘foresta’, il luogo dove rifugiare l’anima e la mente ogni volta che il corpo me ne faceva richiesta, e mi confortavo a tale pensiero. Ma non era esattamente la «realtà rurale» di quelle donne e di quegli uomini che come il «castagno ripudiato» sono portatori di valori, conoscenze, bontà e tradizioni, senza cui io non sarei potuto stare al mondo.
«Donne rurali» che quando passava il postino con le lettere, una volta a settimana, se chiedeva un’informazione, lo facevano prima accomodare, offrendogli acqua, vino, pane e formaggio, dopodiché rispondevano: «Qua!». Segno che era già arrivato.
Le avrei sposate tutte
Donne rurali che mi sono sfuggite per mia insipienza: oggi le avrei sposate tutte. O almeno qualcuna. Ma apprezzarle, capirne il valore, considerarle «patrimonio umano dell’umanità», patrimonio culturale di tradizioni vive trasmesse dagli antenati, patrimonio di linguaggio, di arti e di pratiche sociali, quello sì. L’ho sempre creduto.
Donne rurali, portatrici di dialogo, di rispetto, di modi di vivere. Portatrici di ricchezza di conoscenza, di buona volontà, di sacrificio, di competenze che vengono trasmesse da una generazione all’altra.
Ed io…
Io fui una carogna, / è la santa verità, / la mia cara compagna / l’ho lasciata là. /
Era forse un po’ all’antica, / bella poi non mi pareva, / perché cipria sopra gli occhi / Nina non se ne metteva. / E giro la campagna, / via dalla città, /
cerco una compagna / come quella là…
“Qualsiasi cosa facciano le donne devono farla due volte meglio degli uomini per essere apprezzate la metà”, affermava Charlotte Witton, sindaco di Ottawa. Credo sia vero. Ritengo di poterlo affermare giacché in casa mia la «ruralità femminile» è… di casa. Donne scarmigliate e fiere, sapienti come un uomo non sarà mai, direbbe Virginia Woolf.
Del resto Georges Brassens è «portatore di ruralità» e i suoi testi poetici si addentrano nelle pieghe più intime e profonde dell’umanità debole, resa fragile dalla povertà, ma pure dalle magagne.
La sua discendenza è da una cittadina della Basilicata, Marsico Nuovo. Nato a Sète, nella Francia del sud, Georges Brassens era figlio di Jean-Louis Brassens, un muratore francese, e di Elvira Dagrosa, una casalinga italo-francese, figlia di emigrati da Marsico Nuovo, in provincia di Potenza (Basilicata), non lontano da Matera, Capitale Europea della Cultura 2019.
È da questa amena cittadina della Basilicata che sono partiti per Sète i genitori di Elvira.
La madre Elvira trasmise a Georges la passione e l’amore per la musica, cantando canzoni napoletane e arie tratte da opere e operette. Ed ecco che la «ruralità femminile» è foriera di universalità nella poesia e nella musica. Ed è certo per questo che le «donne rurali» fanno di noi, uomini del Nord, del Sud, del Centro… del Mondo.
Mimmo Mòllica
«Quand’ero in campagna»
Che bella scoperta,
che felicità,
lasciai la campagna
per stare in città.
Non volevo più restare
sotto un tronco di castagna,
mi sembrava troppo duro
fare vita di campagna.
Mi piaceva avere
il mobilio in tec,
roba che ci arriva
perché ora c’è il Mec.
Ma ora penso con dolore
al mio tronco di castagna
e vorrei tanto tornare
a stare in campagna.
Quand’ero in campagna
mi sentivo un re,
non avrei dovuto mai
abbandonar la mia terra!
Quand’ero in campagna
non avevo guai,
prima non ne avevo
e ora tanti, sai!
Io fui una carogna,
è la verità,
la mia cara compagna
l’ho lasciata là.
Era forse un po’ all’antica,
bella poi non mi pareva,
perché cipria sopra gli occhi
proprio non se ne metteva.
E giro la campagna,
via dalla città,
cerco una compagna
come quella là,
che, va bene, mi lasciava
le formiche dentro al riso,
però quando mi baciava
era il paradiso.
Quand’ero in campagna
mi sentivo un re,
non avrei dovuto mai
abbandonar la mia terra!
Quand’ero in campagna
non avevo guai,
prima non ne avevo
e ora tanti, sai!
Quand’ero in campagna
stavo in un soffitto,
senza condominio
né contratto scritto,
ma vedevo il firmamento,
era una grande fortuna,
e di notte mi pareva
di parlare con la luna.
Ora invece parlo
solo a quattro muri
e col lampadario
di impegni futuri,
ma non vedo il firmamento
e non trovo la fortuna,
sono cinquant’anni che
non vedo più la luna.
Quand’ero in campagna
mi sentivo un re,
non avrei dovuto mai
abbandonar la mia terra!
Quand’ero in campagna
non avevo guai,
prima non ne avevo
e ora tanti, sai!
Mimmo Mòllica