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Editoriale Agostino Pietrasanta

Il 13 settembre scorso, durante la visita in Slovacchia presso la nunziatura di Bratislava, papa Francesco ha incontrato e dialogato con 53 gesuiti locali. Dopo aver precisato di essere ancora vivo, nonostante le speranze dei suoi “nemici” più cari, ha anche resa pubblica la loro condotta durante la sua  ben conosciuta degenza ospedaliera. Alcuni di loro definiti “prelati” (nomina non semper consequentia rerum) preparavano il conclave. E sul punto il papa ha chiosato con ostentato divertimento: atteggiamento di tolleranza, nella spirito della carità e della misericordia che va predicando; certi suoi predecessori avrebbero usato una diversa energia anche in applicazione di sanzioni canoniche ben previste. Francesco però, in linea con tutto il suo comportamento pastorale, si è comportato e si comporta di conseguenza anche con certi e ben individuati “prelati” (virgolettato dal momento che, per l’appunto, “nomina non semper consequentia rerum”).

Non stupisce che quasi tutti i media si siano immediatamente resi conto della rilevanza di pruriginoso interesse della questione e dunque che su tale e quasi esclusivo punto della chiacchierata del papa si siano sbizzarriti. Qualcuno però, e con ben altro spirito, ha rimarcato un diverso passaggio. A una garbata provocazione di un suo “confratello” gesuita, Francesco ha risposto: “…Alcuni mi accusano di non parlare della santità. Dicono che parlo solo del sociale e che sono un comunista. Eppure ho scritto una esortazione apostolica intera sulla santità, la Gaudete et exsultate”. Ovviamente i nemici più cari sanno benissimo della esortazione apostolica (“Gaudete et exsultate” del 19 marzo 2018), ma continueranno assieme, laici e chierici a definire Francesco come comunista; la definizione ha riscosso non poca fortuna anche quando è stata rivolta (ricordate!) a un vescovo di questa Chiesa locale e di un gregge anche troppo smarrito oltre che sempre più piccolo.

Ciò posto l’obiezione sul sociale viene anche avanzata da persone tanto rispettose quanto serie e merita qualche considerazione e alcune proposte di confronto.

Ammetto che non è mancata una pastorale che ha dato impressione di privilegiare il cammino di condivisione col popolo cristiano e con gli uomini sempre compagni di viaggio nella storia della salvezza; rilevo che il sacerdote troppe volte non ha più costituito un riferimento di interpretazione del mistero. Ho ascoltato, tanto per esplicitare, un passaggio delle prediche del card. Cantalamessa il quale si chiedeva se si ricorda ancora che esiste una vita eterna e una resurrezione della carne. E forse su queste cose bisognerebbe ragionare, ma senza dimenticare la promessa di una presenza nella storia che è carattere costitutivo del Cristianesimo.

Il vescovo di questa Chiesa, tacciato di “comunismo” incorreva nelle ire (alla lettera) dei suoi detrattori solo perché ricordava al gregge “smarrito” che il parametro del giudizio, assolutamente evangelico e cristologico, trova un’elencazione diretta, nonché al di fuori di ogni accomodamento ecclesiastico e clericale, nel capitolo 25 di Matteo. I benedetti del Padre saranno coloro che hanno provveduto all’affamato, all’assetato, allo straniero, al carcerato e via di seguito; a coloro cioè che hanno saputo amare non per un sentimento e un’emozione, ma per evangelica sequela di Cristo.  

Siamo giunti, io credo, al nocciolo del ragionamento soprattutto grazie alla “Fratelli Tutti”. Esiste una fratellanza universale, una fratellanza che non esclude nessuno, non già per una scelta umana di solidarietà (se mai la solidarietà ne scaturisce di conseguenza), ma per un dato di fatto di ispirazione cristologica. La fratellanza non è un passaggio apicale della socialità, non è insomma una scelta sociale, deriva dalla comune figliolanza dell’uomo in capo al Padre di tutti dal momento che tutti siamo, secondo il Cristianesimo, figli di Dio. E i figli dello stesso Padre sono inevitabilmente fratelli, buoni o no, fedeli o no, credenti o meno.

Non mancano tuttavia altre obiezioni, assolutamente rispettose e degne di ascolto da parte di coloro che vedono con preoccupazione le chiese vuote e chiuse. Lasciamo perdere le validissime ragioni di chi sottolinea la mancanza di sacerdoti; lasciamo anche le ragioni già più discutibili di chi giustifica di conseguenza il fatto che la chiese sono troppo spesso chiuse (magari una più convinta fiducia nei laici potrebbe risolvere qualche problema: per tenere un mazzo di chiavi non necessita l’ordinazione sacerdotale! E non mi si dica che nessun laico sarebbe disponibile). Il problema andrebbe affrontato tenendo conto di altra e diversa considerazione a cominciare dagli scandali che stanno a infamia degli uomini e non solo sacerdoti che operano nella Comunità. Il fatto però più decisivo, almeno a mio sommesso parere, sta nell’esempio quotidiano di sedicenti cristiani che non danno nessun segnale di concordia e ne danno troppi di discordia. Molto spesso senza alcuna attenzione al monito che affida la testimonianza cristiana all’amore e alla fratellanza, si cade nella tentazione denunciata da Paolo nella prima lettera ai Corinzi: qualcuno è di Apollo, qualcuno è di Cefa, altri di Paolo e altri contro i precedenti pretendono di essere loro e solo loro di Cristo.

In altri tempi tutto questo veniva (forse!?) tollerato, oggi non più: è di scandalo!